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Il Medioevo, il XVI Secolo e l’opera di Hobbes

Nel documento Le sanzioni amministrative non pecuniarie (pagine 41-48)

Durante l'Alto Medioevo la sanzione pecuniaria costituì in pratica l'unico strumento adottato in modo costante e debitamente regolamentato; in questo periodo i delitti contro la proprietà sono pressoché inesistenti, e il compito del diritto è fondamentalmente quello di dirimere controversie tra eguali al solo scopo di mantenere la pace pubblica, cosa che avviene solitamente tramite una compensazione economica a favore della parte offesa. Il crimine era quindi considerato solo nel suo contesto individuale: in sostanza la giustizia penale

medievale ruotava intorno al concetto di vendetta personale19. Durante

il Basso medioevo le sanzioni pecuniarie vennero sostituite, per motivi economico-sociali, da un ampia gamma di crudeli pene corporali: se le pene pecuniarie del primo medioevo riflettono i rapporti sociali di un

mondo contadino scarsamente popolato, in cui è presente una

diffusione abbastanza equilibrata della ricchezza, la ferocia delle pene corporali del secondo medioevo rappresenta il risultato della rilevante crescita della popolazione, che portò “… alla occupazione di tutto il

terreno e al sovraffollamento dello spazio vitale esistente. Si determina una frattura di classe tra ricchi e poveri, nasce una classe di lavoratori senza alcun avere che si fanno concorrenza tra di loro facendo

19

Michael Weisser : Criminalità e repressione nell'Europa moderna, Il Mulino, Bologna, 1989,

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ribassare il salario ... si creano orde di mendicanti, disordini sociali, rivolte. ... La criminalità mutò completamente il proprio aspetto. Ne risultò un rapido incremento dei reati contro la proprietà. Lentamente al posto delle pene fino allora comminate, si sostituirono la flagellazione,

la mutilazione e la pena di morte, dapprima ancora redimibili con il

denaro, poi come strumento di pena universale, il quale solamente sembrava in grado di garantire una certa difesa contro la criminalità

delle crescenti masse dei diseredati”20.

Inoltre in questo periodo si presentano anche altri eventi fondamentali, quali la centralizzazione del potere, la consequenziale necessità di far percepire ai sudditi l'autorità dello Stato e quella di trarre vantaggio economico dalle pene pecuniarie comminate nei confronti di coloro che violano la pacifica convivenza. Con lo spostamento della gestione del potere penale dalla comunità locale a un organismo centrale sempre più influente, la pena pecuniaria si era trasformata da una compensazione della parte offesa in un metodo per far confluire denaro nelle casse dello Stato, riservato però ai soli benestanti, mentre le pene corporali divengono la tipica sanzione da comminare nei confronti di coloro che non sono in grado di ottemperare a quell'obbligo21.

La situazione economico-sociale cambia di nuovo

completamente verso la metà del XVI secolo; l'offerta di lavoro si fece più scarsa, sia in conseguenza dell'allargamento dei mercati derivante

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Georg Rusche, Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale, in "Dei delitti e delle pene. Rivista di studi sociali, storici e giuridici sulla questione criminale”, Bologna, 1976, Vol. II-III, pagg. 529-530.

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È il caso di segnalare la posizione, proprio in materia di sanzioni, che in questo periodo assume il diritto canonico: la sanzione maggiormente comminata è quella carceraria, ma la reclusione avviene soprattutto all‟interno dei monasteri. Monasteri e prigioni vescovili erano destinati principalmente ai chierici che avevano commesso reati ed agli eretici, chierici o laici; è proprio in questo periodo che la storia degli istituti penitenziari della chiesa si intreccia con quella dell'inquisizione. Il regime carcerario del diritto canonico era estremamente duro e prevedeva espressamente, a scopo di espiazione e penitenza, la sofferenza fisica del condannato, che era tenuto in isolamento assoluto, in locali stretti e privi di ogni comodità, senza potere fare nulla e a rigoroso digiuno. Il primato della Chiesa cattolica in questo campo era dovuto al fatto che essa, "disponendo della giurisdizione criminale sui chierici e non potendo lecitamente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere al carcere e alle pene corporali. Cfr.Georg Rusche e Otto Kirchheimer: Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, pag. 135.

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dalle scoperte geografiche e dal flusso dei metalli pregiati, sia a causa delle guerre e delle epidemie, che causarono una drastica riduzione della popolazione. Cominciò così un periodo di acuta carenza di manodopera. Non è un caso se nel periodo moderno si affermano tre particolari forme di sanzione, quali la servitù sulle galere, la deportazione ed i lavori forzati, tutte attività che comportano lo sfruttamento della forza lavoro dei condannati. Tra le varie cause di tale mutamento nella punizione vanno annoverate, oltre al pur significativo fine di lucro, sia la dissoluzione della comunità feudale, ed il progressivo affermarsi dello Stato nazionale, che si concretizzerà nella formazione degli Stati Assoluti, con la conseguente necessità di trasformare la giustizia da affare privato in questione pubblica, sia l'affermarsi dell'etica protestante, che sconvolge sia la concezione del lavoro, sia l'atteggiamento sino ad allora tenuto nei confronti della mendicità e delle classi povere in generale. È questa l'epoca di passaggio dalla società medievale a quella industriale; comincia a formarsi, seppure a livello embrionale, quella classe che in seguito sarà appellata col termine 'proletariato'.

L‟esperienza delle monarchie assolute seicentesche lasciò alle spinte illuministiche sistemi giuridici caratterizzati da un elevato numero di fonti del diritto, da una pluralità di soggetti giuridici e di beni giuridici e da una generale tendenza all‟antinomia, proprio dovuta al proliferare di disposizioni spesso incomplete e incoerenti. Bisogna peraltro riconoscere all'età dell‟Assolutismo molti meriti, soprattutto per quanto riguarda le teorizzazioni in materia di diritto penale. Uno dei contributi più importanti dell'illuminismo sta nell'aver posto in discussione il sistema giuridico tradizionale e nella elaborazione di una nuova ideologia; la critica illuministica spesso porta con sé il desiderio di riformare o addirittura di rivoluzionare il proprio oggetto di attenzione, sia esso una disciplina accademica, il diritto, lo stato. L‟illuminismo si muove dalla fiducia che la ragione umana sia in grado di migliorare anche radicalmente le istituzioni forgiate dalla tradizione e dalla storia. La fiducia nella ragione si combina con l‟individualismo, la tesi etico-

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attribuendogli cospicui diritti verso la società e lo stato, nonché, su un piano di uguaglianza, verso gli altri individui.

Gli illuministi introducono il concetto di diritto naturale, concepito come un catalogo di diritti soggettivi astratti e universali (tra i quali la libertà e la proprietà, di cui gli individui godono anche prima della nascita della società civile); l'elaborazione razionale di tali diritti si traduce nell'affermazione di regole morali e religiose, che si fondano sulla fiducia incondizionata nella ragione, sulla tolleranza morale e religiosa, sulla critica al fanatismo religioso, all‟intolleranza ed alle superstizioni. Questa idea influisce profondamente sul diritto, il quale deve in primo luogo astenersi dall'interferire sulle condotte rilevanti solo dal punto di vista morale e religioso: è l‟affermazione del principio della separazione tra il diritto, la morale e la religione. Lo strumento fondamentale di razionalizzazione del diritto, per gli illuministi, deve essere la legge, espressione della ragione umana e strumento tramite il quale dare attuazione ai principi del diritto naturale. La legge, in quanto generale e astratta, è tale da disciplinare anticipatamente le situazioni; e tale anche da poter essere conosciuta in anticipo, ed obbedita o disobbedita a ragion veduta. Le leggi devono essere dunque conoscibili, e perciò poche e stabili, espresse in un linguaggio chiaro e a tutti accessibile, e devono anche essere applicate meccanicamente dal giudice, il quale deve essere la “bocca della legge”, secondo l‟espressione famosissima di Montesquieu.

Nel campo del diritto, l'esigenza di razionalizzazione si fonda su soprattutto su tre regole, che riguardano la proporzionalità riguardo al rapporto tra ciò che si è commesso e la sanzione, il criterio di umanità riguardo al trattamento, l‟utilitarismo riguardo alla funzione della stessa sanzione. Anche il sistema delle sanzioni deve ispirarsi a criteri di certezza e di proporzionalità, e deve pertanto essere governato dalla legge. Il criterio di umanità suggerisce la costruzione di un sistema improntato alla prevenzione del danno sociale più che alla retribuzione del male morale.

Fra i numerosi contributi della dottrina dell‟epoca, il più importante ed anche il più noto è quello di Thomas Hobbes. L‟opera del filosofo

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inglese si caratterizza per una concezione del diritto penale che è alla base della penalistica illuminista e liberale, per una concezione della legge che incarna la prima forma di positivismo giuridico moderno, per un modello teorico dell‟organizzazione dei poteri dello Stato che è una delle basi della struttura dello Stato moderno. Hobbesi considera la pace come il fine al quale deve tendere l‟uomo. E considera unico mezzo valido per raggiungere pace e sicurezza il cosiddetto "stato civile", contrapposto allo "stato di natura". Hobbes critica lo stato di natura, in quanto caratterizzato dalla legge del più forte e, in sostanza, dalla contrapposizione "tutti contro tutti". Questo modello, secondo Hobbes, è dunque uno stato in cui domina la guerra, e in cui sono in radice vanificate le aspirazione di sicurezza sociale degli individui. Unica alternativa percorribile è dunque quella dello stato civile, in cui, mediante un "contratto sociale", i contraenti (cioè i consociati) si spogliano dei loro diritti naturali per delegarne l‟esercizio a una figura sovraordinata, priva di doveri e custode dei diritti dei consociati: il sovrano. Nella concezione hobbesiana è bene ricordare che i consociati si spogliano integralmente di tutti i propri diritti e quindi non possono in ogni caso opporsi al sovrano, che così prende le forme di sovrano assoluto, le cui scelte sono assiomaticamente giuste.

Se si cerca di specificare maggiormente l‟aspetto riguardante la potestà punitiva pubblica (che ovviamente prende le forme di diritto penale), si possono far risalire a Hobbes alcuni fondamentali principi che ancora oggi caratterizzano pene e sanzioni pubblicistiche. Innanzi tutto, si può rinvenire il concetto "nulla poena sine lege22. Infatti, solo il sovrano è legislatore e episodi costrittivi possono verificarsi solo per

22 La locuzione latina “nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” rappresenta una

massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione, creata dal politico e giurista latino Ulpiano e raccolta nel Digesto,e poi ripresa dal giurista tedesco Paul Johann Anselm Ritter von Feuerbach, si fonda sull'assunto che non può mai esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento. Dal principio discende il fatto che non sono punibili le azioni che non siano espressamente incriminate dalla legge, anche se socialmente pericolose, e invece sono punibili le azioni che ,pur non essendo socialmente pericolose, sono espressamente incriminate. La fiducia illuministica nella ragione dell'uomo si concretizzava poi nel pensiero che la legge, in quanto traduzione materiale di principi naturali, fosse cosa intrinsecamente giusta, e che la certezza dello strumento-legge dovesse essere massima, per adempiere così al significato eccezionale della pena. La legge diventava così sinonimo e garanzia di giustizia.

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sua volontà. Un altro cardine è individuabile nella concezione formalistica del diritto punitivo23, per cui non è più il comportamento antigiuridico che viene punito in quanto tale, ma è il comportamento che la volontà assoluta del sovrano sceglie di punire che diviene per ciò stesso antigiuridico. Per quanto riguarda la teoria della pena, Hobbes ne rifiuta il carattere retributivo, equiparando la punizione a una vendetta, che però sia volta al futuro, ovvero a eliminare il rischio che il fatto antigiuridico venga nuovamente commesso, quasi come una sorta di rieducazione.

Al di là dei principi esaminati finora, forse l‟eredità più importante che lasciano gli studi di Hobbes riguarda la secolarizzazione del diritto penale24. Fino al periodo seicentesco, infatti, il concetto di crimine era

23 È questa un‟espressione che ha molteplici accezioni: in un primo senso, è una concezione

sulla natura del diritto, secondo la quale la giuridicità di una norma non dipende dal suo contenuto ma dalla sua forma (dalla procedura nella quale essa è stata emanata, e dunque, dal suo appartenere ad un determinato ordinamento). In questo senso, la validità delle norme non ha nulla a che vedere con questioni di contenuto (ad esempio, se le norme siano giuste o meno), ma solo con questioni formali (vale a dire, se le norme siano state emanate secondo una procedura formalmente corretta). In un secondo significato, è questa una concezione sulla natura dei fenomeni giuridici, secondo la quale i fenomeni sono giuridicamente rilevanti soltanto in quanto previsti (regolati) da norme giuridiche. In questo secondo senso, non si danno fenomeni giuridici prima di un sistema di norme giuridiche (qualsiasi ne sia la fonte). In un terzo senso, è una concezione sulla scienza giuridica, secondo la quale l‟attività interpretativa del giurista è volta a scoprire il vero significato delle norme e non a crearne uno: in questo senso, la scienza giuridica ha un compito descrittivo e non creativo. Secondo questa accezione, il giusnaturalismo può dirsi in senso lato formalista, il giuspositivismo ottocentesco è esplicitamente formalista, il giusrealismo è esplicitamente anti-formalista. Cfr. Norberto Bobbio,

Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cap. IV; Il positivismo giuridico, Laterza, 1965 Capo I,

sezione 36; Mario Jori - Anna Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, voce “Formalismo

giuridico, Torino, Giappichelli, 1988, pag. 401 e seguenti 24

Il processo di secolarizzazione del diritto penale non solo incide a fondo sulla definizione stessa della modernità, ma la investe nella sua interezza, nei suoi principî ispiratori e nelle sue strategie. È dallo slancio riformatore dell‟Illuminismo, e dalla sua verve antiteologica e antimetafisica, che esce una nuova geografia del penale: per Locke, la società ha in se stessa – nei diritti, e nei principî, della libertà e della proprietà – il fondamento del proprio ordine, che il sovrano si limita a garantire dall‟esterno. Cade con ciò il fondamento sacrale dell‟ordine, e proprio per questo le scelte religiose perdono la loro rilevanza pubblica, politica, per essere assorbite nella sfera privata, e penalmente irrilevante, dei singoli. Non cambia però soltanto la mappa dei comportamenti sanzionati: mutano al contempo il concetto di reato e il fondamento del diritto di punire. L‟azione trasgressiva viene colpita senza prendere in considerazione le sue connotazioni etico-religiose, mentre l‟intervento repressivo viene legittimato prescindendo dalla fondazione sacrale del potere. Il reato prende a separarsi dal peccato e ad essere punito non perché lesivo di un ordine che trova nella sacra maestà del principe il suo vertice e il suo emblema, ma perché incompatibile con l‟interesse complessivo della società. Cfr. Pietro Costa, La modernità penale fra secolarizzazione e permanenza del sacro, pubblicato in Stefano Canestrari e Luigi Stortoni (a cura di), Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bononia University Press, Bologna 2009, pp. 101-120.

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sempre stato intimamente legato al concetto di peccato. E soprattutto, sotto il profilo strettamente logico, si subordinava il primo concetto al secondo. Con Hobbes la situazione viene ribaltata: non è più crimine tutto ciò che è peccato, ma peccato tutto ciò che è crimine, con la conseguenza fino ad allora sconosciuta che alcuni peccati ininfluenti sull‟organizzazione sociale voluta dal sovrano non vengono nemmeno qualificati come crimini25.

Se dunque anche la teoria di Hobbes si colloca in un periodo storico e giuridico visto con sfavore e considerato superato, bisogna riconoscere come già nel più grande teorico dell‟Assolutismo si possano individuare, soprattutto nel campo della potestà punitiva pubblica, le prime radici di certezza del diritto che troveranno più compiuto sviluppo con l‟affermarsi dell‟illuminismo e che in buona misura arrivano fino ai giorni nostri26.

25 “Un crimine è un peccato che consiste nel commettere (con fatti o con parole) ciò che la legge vieta o nell'omettere ciò che comanda. Cosìcché ogni crimine è un peccato, ma non ogni peccato è un crimine. (...) Da questa relazione del peccato alla legge, e del crimine alla legge civile, si può inferire in primo luogo che, ove cessa la legge, cessa il peccato. Ma per il fatto che la legge di natura è eterna, la violazione dei patti, l'ingratitudine, l'arroganza e tutti i fatti contrari a qualunque virtù morale, non possono mai cessare di essere peccato. In secondo luogo, che, quando cessa la legge civile, cessano i crimini, perché, non rimanendo altra legge che non sia quella di natura non c'è posto per l'accusa, dato che ogni uomo è giudice di sé stesso, è accusato solo dalla sua coscienza e questa è prosciolta dalla rettitudine della sua intenzione. Perciò, quando la sua intenzione è retta, quello che fa non è un peccato; se è altrimenti, quello che fa è un peccato ma non è un crimine”. Hobbes. Leviatano. Laterza. Roma-Bari. 2004, pag.

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26 Mario Piccinini a proposito di Hobbes scrive:”Se tutti i crimini sono peccati e non tutti i crimini sono peccati, la relazione tra le due classi è mutevole e può intrecciarne gli elementi: se un delitto definisce un comportamento contro la legge e un peccato può restare imperscrutabile in foro interno, un atto in sé non peccaminoso o perfino moralmente virtuoso, se viene vietato dalla legge, diventa un crimine e quindi un peccato, perché si pecca per spregio dell’autorità che ha fatto la legge. Qui il testo richiama una casistica familiare ai dibattiti sull’equitye rinvenibile in tutta la trattatistica al riguardo. Lo fa, tuttavia, volutamente sotto silenzio per concentrarsi sulla diversa valutazione legale delle posizioni d’osservanza religiosa nelle convulsioni della rottura con Roma e con il Papa: quello che prima un comportamento moralmente (e legalmente) accettabile è diventato, in un gioco di repentini rovesciamenti nella filiera dinastica, il suo opposto. Indicando la contingenza storica dei contenuti normativi Hobbes contemporaneamente riafferma l’operare della legge, ma il commento non lascia molti dubbi sul suo pensiero>>. Citando le perole di Hobbes, continua << you see by this that many things are made Crimes, and no Crimes, which are not so in their own Nature, but by diversity of Law, made upon Diversity of Opinion or of Interest by them which have Authority”. Mario Piccinini, «I speak generally of Law». Legge, leggi e corti nel Dialogue di Thomas Hobbes, in Scienza e

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