Riappropriarsi di uno spazio abbandonato attraverso un processo di partecipazione dal basso ha portato questi collettivi a strutturare luoghi che portano in seno diversi
conflitti che investono, in modo più o meno esplicito e esplicitato, differenti piani. Mettendo al centro l’assunzione di responsabilità, l’autorganizzazione, l’impegno in prima persona, uscendo dalla logica del chiedere, dell’attendere e del delegare, queste esperienze possono così essere collocate tra quelle forme di azione che pon-gono, attraverso questioni urbane-ambientali, il tema della costruzione di un’alternativa alla colonizzazione della grammatica delle forme di vita (Koensler e Rossi, 2012) e tentano di avviare un cambiamento più che resistendo, difendendo, muovendosi in una dimensione di costruzione di proposte e possibili soluzioni, in una dimensione di offerta (Melucci 1994).
La prima dimensione su cui incidono queste esperienze è sicuramente quella della progettazione urbana: individuando la progettazione collettiva come dispositi-vo di coindispositi-volgimento e attivazione del territorio, questi movimenti hanno generato sinergie e dinamiche con cui trasformare un luogo abbandonato e destinato alla speculazione immobiliare in un centro civico della vita sociale e politica del quar-tiere. Strappati alla conversione in case di lusso, questi spazi sono stati trasformarti in laboratori di esperienze in cui, attraverso l’autogestione e la partecipazione dei cittadini, si implementano le più differenti attività capaci di rispondere ai più diver-si bisogni espresdiver-si dagli abitanti stesdiver-si.
“SMS è stato un gran laboratorio dove si testano le possibilità di condivisione e quindi per-sone diverse come età, come esigenze, perché ci sono famiglie, ci sono singoli, voglio dire un laboratorio anche di esperienza comune di condivisione che non è facile trovare… è un laboratorio difficile perché poi ripeto età diverse esperienze completamente diverse che hanno esigenze completamente diverse per cui riuscire a fare poi una sintesi di tutte queste necessità e metterle in comune è comunque un bello obiettivo, non che noi ci siamo già riu-sciti, per carità divina, e però è un costruire anche questa possibilità che significa tanto per molti.” [Laura, 63 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]
Appare evidente una chiara rivendicazione di una progettazione urbana che coinvolga gli abitanti e che tenga conto prioritariamente dei loro bisogni e desideri: una modalità di governare il territorio sul piano urbanistico completamente opposta a quella vigente che, attraverso la riconversione di interi quartieri, risponde a una logica del profitto e a un governo del territorio che quasi mai tiene conto e coinvol-ge coloro che saranno investiti da questi cambiamenti. Tuttavia, ciò che si delinea
non è solo una richiesta di maggior protagonismo, ma anche una chiara idea di cosa si vorrebbe e di cosa invece è ritenuto deleterio per gli abitanti. Sia il quartiere che ospita Can Batlló a Barcellona sia San Siro a Milano sono zone investite da un pro-cesso di trasformazione che sta mutando il carattere popolare che li ha sempre con-traddistinti: ad essere minacciato, quindi, non è solo il processo partecipativo, ma la vita stessa del quartiere, a partire dal piano architettonico e urbanistico. A questa minaccia i movimenti rispondono costruendo spazi autogestiti, riappropriandosi di luoghi e riempiendo il vuoto, ottenendo così più risultati contemporaneamente: il coinvolgimento della popolazione, la costruzione materiale di un’alternativa e l’opposizione fisica alla gentrification.
“Da un lato siamo un polo comunitario autogestito e più vicino ai bisogni degli abitanti, pe-rò dall’altro lato abbiamo tutta la città del capitale che sta crescendo, qui c’è un distretto economico evidente che parte dall’aeroporto e passando per plaza Europa e la fiera arriva fino a qua. Questa è un’espressione del progetto urbanistico che si sviluppa principalmente seguendo gli interessi del capitale… quindi è chiaro che l’esistenza di Can Batlló dipende dalla capacità di lottare e di difendere il nostro quartiere, che poi il quartiere si crea difen-dendolo, producendolo e appropriandosene in una forma antagonista al capitale.” [Martin,
43 anni, attivista Can Batlló e membro de La Ciutat Invisible]
Non è solo l’atto di occupare in sé e per sé, ma proprio la fase di ricostruzione, dal basso e condivisa, che genera la consapevolezza che ciò che si sta creando è in reale opposizione a ciò che le istituzioni quotidianamente implementano. Questo ragionamento è perfettamente sintetizzato nella parabola dello spazio stesso: prima era morto, abbandonato e destinato alla speculazione, oggi, grazie al protagonismo diventa vivo, vissuto e destinato al quartiere. «Da vuoto urbano a potenziale spazio complesso, composito, frutto delle relazioni di chi lo vive, attraverso cui dare vita a spazi di coesistenza comunitaria e a servizi che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita degli abitanti, animato da impulsi di cambiamento» (Anto-nucci 2016: 135) in netta opposizione a una città sempre meno a misura d’uomo dove spariscono luoghi e occasioni di incontro.
“Noi parliamo molto di diritto alla città e di diritto all’abitare anche in quartiere perché il problema sul quartiere non è solo sulla casa ma è proprio sul vivere, se io vivo in un luogo in cui stanno sparendo gli spazi commerciali in cui non ci sono luoghi di socialità è chiaro
che non mi apre alla felicità ma neanche alla capacità di vivere con gli altri.” [Antonio, 28
anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]
Appare evidente come, intrecciato a questo piano, si ponga quello, più squisita-mente politico, dalle rivendicazioni più immediate che chiedono un maggior coin-volgimento degli abitanti fino ad arrivare a quelle che reclamano il diritto ad avere una casa per tutti. Questi luoghi traducono in pratica le stesse richieste che li gene-rano: in quest’opera di “materializzazione si generano modelli alternativi a quello egemonico che ha prodotto un restringimento e progressivo annullamento del con-trollo da parte degli abitanti «sulle forme materiali, sociali, culturali, simboliche della loro esistenza» (Magnaghi 2013: 298). Il rapporto con le istituzioni è uno de-gli esempi più rappresentativi; infatti, è completamente ribaltata l’idea per cui le decisioni stanno in capo alle istituzioni che, a discrezione, possono chiedere pareri agli abitanti e coinvolgerli nel processo di progettazione: con la creazione di questi spazi e movimenti il potere di decidere viene non solo rivendicato, ma preso nel qui e ora.
“Si definì che Can Batlló era uno spazio vicinale, cioè dei vicini e questa è la caratteristica principale, il che significa che questo spazio non è nostro, ma dei vicini di tutti i vicini, del quartiere, che noi siamo incaricati di dare vita allo spazio e gestirlo e per gestirlo adottiamo l’autogesione. Per autogestione intendiamo che siamo solo noi in forma autonoma senza alcuna dipendenza con l’esterno quelli che decidiamo cosa vogliamo fare, come lo voglia-mo fare e quando.” [Pablo, 67 anni, attivista Can Batlló e membro del Centro Social de
Sants]
“Il prototipo di vicino utilizza uno spazio municipale solo se il comune glielo dà, qui di-ciamo che questo è superato, siamo disposti a usare edifici municipali anche senza contare con l’appoggio o il permesso del Comune, qui si entrò senza chiedere permesso.” [Nora, 46
anni, attivista Can Batlló]
L’idea di “rivoluzione che verrà” lascia il posto a pratiche quotidiane che porta-no il cambiamento nel presente costruendo un protagonismo reale delle persone. Le istituzioni, che pure vengono considerate come utili, non sono più le uniche e sole deputate a decidere, ma fungono da sponda per realizzare ciò che in un processo orizzontale e autogestito emerge dalle assemblee e che non può essere
immediata-mente realizzato dal movimento stesso. La gerarchia del potere è quindi totalimmediata-mente ribaltata, i ruoli di decisori ed esecutori divengono più sfumati e dinamici e non qualcosa di statico e dato per scontato.
Questo processo non è però solo qualcosa che ha a che fare con la politica isti-tuzionale: al contrario è una prassi capace di coinvolgere in prima persona gli indi-vidui che così riscoprono il “fare politica”, inteso come l’occuparsi della cosa pub-blica e collettivamente. Questa duplice dimensione, lo spazio pubblico, quindi di tutti, e la dimensione gruppale, appare di per sé già come innovativa perché, da un lato, si dimostra capace di opporsi a quell’individualismo sempre più spinto che condanna le persone a costruire la propria vita e la propria identità senza più nessu-na reale e significativa appartenenza a qualsivoglia gruppo e, dall’altro, inverte il processo di disaffezione alla politica che ha la sua più evidente manifestazione nel-la sempre minore partecipazione alnel-la vita pubblica. Questo stimolo, che aveva ca-ratterizzato i movimenti come quello degli indignados e di occupy spingendo mi-gliaia di persone a occupare strade e piazze in tutto il mondo, è stato conservato e incanalato nella costruzione concreta di quegli spazi, in cui vengono esercitati que-sta rivendicazione e questo bisogno, che sembravano scomparsi.
Prendere parte al processo di progettazione collettiva implica quindi partecipare all’elaborazione di modelli di vita, di convivenza e di organizzazione dello spazio urbano, riadattando continuamente repertori, risorse e punti di vista, assegnando a essi un nuovo senso, significa tessere nel tempo una trama di azioni, di strategie, di vissuti, di affetti, di relazioni che lentamente cambiano il territorio e chi lo attraver-sa.
Allo stesso modo l’eterogeneità e le differenti eredità che questo movimento porta con sé fanno sì che nelle pratiche quotidiane emergano rivendicazioni tipiche di altri nuovi movimenti sociali come quello delle donne, quello ambientalista, quello per la pace e quello antirazzista. Senza che nessuno di questi diventi predo-minante, trasformando questo movimento in altro, sia nelle interviste sia nella par-tecipazione alle differenti attività si riscontra una perenne attenzione a questi argo-menti che si tramuta, per esempio, nella cura e nella consapevolezza del ruolo delle donne all’interno del movimento o nella particolare attenzione riposta nel coinvol-gimento di persone provenienti da altri paesi in qualità di abitanti e quindi portatori altresì degli stessi diritti dei nativi.
“Proviamo a fare dei corsi di educazione non formale in cui parliamo di antirazzismo, di uguaglianza e di diritti quindi praticamente queste progettualità e forme di resistenza po-tremmo chiamarle “controcultura” cioè il ragionamento per cui facciamo autoformazione continua, non solo nostra ma a livello anche territoriale, facciamo dei dibattiti inerenti sia all’attualità sia a ragionamenti che noi poi mettiamo in pratica.” [Antonio, 28 anni, abitante
SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]
Non possiamo dire che ci sia una socializzazione generale e totalizzante delle rivendicazioni tipiche dei nuovi movimenti sociali; tuttavia la presenza di persone più politicizzate o sensibili a certi temi e la costruzione di momenti di incontro-formazione che vanno oltre le questioni inerenti il territorio specifico, uniti alla so-cievolezza che si sviluppa all’interno di questi spazi, offrono la possibilità di discu-tere di temi spesso relegati esclusivamente a politici e tecnici.
Questi momenti, inoltre, facilitano l’incontro faccia a faccia e agevolano quella forma di socialità che emerge spesso nei cosiddetti luoghi terzi, assumendo la for-ma di luoghi in cui si impara a vivere in società, si apprendono pratiche del vivere insieme, ci si informa col dialogo, si apprende la vita in comune: si fa quindi eser-cizio di relazionalità discorsiva, utilizzando ragione ed emozioni.
Slegandosi dalle rivendicazioni puntuali legate all’occupazione e sviluppando discorsi più ampi come quelli legati alle questioni di genere, all’antifascismo, al mutualismo, all’economia solidale, si risponde così alla «crisi di responsabilità o senso civico», creando vere e proprie palestre in cui allenare la «responsabilità pubblica», cioè «la disposizione del singolo a contribuire al benessere collettivo» (Privitera 2012: 141-143).
La difesa dei diritti culturali e sociali degli individui e delle minoranze diventa parallelo all’occupazione: «il riferirsi ai diritti degli individui, ai diritti delle mino-ranze così come a quelli della maggioranza, è quello che conferisce a questi movi-menti sociali una così grande importanza, perché forniscono la contestazione all’ordine dominante, e ancor di più, la liberazione delle vittime che, in alcuna mi-sura, si trasformano in agenti di cambiamento sociale» (Touraine 1999: 71).
L’azione di questi movimenti, dunque, ingloba sia il piano materiale sia il piano simbolico, aumentando la capacità di affermare, attraverso la loro stessa presenza, un altro modo per definire l’azione collettiva. Concentrando la propria azione sul codice culturale, la forma del movimento diviene «un messaggio, un simbolico
cambiamento dei modelli dominanti» (Melucci 1985: 801). La loro stessa azione diviene messaggio, offrendo loro stessi un’alternativa, rilevando nuove possibilità e disegnando un’altra realtà che trova la sua concretizzazione materiale proprio negli spazi occupati.
“Io dipingerei questa esperienza andando su forme artistiche molto antiche, come una di quelle allegorie di buon governo dove il governo però non c’è, queste situazioni dove tutto funziona, tutto cresce in una globalità, quindi il fatto che ci sia una palestra serve ad avere un università che serve a sviluppare un’attività artistica che produce qualcosa e serve ad avere un mercatino dello scambio che abbia un senso, tutte queste realtà sono correlate fra di loro in una buona armonia e questo è quello che di tanto in tanto si realizza, non sarem-mo qui diversamente.” [Federico, 66 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]
La materializzazione di rivendicazioni politiche ha permesso così al movimento di radicarsi e di coinvolgere una base sociale sempre più ampia. Grazie all’implementazione di azioni concrete si costruisce un modello alternativo di città, di economia e di vita/socialità: gli spazi occupati, infatti, non sono solo simboli di una lotta contro la speculazione, ma concretamente ospitano al proprio interno una serie di attività, gestite dagli stessi partecipanti, che aprendosi al territorio ne inter-cettano esigenze e bisogni specifici.
L’insieme di queste attività costituisce, nel qui e ora, un modello di welfare dal basso capace di cogliere i bisogni del territorio e contemporaneamente generare partecipazione; proprio in questa caratteristica sta la peculiarità e l’importanza di queste esperienze. Le categorie di utente, da un lato, ed erogatore di servizi, dall’altro, sfumano in un rapporto fluido di reciproco scambio: le persone coinvolte sono così, allo stesso momento, fruitori e generatori dei servizi a seconda delle oc-casioni, delle capacità e dei bisogni di cui sono portatori. In questo modo, empiri-camente potremmo dire, gli individui che partecipano alla vita degli spazi occupati sperimentano quotidianamente il superamento del principio della delega e l’affermazione di un modello partecipativo in cui ognuno è investito del potere di decidere ed essere protagonista.
Questo modello, inoltre, si dimostra capace di rispondere a un continuo arretra-mento del welfare pubblico: in un moarretra-mento storico in cui le risorse investite nel settore pubblico sono sempre meno e l’avanzare del privato nella gestione dei
ser-vizi è via via maggiore, queste esperienze si pongono come argine alla privatizza-zione totale. Il loro successo dimostra, infatti, che una gestione pubblica, dal basso e in grado di coinvolgere i cittadini, è non solo possibile, ma soprattutto la strada che permette di costruire quell’alternativa capace di salvaguardare e affermare un impianto in cui alla logica del profitto è anteposta a quella del valore d’uso, del coinvolgimento e dell’attenzione a tutti.
Seguendo questa traccia, all’interno degli spazi occupati incontriamo le più di-verse attività che afferiscono a differenti sfere della vita quotidiana. Esse, generate dalla fantasia delle persone, attraverso risorse spesso recuperate proprio all’interno della rete di solidarietà costruita nel percorso politico, crediamo possano essere or-dinate proprio a partire dalla dimensione su cui incidono: economica, dell’istruzione e della cultura, dei servizi alla persona, del tempo libero. Proveremo ora a entrare nello specifico di ognuna di esse, non solo per meglio descrivere ciò che avviene nella pratica, ma per sottolineare come anche alle azioni più semplici corrisponda l’affermazione e la garanzia di un diritto particolare e di una visione del mondo specifica.
“L’idea di SMS è legata in generale all’idea che partendo da una serie di bisogni possiamo riprenderci una serie di diritti: per esempio il diritto a fare uno sport per tutti è legato al di-ritto di poter rimanere in salute, il mercatino è legato alla questione del reddito indiretto, la scuola alla formazione e all’accessibilità alla formazione e il discorso della lingua italiana come strumento fondamentale e anche ovviamente l’educazione delle giovani generazioni come educazione alle differenze non formali, insomma questo progetto è fondamentale an-che in prospettiva e queste idee hanno trovato la casa in SMS, si sono ingrandite.” [Mara,
32 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]
5.1 Dimensione economica
Consideriamo pertinenti a questa sfera tutte quelle attività che nel loro dispiegarsi costruiscono un’alternativa alla visione neoliberale del mercato che indica il profit-to come unico obiettivo di ogni transazione o attività.
Partendo proprio dal rifiuto di questo modello, all’interno degli spazi occupati, sia a Barcellona sia a Milano, prende vita l’idea che anche nei rapporti commerciali la dimensione relazionale ed il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori siano fattori
importanti e incisivi. Parallelamente, il rifiuto della logica del massimo profitto comporta la creazione di attività che, attraverso la cultura della cooperazione e l’azione collettiva, elaborano «progetti di economia solidale-locale, basati su nuovi sistemi di economia delle relazioni, capaci di (ri)costruire tessuti economici e socia-li che facisocia-litano la cooperazione tra i diversi attori che agiscono in uno stesso terri-torio» (Forno 2014: 85).
Nella pratica, questo si è tradotto nella nascita di un gruppo di acquisto solidale e popolare (GASP) a Milano e di una cooperativa di consumo, “La Garrofera de Sants”, a Barcellona. Entrambe perseguono l’obiettivo di costruire collettivi che, agendo una scelta etica, acquistino prodotti biologici privilegiando i piccolo produt-tori che rispettano l’ambiente circostante, sviluppando così un modello alternativo a quello generale.
“Principalmente siamo un gruppo di consumo, quello che succede è che oltre al consumo siamo gente con coscienza che la società deve cambiare e che ci sono molte possibilità in cui farlo.” [Gerardo, 63 anni, attivista Can Batlló]
“Quando abbiamo contribuito a occupare nel percorso di cosa si può fare in questo spazio, cosa si può fare per vivere meglio noi e cercare di far vivere meglio anche la gente che abi-ta qui, il problema dell’alimenabi-tazione è sabi-tato un problema che abbiamo visto da subito, all’inizio c’era una cucina condivisa, purtroppo con delle regole e con delle vicissitudini che l’hanno resa poco praticabile, quindi già pensando alla cucina condivisa ci siamo detti perché non proviamo a costituire un gruppo di acquisto che sia a supporto, che sia perno anche di questa esperienza e che si apra anche al quartiere, uno degli obiettivi era quello di essere punto di riferimento come gruppo di acquisto solidale e la pista popolare che sia at-tenta anche ai prezzi e che fosse parte integrante di questa realtà, quindi che fosse come di-re impdi-regnata dello spazio e fosse un pezzettino dello spazio di mutuo soccorso.” [Laura,
63 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]
Lo sforzo di queste esperienze, inserendosi in una visione del mondo ecososte-nibile che rispetti i lavoratori e l’ambiente, è costruire una partecipazione collettiva in cui le persone possano essere qualcosa di più di semplici consumatori. La pratica collettiva del mutuo aiuto e dello scambio è sicuramente la dimensione che mag-giormente impatta con il modello egemonico di consumo.
“La cooperativa la governiamo e la facciamo funzionare noi. La prima cosa che dico a chi si avvicina è: siamo una cooperativa assembleare in cui tutti partecipano alla presa di deci-sioni, e la seconda cosa è che siamo una realtà autogestita, qui non c’è gente che lavora per noi, per tanto tutto ciò che c’è da fare nella cooperativa passa per noi.” [Gerardo, 63 anni,
attivista Can Batlló]
Accanto all’acquisto di beni alimentari si sviluppano altre iniziative che hanno nella logica dello scambio e non in quello del rapporto commerciale il proprio em-blema. A Milano C_rise, una sorta di mercatino dell’usato ma senza soldi, è sicu-ramente il più rappresentativo.
“L’idea di fare un mercatino di scambio è nata anche come modo di combattere la crisi con