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Il mercato editoriale e il nuovo ruolo dell'intellettuale

IV.1. L'Italia post-unitaria: verso una nuova concezione della cultura e dell'educazione

IV.1.1 Il mercato editoriale e il nuovo ruolo dell'intellettuale

Per affrontare la questione in modo lineare sarà utile iniziare dalle parole che Arturo Colautti rivolse ad Ugo Ojetti in una delle sue interviste ai letterati italiani di fine Ottocento:

Petrarca aveva un canonicato. Dante scrisse le cantiche qua e là in castelli o conventi; e pensa all'Ariosto, al Poliziano, al Tasso. Dopo i poeti cortigiani, vennero quelli che vivevano di altre professioni e a tempo libero scrivevano versi. Poi vennero i poeti di nobile famiglia e nati da borghesi già ricchi (Alfieri, d'Azeglio, Manzoni ecc.). Finalmente verso il '60 la letteratura cominciò ad essere pagata, e dapprima ciò parve quasi un'onta. Ora sottostà alle leggi delle altre industrie, ed è dai capitalisti, come le altre industrie, sfruttata. Il pubblico c'è: bisogna attirarne l'attenzione, anche per moltiplicarlo perché abbiamo ancora diciotto milioni di analfabeti da exploiter. Fenomeno parallelo alla produzione letteraria è il Giornalismo; […] il giornalista, dopo il periodo patriottico in cui il giornale si scriveva da uno in un caffè e si stampava gratis nella tipografia di un correligionario, ha finito per entrare impiegato presso i grandi giornali sostenuti da uno o più soci capitalisti.7

Come ha giustamente osservato Colautti un tempo il letterato esercitava la scrittura delle sue

7 Intervista di Ugo Ojetti ad Arturo Colautti cit. da R. PERTICI, Appunti sulla nascita dell'«intellettuale» in Italia,

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opere in un ambiente sostenuto economicamente dalle rendite derivanti dall'appartenere al ceto ecclesiastico o a quello aristocratico, oppure dai finanziamenti mecenatizi di un nobile o di una corte; in entrambi i casi il letterato non aveva bisogno di lavorare per guadagnarsi da vivere ma godeva di una rendita che gli consentiva di scrivere per puro ozio. A partire però dall'età napoleonica si assiste ad una progressiva laicizzazione delle istituzioni e soprattutto dell'istruzione e della cultura: grazie a Napoleone le scuole furono sottratte, almeno parzialmente, all'autorità ecclesiastica che ne deteneva il monopolio e si ebbe una vera e propria rinascita universitaria per cui lo studio di alto livello era finalizzato all'apprendimento di un mestiere per poi trovare un impiego: l'intellettuale non studiava più per puro ozio ma per trovare un lavoro in cui le sue conoscenze fossero utili e gli ambiti più richiesti erano quelli scientifici, tecnologici e giuridici, per andare incontro all'industrializzazione, insieme a quelli dell'istruzione e dell'editoria, con cui veicolare alla nazione le basi della cultura italiana.

In questo periodo dunque si assiste ad una ridefinizione dell'intellettuale e del letterato, dal momento che la nascita del mercato editoriale ha comportato sia un aumento del pubblico potenziale a cui destinare i propri giornali, libri e riviste, sia la creazione di nuovi sbocchi occupazionali, non solo nel settore editoriale ma anche in quello scolastico, dato che appunto quel pubblico doveva passare da potenziale ad effettivo e per fare ciò era necessario garantire un'istruzione nazionale a più livelli. In età post-unitaria si era intensificata la produzione di giornali, riviste, libri da parte delle case editrici che avevano creato una vera e propria industria editoriale, finanziata dalla ricchissima borghesia salita al governo e necessitante di vendere sempre più copie per poter crescere finanziariamente. Da questa esigenza economica si sviluppò la nuova categoria sociale degli “intellettuali”, termine coniato da D'Annunzio a fine Ottocento su imitazione del termine francese les intellectuels8. Ne esistevano due tipologie.

8 Come è stato riassunto da R. PERTICI, Op. cit., pp. 332-333, l'espressione fu coniata da Maurice Barrès che dal

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Il primo era il letterato aristocratico, per nascita o inclinazione morale, che si auto collocava in una posizione sopraelevata rispetto alla massa, sentendosi portatore di un sapere che non meritava di essere rivolto a chiunque ma solo a chi avesse una cultura tale da apprezzarlo e capirlo; su questa scia si fanno rientrare gli esteti, animatori di una vita inimitabile, fatta di lusso e contornata dalla bellezza, portatori di ideali eroici e patriottici, che li elevavano dalla massa, vista addirittura come nemica dell'arte e della bellezza le quali andavano protette dalla rozzezza dei ceti umili o poco raffinati. Gran parte di questi intellettuali stavano distanti dalla politica per mantenere il loro spirito puro, al riparo dalla manipolazione inevitabile che su di essi esercitava la politica e dalla rozzezza delle masse popolari.

Il secondo era il letterato appartenente al ceto medio della piccola e media borghesia che esercitava la professione di notaio, medico, piccolo proprietario terriero, insegnante e che scriveva sui giornali come secondo lavoro; questo tipo di intellettuale era inevitabilmente legato alla politica e ai valori della classe dominante, tanto che quanto scriveva serviva a condizionare l'opinione pubblica a vantaggio degli interessi borghesi e talvolta anche degli schieramenti di opposizione; egli poteva quindi schierarsi dalla parte del popolo, indagarne la condizione economica e valorizzarne le tradizioni, la cultura e i valori in ambito letterario, mettendosi visibilmente contro quel ceto borghese da cui proveniva ma da cui si sentiva escluso o sfruttato.

Nei primi decenni a ridosso dell'unificazione l'intellettuale che lavorava per le case editrici era molto condizionato dalla politica, dal momento che era in buona sostanza la committente preferenziale degli articoli di giornale e dei romanzi, e solo nel primo Novecento l'intellettuale poteva dirsi veramente libero dai condizionamenti politici, vivendo della propria

naturalistica, i simbolisti, i romanzieri cosiddetti “psicologi” e quelli “decadenti”, vicini a posizioni politiche anarchiche. D'Annunzio fece suo il nuovo termine e lo usò per intendere se stesso e chi come lui si poneva su un alto livello sociale e culturale, intendendo l'intellettuale come «uno di quei rari spiriti, dotati d'una curiosità sempre vigile, atti a penetrare e a comprendere tutte le forme del pensiero umano o almeno disposti ad assottigliarsi e a piegarsi per penetrarle e comprenderle».

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scrittura e facendolo in modo aperto, senza il timore di censure: sarà «La Voce» a dare spazio per la prima volta al vero intellettuale, facendone sia una professione retribuita, sia una figura neutrale in grado di dire la propria opinione senza timori e di portare avanti un progetto politico- culturale che potesse intervenire sulle scelte politiche in uso, libertà questa che sarebbe stata poi messa in discussione durante il ventennio fascista.

Durante tutto l'Ottocento i giornali, le riviste e le case editrici dovettero confrontarsi, da un lato, con la crescente domanda di cultura che proveniva dal ceto medio, bisognoso di raffinare il proprio sapere e di farsi idee ben precise sul presente, dall'altro, con la forte arretratezza economica e culturale dell'Italia. Ad essa contribuivano l'analfabetismo9 della quasi

totalità della popolazione, la ristrettissima italofonia, in confronto all'uso prevalente dei dialetti, la censura della Chiesa, che limitava l'espressione da parte di scrittori e giornalisti e che era ostile alla diffusione della cultura tra il popolo, e infine l'assenza del diritto d'autore, che comprometteva i guadagni già esigui degli intellettuali: molti giornali infatti venivano stampati abusivamente a buon mercato, facendo quella che oggi chiameremmo “pirateria”.

La letteratura in questi anni risultava compromessa a causa della ristrettezza economica dei nuovi produttori di cultura, intellettuali che dovevano scrivere e pubblicare ciò che avrebbe suscitato l'interesse del pubblico, e quindi le vendite, e al contempo lavorare per poter vivere dignitosamente, non essendo il servizio svolto nell'editoria così remunerativo: di fronte a questa precarietà, a cui molti intellettuali di stampo più conservatore si sottraevano stando in una posizione sopraelevata e scrivendo opere volutamente elitarie10, gli scrittori cominciarono a

9 Come ha osservato Giovanni Vigo l'Italia versava in uno stato di analfabetismo tale da essere migliore solo della

Russia, paese notoriamente degradato, non reggendo per nulla il confronto con i paesi più evoluti economicamente quali Francia, Inghilterra e paesi scandinavi in cui il livello di analfabetismo era quasi nullo nel 1900. In Italia la responsabilità di questa condizione andava ricondotta alla delicata e precaria economia del paese, con divari ampi tra nord e sud ma anche tra città e campagna, nonché alla mentalità indifferente del governo e del popolo per cui saper leggere e scrivere era inutile ai fini del lavoro nei campi o nelle fabbriche. GIOVANNI VIGO, Gli italiani alla

conquista dell'alfabeto in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, vol. I, a cura di Simonetta

Soldani, Gabriele Turi, pp. 37-66.

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collaborare con i giornali, apponendo i loro scritti alla cosiddetta “terza pagina” in cui trovavano posto i romanzi d'appendice, oppure con le riviste culturali tra cui si citano le più significative: «Il Fanfulla della domenica», «Il Capitan Fracassa» e «La Cronaca Bizantina».