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Riqualificare uno spazio dal basso

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 156-161)

Prima di entrare nel merito della vita degli spazi occupati e analizzare il tipo di mo-dello organizzativo e di società che ne emerge, crediamo sia importante soffermarci sulla dimensione dell’azione in sé. Abbiamo già visto come la fase preparatoria ab-bia, in entrambi i casi studio, legittimato un’azione considerata fino a poco tempo prima come illegale e patrimonio di frange estreme di movimento. Ora concentre-remo l’attenzione su come la riqualificazione dal basso, fatta tutti insieme, con le proprie mani, abbia inciso sulla possibilità di sentire il luogo come proprio e co-struire un’identità collettiva. Per fare questa operazione ci riferiremo non solo alla giornata in cui lo spazio è stato occupato, ma anche, e soprattutto, ai momenti suc-cessivi di vera e propria messa in opera della struttura.

Sia SMS sia Can Batlló sono occupazioni di edifici abbandonati da molto tempo e, quindi, all’ingresso non poteva seguire un loro immediato utilizzo senza passare da una ristrutturazione.

“A partire da qui iniziammo e al principio fu pulire pulire pulire, raccogliere merda fino ad arrivare ad avere uno spazio come lo vedi adesso, ci abbiamo investito 5-6 anni. Se guardi le navi vuote che ci sono qui a fianco ti rendi conto di come era in partenza.” [Pablo, 67

anni, attivista Can Batlló e membro del Centro Social de Sants]

“L’occupazione di Sms è stata un’azione bellissima, proprio una cosa pensata e valutata tutta molto bene perché veramente ci abbiamo messo anima e corpo, perché il primo perio-do l’abbiamo ripulito, infatti, non so se hai visto come era prima e come era perio-dopo.”

Prima ancora che l’implementazione di attività o servizi, è stato quindi necessa-rio un intervento sugli stabili, non solo di pulizia ma anche di risistemazione vera e propria. In questa fase entrano in gioco il sapere pratico e la dimensione artigianale-corporea, consentendo così un recupero del sapere territoriale essenziale.

“A sms, fra l’altro, grazie alla mia esperienza quasi quarantennale di lavoro come idraulico, ho avuto modo di dare un aiuto anche io per quanto riguarda la questione di idraulica, in pratica abbiamo costruito da zero l’impianto di riscaldamento.” [Yuri, 67 anni, attivista

Comitato Abitanti di San Siro]

L’apertura di questi spazi di azione, all’interno dei quali ognuno può scegliere come e quanto spendersi, diventa uno «strumento di coinvolgimento-avvicinamento a un approccio creativo, attivo, di sperimentazione e autorganizzazione che si allon-tana da programmi d’azione predefiniti» (Antonucci 2016: 135), nutrendo e alimen-tando il progetto e lasciando campo libero alla scelta degli individui che così pos-sono decidere quanto compromettersi in questa esperienza. La modalità operativa si definisce così, immediatamente, attraverso un profondo radicamento nel territorio e pone al centro l’assunzione di responsabilità, l’autorganizzazione e l’impegno in prima persona, uscendo dalla logica del chiedere, dell’attendere, del delegare e ge-nerando un senso di appartenenza molto forte.

“È sentirti tuo il posto, entrare e sentirlo casa tua, non solo dove hai il letto e il giaciglio… che ne so c’è il problema “x” ed è di tutti non solo mio, per esempio che ne so, c’è una bu-ca in strada? aspettiamo il comune? No, qui la sistemiamo noi!” [Marco, 42 anni, abitante

SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]

Lavorare tutti insieme con l’obiettivo di rendere agibile e vivo uno spazio fino a poco tempo prima abbandonato offre molteplici occasioni e possibilità: da un lato, permette a chiunque di costruirsi un ruolo e di spendersi nelle varie attività con il proprio sapere pratico, innescando così quel processo di riconoscimento necessario alla costruzione dell’identità (Pizzorno 1994); dall’altro, come già sottolineato in precedenza, la partecipazione a mezzo parola non è per tutti il metodo più semplice per intervenire: alcune persone, infatti, riescono a esprimersi meglio attraverso un

sapere materiale, dal pitturare i muri alla sistemazione dell’impianto elettrico e in questo caso chiunque ha potuto trovare il suo spazio di protagonismo.

“Dai turni al pulire tutti insieme, è il momento in cui leghi di più, in cui costruisci di più la comunità, perché poi il momento in cui leghi di più è quello in cui pulisci la merda dei sot-totetti e stai lì una giornata a sputare schifo.” [Antonio, 28 anni, abitante SMS e attivista e

Comitato Abitanti di San Siro]

Contemporaneamente, accanto ai lavori fisici, entrambi i casi studio hanno spe-rimentato momenti di convivialità, dalle feste ai pranzi nelle giornate dedicate ai lavori, costruendo così uno spazio di socialità di vitale importanza. In questi mo-menti, accanto alla motivazione politica che ha spinto il collettivo all’azione, entra-no in gioco le emozioni, in particolar modo l’empatia, che consideriamo come la capacità che permette di mettere in contatto la nostra esperienza e il nostro corpo con quelle di altri. «Empatia – infatti – vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui. […] L’empatia non è un atto conoscitivo o rappresentativo, bensì […] un sentire. […] L’empatia scava nell’esperienza. Fa accadere qualcosa, approfondisce l’esperienza dischiudendo la sua qualità di relazione vivente» (Boella 2009: 43, 44, 72). In questo modo il con-nubio emozioni-razionalità è diventato il motore dell’azione che ha permesso agli individui di sentirsi parte di un collettivo e attraverso il confronto avvenuto negli spazi «mettere in discussione una pratica sociale data per scontata e riappropriarsi di un contesto e di un’azione riscoprendoli e riscoprendosi altro da sé» (Cerulo 2014: 98).

“È vero che sei qua nel bisogno però nel momento in cui dai una mano e tiri su una persona scattano delle cose così, una rimane incinta e la aiuti, uno non sa che mangiare e condividi, non so, si diventa come un famiglione con i suoi difetti con i suoi scazzi e non è solo la ca-sa, diventa proprio un’esistenza condivica-sa, io pensavo di essere sola e invece ho scoperto che non è vero!” [Barbara, 42 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]

Questi momenti, intrisi di emotività ed empatia, in cui l’importanza dell’obiettivo politico cede il passo alla costruzione di relazioni tra le persone, ri-chiamano il concetto di socievolezza di simmeliana memoria. La socievolezza,

in-fatti, che ha se stessa come fine, «si realizza attraverso la limitazione delle singole individualità, diviene, di fatto, un’esperienza, una sorta di palestra in cui, in forma ludica, si apprendono e si mettono alla prova comportamenti ed energie morali spendibili anche in altre forme di far società e di essere insieme con gli altri» (Tur-natori 2011: 19). Attraverso queste forme d’interazione, a partire dall’esperienza quotidiana è prodotta una sorta di «educazione sentimentale» che ha permesso for-me di convivenza e facilitato la crescita del senso di appartenenza al collettivo in-sieme all’implementazione di un modello organizzativo basato sulla partecipazione diffusa, orizzontale e sul metodo del consenso.

In questo modo, l’atto di occupare ha assunto il significato di ri-appropriazione e ri-qualificazione di uno spazio pubblico operato dalla e per la collettività. Grazie alla presenza di momenti formali di dibattito, momenti di festa e momenti di lavoro vero e proprio per ricostruire uno spazio il più vicino possibile alle esigenze delle persone, si sono generate le relazioni sociali necessarie alla creazione di un forte sentimento di solidarietà e di appartenenza al collettivo, senza che questo sia diven-tato totalizzante.

“Quando tu prendi parte allo sviluppo di uno spazio diventi parte della famiglia, del collet-tivo.” [Nora, 46 anni, attivista Can Batlló]

Nei nostri casi studio le relazioni costruite grazie alle attività, anche pratiche, messe in moto partendo dalla riqualificazione dello spazio fino ad arrivare alle atti-vità quotidiane che oggi li animano, assumono la stessa importanza delle motiva-zioni politiche che hanno spinto il collettivo a muoversi, anzi, possiamo dire che non solo le sostengono, ma creano anche le condizioni affinché possano essere più incisive sulla vita del quartiere e delle persone. Riscoprendo il “fare insieme” si ri-scopre così la possibilità di partecipare come individui a un’esperienza che va al di là dei bisogni individuali. Inoltre, si riassapora l’idea che con la propria presenza, con le proprie idee e con le proprie emozioni, si possa realmente incidere sulla co-struzione di un modello alternativo di città e di società.

“Quando un gruppo di gente si riunisce per costruire insieme uno spazio e le persone si mettono con il legno e il ferro a recuperarlo, questo spazio recuperato o ricostruito si per-cepisce come molto differente. Si genera un meccanismo che stimola i vicini a muoversi,

che stimola e dinamizza la coscienza che questo è del quartiere, è e vuole essere della col-lettività.” [Tedeo, 57 anni, attivista Can Batlló]

L’appropriazione e l’uso di luoghi che sono pubblici, perché parte del patrimo-nio pubblico, ha permesso di trasformare questi in spazi sociali e ha reso possibile un’esperienza cognitiva-emozionale dell’essere insieme e dell’avere in comune. «Quando ci si trova insieme in spazi pubblici, comuni, si riconoscono e si apprez-zano i benefici dell’accesso alle risorse collettive; si apprende la nozione di bene comune nel momento in cui di questo si fa esperienza vissuta» (Turnatori 2011: 24).

La partecipazione, in queste esperienze, è diventata anche il metodo più efficace per garantire la qualità delle realizzazioni, degli edifici, degli spazi collettivi, delle città. Infatti, «i luoghi trasformati dai cittadini nei processi di partecipazione, attra-verso l’unione di una conoscenza esperta, coraggiosa e sperimentale con la cono-scenza locale profonda e sensibile, aderiscono al corpo della comunità, sono creati con attenzione e con cura. (…) Le cose create nella partecipazione sono perciò più belle e confortevoli dei prodotti standardizzati, freddi ed ostili alle culture locali, che derivano dai processi globalizzati imposti dall’alto e dall’esterno». (Francq, Paba, Pecoriello e Rispoli 2006 cit. in Pecoriello e Rispoli 2006: 133)

L’unione tra i momenti legati alla ricostruzione fisica degli spazi e quelli di fe-sta, in cui gli obiettivi impliciti e principali sono stare insieme e costruire relazioni, ha dunque creato le basi affinché si potesse generare un collettivo capace di media-re le diverse visioni dei singoli, costruendo un orizzonte e un’identità comuni. Co-me vedremo nel prossimo paragrafo, invece, il modello organizzativo adottato ha messo al riparo queste esperienze dalla possibile chiusura su se stesse, obbligandole a riflettere su come implementare e favorire la partecipazione di un numero sempre maggiore di persone. Il modello assembleare, in cui le decisioni sono prese con il metodo del consenso, l’assenza di leadership istituzionalizzate e la divisione oriz-zontale dei ruoli hanno infatti favorito un impianto orientato all’autogestione che supera il principio della delega e fa dell’apertura all’esterno, in un processo di coinvolgimento sempre crescente, uno dei suoi principali emblemi.

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 156-161)