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Il movimento dei movimenti

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 53-61)

Possiamo collocare l’esordio pubblico del movimento dei movimenti nella manife-stazione in opposizione alla cerimonia di apertura del Millenium Round a Seattle nel 1999. Le manifestazioni che si susseguirono fino a imporre lo stop alla cerimo-nia apparvero da subito qualcosa di nuovo e insolito rispetto a quanto si era osser-vato nei movimenti sociali fino ad allora. Il sentore, infatti, fu che le persone che manifestavano non fossero più solo individui e gruppi che si ritrovavano a sfilare insieme in occasione delle riunioni delle istituzioni internazionali, ma «per la prima volta, chi osservò la mobilitazione capì che cominciava a delinearsi un attore collet-tivo, capace di organizzare un ritrovo di migliaia di persone, utilizzando la tecnolo-gia come supporto all’azione, capace di mostrarsi di fronte al mondo come un sog-getto unito (nonostante la diversa composizione generazionale e sociale, nonostante le differenti istanze e rivendicazioni) e soprattutto fermamente intenzionato a dare continuità alla propria azione di protesta e a non ritornare nel silenzio, come era ac-caduto nelle manifestazioni degli anni passati» (Ravazzi 2002: 36).

Attraverso la contrapposizione alla globalizzazione neoliberista, in nome della giustizia sociale, si delinea così un movimento i cui ideali, pur simili a quelli che nella storia hanno mobilitato generazioni di tutto il mondo – la ricerca di maggiore giustizia ed equità, l’affermazione dei diritti fondamentali degli esseri umani, il de-siderio di vivere nel rispetto dell’ambiente, il rifiuto della guerra – tramite un pro-cesso di maturazione ideologica su scala globale disegnano un movimento che, per la prima volta, subordina e finalizza l’opposizione all’avversario al perseguimento di un progetto etico e propositivo. La globalizzazione, «in luogo d’essere demoniz-zata o glorificata come tale, è reinterpretata come sviluppo di possibilità di vita, cioè come estensione degli scambi, valorizzazione delle diversità e affermazione della responsabilità collettiva» (Ceri 2002: 140).

Il movimento dei movimenti assume da subito un carattere globale, rispondendo all’idea base che la globalizzazione implica la creazione e l’intensificazione di «re-lazioni sociali di estensione mondiale che collegano località distinte in modo tale che eventi locali siano plasmati da eventi che accadono a molta distanza e vicever-sa» (Martínez 1990: 64). Ciò che sembra emergere è la necessità, sempre più pres-sante per i movimenti, di unire le differenti rivendicazioni sviluppatesi in tutto il globo, collegandole in uno sfondo unico. Differentemente dal passato, però, come

già si poteva intravedere nell’esperienza dei centri sociali, tale cornice non è imma-ginata come un pensiero ideologico unico e omologante da contrapporre alla globa-lizzazione neoliberista, ma al contrario è il prodotto di un processo di sintesi, co-struito dal basso attraverso la partecipazione e la discussione tra le molteplici iden-tità che compongono il movimento. Infatti, come nota Ceri, dalle manifestazioni di Seattle in poi, in strada incontriamo «gruppi e associazioni con istanze e opinioni tanto varie da essere in alcuni casi antitetiche» (2002: 11), un’immagine che riflette la composizione variegata degli attori che formano il collettivo su scala globale.

È evidente, a questo punto, che sarebbe stato impossibile governare questa ete-rogeneità proponendo metodologie tipiche dei vecchi movimenti e legare la costru-zione identitaria all’appartenenza a un luogo, come era stato per il movimento di occupazione. L’aggregazione di queste anime diverse, in passato spesso anche con-flittuali, avviene attorno all’elaborazione e in nome della giustizia sociale permet-tendo di comporre frammenti di culture diverse - laiche e cattoliche, radicali e ri-formiste, giovanili o più mature – in una struttura aperta, già tipica di altri movi-menti, come quello ambientalista e per la pace, con un’accentuata reticolarità. Gli attivisti delle mobilitazioni sulla globalizzazione, infatti, «appaiono radicati in un densissimo reticolo di associazioni, da quelle di anima cattolica alle ecologiste, dal volontariato sociale ai sindacati, dalla difesa dei diritti umani alla liberazione della donna, con appartenenze spesso multiple in associazioni di vario tipo» (della Porta 2005: 317).

Emerge qui una delle principali caratteristiche del movimento dei movimenti che ritroveremo, pur modificata, anche nel nostro oggetto di studio: un modello or-ganizzativo orizzontale, dal basso, inclusivo, paritario, solidale, contaminato, che si contrappone a una concezione verticale, dall’alto, esclusiva, gerarchica, ineguale e totalizzante. La diversità si pone in contrasto all’omogeneizzazione («macdonaldiz-zazione») della globalizzazione «dall’alto»; la differenziazione alla omologazione. Più che in passato, quindi, il movimento si articola in una struttura reticolare, a den-sità variabile, con identità plurali (della Porta, Andretta e Mosca 2003).

In questo senso, la partecipazione dei centri sociali alle mobilitazioni è partico-larmente esemplificativa: ciò che è richiesto ai vari soggetti è una disponibilità al dialogo e alla contaminazione e, per farlo, questi devono necessariamente uscire dai luoghi della loro quotidianità e confluire, pur senza perdere la propria specificità, in un contenitore più ampio. Quest’ultimo, in particolar modo dopo l’esperienza di

Porto Alegre del gennaio 2001, si costruisce all’interno dei Forum Sociali che sono presentati come luoghi che permettono «all’enorme diversità degli attori della so-cietà civile di incontrarsi imponendo un minimo di impegno e standard comuni» (Schoenleitner 2003: 129) all’interno dei quali si implementa un modello di parte-cipazione democratica che può essere individuato come la seconda importante ca-ratteristica di questo movimento e che si trasformerà in uno dei più importanti lasci-ti per i futuri movimenlasci-ti sociali.

Implementare la democrazia deliberativa significa creare un contesto in cui sus-sistono le condizioni di inclusività, eguaglianza e trasparenza, in cui si possa svi-luppare un processo comunicativo basato sulla ragione (la forza dell’argomento migliore) che trasformi le preferenze individuali, portando a decisioni orientate al

bene pubblico. Inclusività, eguaglianza e pubblicità sono criteri già presenti nelle

concezioni – se non nelle pratiche – di democrazia dei movimenti degli anni ‘70; ciò che emerge come più innovativo nel movimento dei movimenti è, però, l’enfasi posta sull’elaborazione di nuove idee nel corso di un processo comunicativo orien-tato alla definizione di bene pubblico (della Porta 2005). In un momento in cui la democrazia dei moderni si rivela sempre più lontana dai cittadini, il movimento sembra accantonare momentaneamente qualsiasi proposta che tenda a riabilitare la dimensione nazionale e ferma l’attenzione, da un lato, sulla formazione di autorità sovranazionali effettivamente democratiche e più giuste, dall’altro sul governo lo-cale, con l’introduzione nella democrazia rappresentativa di elementi di democrazia diretta che riportino i cittadini a interessarsi alle questioni politiche e a partecipare per la loro soluzione (Ravazzi 2002). In questa ricerca di forme di partecipazione che rispettino la «soggettività» individuale, evitando impegno totalizzante e con-trollo gerarchico, si tenta di costruire una struttura organizzativa basata sulla parte-cipazione (piuttosto che sulla delega), il consenso (invece del voto a maggioranza) e una reticolarità orizzontale (al posto di gerarchie centralizzate).

Il grado di successo di questi tentativi non è sempre garantito e, come emerge da alcuni studi, gli stessi attivisti raccontano che i Forum, pur essendo arene di con-fronto aperto, non sempre sono luoghi in cui le decisioni vengono effettivamente prese e i leader decidono ancora al di fuori delle assemblee, in gruppi informali (della Porta 2005). I problemi che affiorano nel funzionamento del passato non so-no stati completamente risolti nelle sperimentazioni di questa esperienza, tuttavia il tentativo e l’attenzione riposta nel costruire modi e luoghi in cui le decisioni

possa-no essere realmente prese attraverso un processo di democrazia deliberativa riman-gono gli emblemi più rilevanti di questo movimento.

Questo tentativo, inoltre, apre le porte a una partecipazione individuale mag-giormente svincolata dall’appartenenza a gruppi. Nonostante la maggioranza degli attivisti faccia parte di una o più associazioni, la percezione che molti di loro hanno della propria presenza risignifica in modo del tutto nuovo la specificità propria dell’individuo e il suo ruolo all’interno del collettivo. L’importanza data all’individuo è un’ulteriore caratteristica rilevante i cui effetti arrivano fino ai giorni nostri, influendo sulla modalità e la capacità di costruire un’identità collettiva. Per comprenderne la portata è necessario rilevare come uno degli elementi caratteristici della postmodernità sia il diffondersi di una cultura che sottolinea il ruolo dell’individuo: processi di «individualizzazione» sono stati visti, infatti, come osta-coli allo sviluppo dell’azione collettiva, facendo venire meno le forti identificazioni del passato (Bauman 1999). Dall’altra parte però, come avevano già indicato alcuni studiosi dei movimenti sociali (in particolare, Melucci 1989), le società contempo-ranee offrono risorse molteplici per la costruzione di identità complesse. Ad alcune condizioni, si è osservata azione collettiva anche in presenza di una cultura caratte-rizzata da personalismo, cioè «da modi di parlare e agire che sottolineano l’unicità dell’io individuale» (Lichterman 1996, 86). Le concezioni rilevate fra gli attivisti del movimento dei movimenti riflettono la ricerca di un modello di democrazia in-terna capace di coagulare le tante soggettività attraverso la valorizzazione del ruolo degli individui, invece che del sacrificio per la collettività. Infatti, nonostante le dif-ficoltà a limitare le gerarchie, il rispetto della soggettività è comunque uno dei valo-ri organizzativi pvalo-rincipe di questo movimento. Gli attivisti definiscono la loro par-tecipazione individuale come fondamentale, costruendo una concezione della mili-tanza che attribuisce un valore positivo alla soggettività individuale. In contrasto con i modelli totalizzanti del passato, vengono valutate positivamente esperienze e capacità individuali. Se l’individualizzazione delle culture «postmoderne» è stata considerata tradizionalmente come un ostacolo all’azione collettiva – isolando i singoli dalle fonti di solidarietà collettiva e accentuando egoismo ed egocentrismo – nelle mobilitazioni sulla globalizzazione sembra svilupparsi un tipo di partecipa-zione rispettosa invece della soggettività. In contrasto con il modello di militanza totalizzante dei movimenti del passato, si afferma, infatti, il valore di esperienze e capacità individuali. L’enfasi è sul singolo, prima che sull’organizzazione: lo stile

di militanza deve rispettare le individualità, piuttosto che annullarle nella comunità (della Porta 2005). Torneremo successivamente su come questo passaggio incida sulle modalità di costruire le identità collettive nei movimenti odierni, ma crediamo sia fondamentale sottolinearne l’importanza e l’aspetto “rivoluzionario”. Come vi-sto in precedenza, l’individualità e la soggettività emergevano già nel movimento di occupazione di centri sociali; con il movimento dei movimenti, però, il percorso dell’individuo compie un balzo in avanti, coagulandosi in una mobilitazione plane-taria che va ben oltre la gestione di uno spazio occupato all’interno della città e che coinvolge una platea molto ampia, socializzandola a un modo del tutto nuovo di fa-re politica.

Questa socializzazione alla pratica attiva che parte dall’individuo sembra, inol-tre, colmare un vuoto di partecipazione dovuto all’incapacità del sistema politico e della classe politica di collegare la dimensione globale e quella locale, le decisioni di sistema con le conseguenze sulla vita dei cittadini. In un contesto in cui il citta-dino non può più far leva sul proprio status di lavoratore per rivendicare diritti nella sfera extra lavorativa fa la sua comparsa la figura del consumatore e del cittadino che, come vedremo, oggi ha un significato e un ruolo più che determinante nel fa-vorire la partecipazione ai movimenti e la costruzione dell’identità collettiva.

Il carattere consensuale e partecipativo e la presenza di un numero elevato e molto eterogeneo di associazioni e gruppi, con radicalità differenti, hanno anche in-fluito in modo importante sui repertori di azione messi in campo, portando una con-taminazione fra azioni molto differenti. Se nella storia alcuni movimenti hanno agi-to soprattutagi-to in modo convenzionale e altri con forme più violente, il movimenagi-to dei movimenti fa fede al proprio nome, utilizzando tutta la gamma delle forme di mobilitazione: dalle quelle convenzionali come cortei e raduni pubblici, a quelle perturbative come sit-in, occupazioni, boicottaggi, alle forme violente, fino alle azioni attinenti alla logica della testimonianza come i forum alternativi, gli incontri divulgativi e di discussione, il consumo equo e solidale, la disobbedienza civile.

Le strategie di gran lunga privilegiate sono quelle non violente, ma almeno fino a Göteborg convivono insieme ad alcune azioni più orientate ad una, materiale, «logica del danno» che, riprese dai media, permettono comunque anche alle altre componenti nonviolente del movimento di acquisire visibilità. Tuttavia, proprio l’esperienza nella città svedese fa emergere in modo eclatante il rischio che le azio-ni più radicali possano portare ad una stigmatizzazione per l’intero movimento,

tan-to da spingere, nella preparazione delle manifestazioni di Genova, all’esclusione dal «patto di lavoro» di coloro che non erano disposti a rinunciare a strumenti di of-fesa, scelta che, considerato ciò che accadde, si è dimostrata una soluzione imper-fetta. Gli attentati del settembre 2001 negli Stati Uniti d’America fanno sì che il ri-fiuto di ogni strumento violento diventi un imperativo categorico del movimento. «Se il destino del movimento era quello di seguire il tracciato già conosciuto dei ci-cli di protesta, quindi quello di intensificare le azioni perturbative e soprattutto quelle violente fino ad un ipotetico culmine, il percorso è stato sicuramente interrot-to prematuramente da un eveninterrot-to casuale, che ha costretinterrot-to il movimeninterrot-to a cercare la via delle azioni pacifiche» (Ravazzi 2002: 52). La scelta della non-violenza da parte della maggior parte delle organizzazioni del movimento è stata però volutamente equivocata, nella risposta istituzionale, come rinuncia non solo alla violenza, ma anche all’azione diretta (dall’occupazione di case ai blocchi stradali), seppure non-violenta. Come è stato osservato a proposito di molti movimenti del passato, l’accettazione di questi vincoli ha comportato una certa dose di «normalizzazione», sottraendo all’opposizione la risorsa politica della protesta. L’appiattimento su for-me convenzionali e l’allargafor-mento dell’ambito semantico del concetto di violenza hanno di fatto tolto visibilità e capacità di pressione a questa esperienza (Ceri 2002).

Nel riproporre repertori tradizionali, già collaudati in passato, questo movimen-to presenta però un elemenmovimen-to di novità, dovumovimen-to al nuovo contesmovimen-to tecnologico: l’utilizzo di Internet come mezzo di coordinamento e di azione. Infatti, anche se questo non è il primo movimento che utilizza la rete per comunicare le proprie idee a una platea più ampia – basti ricordare come il movimento zapatista ha utilizzato proprio la rete per uscire dall’isolamento politico in un territorio tecnologicamente arretrato – possiamo dire che questa è, sicuramente, la prima esperienza in cui «l’uso creativo di Internet diventa uno dei modi privilegiati attraverso cui moderni attivisti e militanti tradizionali comunicano per scambiarsi informazioni, elaborare progetti e discutere le proposte di uno sviluppo alternativo e una pacifica conviven-za dei popoli» (Di Corinto 2001: 157).

L’agire comunicativo, che diventa immediatamente agire politico, si esplicita essenzialmente in due modi. Il primo è la produzione di informazione indipendente, «dal basso», attraverso cui, accanto alla diffusione di informazioni relative ai temi trattati, appare l’uso a fini logistici, organizzativi e come luogo di dibattito. Il

se-condo è invece legato al sabotaggio dei flussi comunicativi dei potenti del mondo attraverso cui la rete diviene essa stessa teatro della contestazione, spazio pubblico per l’espressione del dissenso, con il netstrike ai danni del sito ufficiale del G8 o con i defacements dei siti delle forze di polizia e di alcune aziende commerciali, per esempio.

Nonostante gli evidenti caratteri di novità che ha espresso e l’attenzione a ri-vendicazioni che abbracciano l’intero pianeta in contrapposizione all’idea di globa-lizzazione neoliberista, il movimento dei movimenti è rimasto un fenomeno di pro-testa prettamente occidentale. Infatti, «quella che viene definita come diffusione dal centro alle periferie, se aveva iniziato il suo cammino verso i margini del mondo, coinvolgendo anche i paesi meno sviluppati e in particolare i ceti contadini, non sembra essere stata capace di investire i gruppi più poveri ed emarginati dell’Occidente stesso. Le classi sociali da cui provenivano gli attivisti erano in gran parte classi medie e medio-alte: oltre a studenti e intellettuali, era fortemente rap-presentata quella che viene ormai definita col nome di «nuova classe media», occu-pata soprattutto nel settore dei servizi. (…) La presenza degli strati sociali più bassi (turchi e africani in Europa, neri in Canada e Stati Uniti) è stata quasi nulla» (Ra-vazzi 2002: 46-7). Questo è stato sicuramente un limite che nel tempo si è dimo-strato difficile da superare, decretando un’oggettiva difficoltà a sopravvivere nel periodo di latenza. Inoltre, ci permette di notare come la protesta sia partita, come in passato, da sostenitori disinteressati: quei paesi che non traevano diretto vantag-gio dalle azioni di protesta, e ancor meno da un rovesciamento del sistema, quei ce-ti che nulla avrebbero avuto da perdere nel mantenere gli sce-tili di vita e l’organizzazione sociale da loro denunciata come ingiusta e iniqua per il mondo in-tero. Questo, unito alla dipendenza delle date e dei luoghi dei controvertici da quelli dei vertici ufficiali, è stato il segno di una non ancora raggiunta maturità e capacità del movimento di porsi come soggetto propositivo indipendente e dotato di propria coscienza.

A ciò si aggiunga che se la specificità di questa esperienza è stata il tentativo, spesso riuscito, di far convergere verso un obiettivo comune realtà tra loro diverse, le singole aree di movimento hanno continuato ad attrarre specifiche tipologie di persone che tra loro hanno condiviso spazi, mescolandosi, ma senza riuscire a co-struire una reale e duratura contaminazione quotidiana. Oltre a uno scetticismo «per quelle istanze che spesso sono sentite come «troppo pretenziose», rivolte a una

pre-sunta comunità mondiale che presenta al suo interno ancora profonde differenze e antichi conflitti, in una società che è globale ma che conserva ancora forti sfere di autorità operanti a livello nazionale» (Ravazzi 2002: 54), questa mancata contami-nazione ha determinato, nel momento in cui la parabola del ciclo di protesta ha ini-ziato la sua fase discendente, il ritorno delle realtà coinvolte nel movimento alla lo-ro quotidianità con i plo-ropri attivisti/militanti, senza che si sia plo-rodotto uno scambio continuativo tra di essi.

Analizzata questa esperienza, possiamo ora indicare alcuni importanti lasciti che consegna alle esperienze successive. La sua portata planetaria unita all’attenzione alle questioni locali nel tentativo di costruire una narrazione glocale indica, di fatto, l’unica strada percorribile per costruire un movimento che abbia aspirazioni reali di incidere sulla società. È, infatti, tramontato il periodo in cui poteva essere sufficien-te lottare per l’affermazione dei diritti di una specifica parsufficien-te della società, o per la difesa di una porzione di territorio. Con il movimento dei movimenti si palesa la necessità di costruire uno sguardo più ampio, ma contemporaneamente emerge an-che l’urgenza di legare i discorsi “sistemici” a effettivi e concreti percorsi territoria-li, in una logica circolare e dialettica in cui queste due componenti si alimentano vi-cendevolmente, pena l’auto-chiusura su se stessi, da un lato, e lo scollamento con la base sociale di riferimento, dall’altro. Come vedremo in seguito, il movimento og-getto del nostro studio sembra accogliere questa sfida nel tentativo di costruire un collegamento tra queste due facce della stessa medaglia.

L’attenzione alla dimensione individuale, che permette la costruzione di una mi-litanza capace di valorizzare l’individuo nelle sue specificità e di non “sacrificarlo” in un collettivo totalizzante, è la seconda caratteristica che spicca dal movimento dei movimenti e che sarà accolta e reinterpretata dai successivi movimenti. A que-sta si aggiunge una sempre maggiore attenzione ai processi decisionali, soprattutto interni, che esprime, da un lato la critica al modello egemonico di democrazia, dall’altro la necessità di costruire un territorio in grado di accogliere l’individuo nella sua unicità, valorizzandolo.

Come vedremo, già nel movimento di opposizione alle politiche di austerity che andremo ad analizzare nel prossimo paragrafo, ma soprattutto nei movimenti di ri-vendicazione del diritto alla città qui studiati, tali nuove caratteristiche sono assunte e reinterpretate criticamente in una logica di continuo rinnovamento. Si esprime quello che la della Porta (2005) chiama apprendimento vincolato che ci indica

co-me «da un lato, il repertorio di soluzioni organizzative è limitato, costruendosi sulla base delle precedenti esperienze; dall’altro, comunque, i modelli preesistenti non sono ereditati in modo acritico, ma al contrario discussi, criticati, rielaborati,

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 53-61)