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L’identità ripartendo dai territori

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 122-130)

Abbiamo più volte accennato a come le trasformazioni che hanno investito la socie-tà abbiano determinato numerosi cambiamenti che si ripercuotono in modo signifi-cativo sul processo di costruzione dell’identità degli individui e quindi anche su quella collettiva. Lo sradicamento derivante, originato dalla flessibilità e dalla pre-carizzazione delle esistenze, infatti, determina «la distruzione di un rapporto con la propria storia ed il proprio ambiente naturale e sociale che porta l’individuo a pro-vare sentimenti di discontinuità, frammentazione ed estraneità riducendo la vita so-ciale a mera esteriorità e portando l’individuo a cercare riparo o nelle forme di co-munitarismo o nel consumo edonistico, quindi in una condizione di oppressione». Per contrapporsi a questa spinta «l’individuo/soggetto può/deve reagire attraverso la ricostruzione della vita relazionale ed il riappropriarsi del locale (cultura e tradi-zioni) e del territorio» (Faccioni, Spagnuolo e Stasi 2016: 34).

Quanto illustrato può contribuire a spiegare perché oggi i conflitti territoriali siano così diffusi e perché la riscoperta del territorio, del locale e l’azione conflit-tuale, legandosi con il conflitto culturale tipico della nostra società e con la costru-zione dell’identità degli attori sociali che vi partecipano, diventino una dimensione importante nella costruzione di un’identità collettiva capace di sviluppare solidarie-tà e costruire un “noi” riconosciuto e riconoscibile.

Con il movimento di opposizione alle politiche di austerity, apparso nella prima decade degli anni Duemila, abbiamo già potuto notare come, tramite un dialogo

fa-ce-to-face tra i soggetti singoli, si siano create relazioni capaci di supportare la

pro-testa, le mobilitazioni e tutte le iniziative correlate. La presenza fisica nelle piazze e nei parchi occupati creava costrutti di vita dove i partecipanti potevano sperimenta-re nuovi comportamenti e sperimenta-relazioni intersoggettive, praticando una nuova socialità, alternativa alle condizioni di vita frammentata, conseguenza della separazione tra il potere finanziario e i soggetti inseriti nell’economia reale (Farro 2014). Tuttavia, le rivendicazioni immateriali e l’impossibilità di restare nei luoghi occupati per un pe-riodo lungo hanno spinto molti dei partecipanti a operare quello che gli stessi

chia-mano un “ritorno nei territori” trasferendo parole d’ordine e modus operandi in esperienze maggiormente legate al territorio.

I nostri casi studio, pur non nascendo dentro le piazze tematiche del movimento Occupy, ne prendono le sembianze, legandosi a rivendicazioni più materiali, con-crete e soprattutto situate in uno specifico spazio: il quartiere di San Siro a Milano e i quartieri di Sants e La Bordeta a Barcellona.

Definire cosa sia un quartiere oggi è tutt’altro che semplice: investito da tre grandi linee di trasformazione, che rimandano alla complessità dell’organizzazione sociale, economica e politica delle società contemporanee, alcuni studiosi sosten-gono che «il quartiere non può più essere interpretato come una comunità» (Borlini e Memo 2008: 20); tuttavia, come afferma Healey (2000), il quartiere rimane uno spazio-chiave, sebbene non esclusivo, della quotidianità urbana che contribuisce al-la definizione dell’identità dei residenti, attraverso il quale essi accedono a risorse materiali e sociali e costruiscono le proprie opportunità di vita.

Inoltre, la dimensione territoriale del quartiere assume un’importanza particola-re proprio perché in esso, come società locale, agiscono sia processi di integrazione sociale, riguardanti la reciprocità di pratiche fra attori compresenti, sia di integra-zione sistemica, che concernono invece i meccanismi e i legami fra attori fisica-mente assenti, ma collegati tra loro attraverso l’organizzazione spaziale della socie-tà (Giddens 1986).

La radice territoriale diventa così una delle chiavi di volta per comprendere que-sto movimento e, come si evince dalle parole degli attori, non solo genera un forte senso di appartenenza, ma anche una vera e propria identificazione con il quartiere che si traduce nel conoscerne ogni suo aspetto, grazie a una presenza quotidiana che permette di coglierne le diverse sfumature.

“L’idea di sapere qual è la storia di quel quartiere, come è fatto, come è composto, da chi è abitato, quale è la densità di popolazione, quanti abitanti ci sono, perché alcuni sono occu-panti e altri no è sicuramente interessante, mi ha dato la possibilità di sentirmi parte di quel quartiere.” [Michela, 24 anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]

Striscioni, cartelli e cori scanditi nelle azioni di protesta e nella vita quotidiana

che crea coesione, tanto da formare un gruppo che si percepisce come capace di co-struire qualcosa di molto grande con la compartecipazione di tutti.

Se ognuno mette il proprio mattoncino siamo molto grandi, non siamo piccoli, siamo il 99%. (…) Se riusciamo a conoscerci e a stare insieme siamo forti, siamo una comunità (…) il quartiere di San Siro è un esempio (…) ciascuno di noi è piccolo, ma insieme siamo grandi. [nota di campo 26-01-16]

In questo caso, sia a Milano sia a Barcellona, sembrano svolgere un ruolo fon-damentale i momenti di festa e di aggregazione ludica che, da un lato, offrono uno spazio di protagonismo alla portata di tutti e, dall’altro, si dimostrano capaci di coinvolgere una più ampia platea costruendo tradizioni e appuntamenti fissi nel corso dell’anno.

“Allo stesso tempo ci sono momenti di socialità, come possono essere… va beh il picco massimo è il San Siro Street Festival per viver i quartieri in maniera differente e lì intercetti chiunque, dalla sciüra Maria al signor Mohamed e piace a tutti, non ho mai sentito nessuno che dicesse che merda il San Siro Street festival, anzi ti chiedono quando sarà e iniziano a chiedertelo da un anno prima e quello è il picco massimo perché è proprio fatto apposta per vivere il quartiere in maniera differente.” [Michela, 24 anni, abitante SMS e attivista e

Co-mitato Abitanti di San Siro]

“Che teneva insieme questa rete è da una parte il quartiere, dall’altra, molto concreta, la fe-sta alternativa di Sants. In efe-state si organizza la fefe-sta di Sants. È una cosa in cui tutto il mondo si mette a disposizione e fa qualcosa. È il nesso che unisce tutti, c’è gente che si de-dica ad attaccare la luce, altri che cucinano, il bar, la musica ecc. e questo è un atto puntua-le in cui tutti partecipano.” [Pablo, 67 anni, attivista Can Batlló e membro del Centro

So-cial de Sants]

L’identità territoriale può però essere ambivalente perché, se da un lato sviluppa un attaccamento al territorio generando un forte senso di appartenenza e una grande motivazione all’azione, dall’altro rischia di costruire un movimento autocentrato su di sé e sul micro-territorio in cui opera. Si delinea, infatti, il rischio reale e concreto di trasformare la protesta in un “movimento urbano rivendicativo” che si muove in opposizione a contraddizioni locali e specifiche (mancanza di scuole o ospedali

ecc.), ma è poco attento e concentrato sulle rivendicazioni più ampie legate ai dirit-ti, alla politica istituzionale e a mobilitazioni multidimensionali ed eterogenee (Borja 1974). In questo caso, come suggerito da Castells (1997: 88), «le comunità locali, costruite mediante l’azione collettiva e conservate mediante la memoria col-lettiva, sono sì fonte di specifiche identità, ma nella maggior parte dei casi sono considerabili come reazioni difensive contro le imposizioni del disordine globale e del rapido e incontrollabile cambio di ritmo. Si costruiscono rifugi, ma non paradi-si». Costruire la propria identità legandola esclusivamente all’appartenenza territo-riale, quindi, minerebbe la capacità di rendere queste esperienze un movimento so-ciale o, per dirla alla Touraine, un «attore di storicità».

I nostri casi studio, però, sembrano discostarsi da questo pericolo proprio grazie a due elementi che li caratterizzano: l’eterogeneità interna al collettivo e l’orizzontalità che sta alla base dell’autogestione.

L’eterogeneità, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, permette che all’interno dei collettivi coesistano diverse sensibilità, coscienze politiche e gradi di radicalità. L’abbandono dell’idea egemonica, tipica dei vecchi movimenti, impedi-sce che la spinta omologante abbia la meglio e obbliga i collettivi al doppio sguar-do: quello concreto e micro sul quartiere, ma anche quello più macro sulla società e le dinamiche che la governano.

“Gli obiettivi di Can Batlló sono molti, tanti come la pluralità di gente che lo compone: ci sono persone per cui avere un centro sociale come punto di incontro dove poter fare attivi-tà, una programmazione culturale è già sufficiente, altre che guardano un po’ più in là. L’idea è dimostrare che si può costruire la città in una forma differente e che in qualche modo la sovranità della costruzione della città deve essere dei cittadini.” [Martin, 43 anni,

attivista Can Batlló e membro de La Ciutat Invisible]

Così facendo il movimento riesce a rimanere ancorato al territorio, offrendo alle persone che lo vivono uno spazio fruibile di protagonismo anche attraverso il senso di appartenenza e la chiarezza degli obiettivi concreti messi in campo. Allo stesso tempo, però, allargando i propri orizzonti evita la chiusura su se stessi e traghetta il senso di appartenenza al quartiere in una dimensione sempre più ampia: la città come primo step e l’appartenenza al sistema mondo come ultimo.

L’eterogeneità, però, non è garanzia assoluta di successo, ma, come abbiamo vi-sto per i movimenti di occupazione e per il movimento dei movimenti, deve essere accompagnata da un modello organizzativo che favorisca il metodo del consenso, facilitando un’orizzontalità tra i componenti e il protagonismo degli individui. In questo modo le diverse anime di cui sopra sono costrette a confrontarsi in un conti-nuo e dinamico processo di negoziazione, contaminazione e ridefinizione, processo che non coinvolge solamente i gruppi portatori di uno specifico pensiero, ma tutti i partecipanti.

“Noi siamo “assembleari”, cioè l’organo supremo della presa di decisione è l’assemblea generale di Can Batlló e lì è dove si prendono le decisioni, e questo non è per nulla facile. (…) Il funzionamento per assemblea, tanto meraviglioso a volte può non funzionare perché le persone che ne fanno parte non sono ancora preparate, io credo manchi la cultura di sa-per mantenere un dialogo e accettare le decisioni. Cosa proviamo a fare qui? Che l’assemblea e le decisioni siano sempre per consenso, proviamo che sia così, evidentemen-te ci sono persone che non sempre sono d’accordo in tutto e questo è evidenevidentemen-te, però si parla e attraverso il dialogo costruttivo si trova un accordo e così si prendono le decisioni.”

[Lau-ra, 63 anni, attivista SMS]

Processo non significa però risultato: infatti, quanto abbiamo rilevato nel corso della ricerca è non solo l’emergere di sensibilità diverse, ma anche di consapevo-lezze differenti. A Milano si nota una divisione tra coloro che si sono avvicinati spinti dal bisogno materiale della casa e senza una socializzazione politica prece-dente e coloro che invece, proprio grazie a questa preceprece-dente socializzazione, si ri-trovano oggi a essere protagonisti di questa lotta. Se i primi fanno difficoltà ad ave-re una visione più globale del movimento, i secondi hanno invece ben chiaave-re le pro-spettive politiche più ampie.

“È anche un tentativo di costruire una comunità all’interno di un territorio senza chiudersi solo su questo ma cercando di lavorare su una dinamica politica più ampia, quindi su un li-vello cittadino, sul riuscire a partire dal proprio territorio in cui si lavora per poi impattare anche sulla città, su un livello un po’ più ampio, nazionale e internazionale […] potremmo chiamarla controcultura.” [Antonio, 28 anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di

A Barcellona le differenze sono invece più legate alle esperienze di lotta prece-denti: coloro che provengono dal movimento okupa o dal centro sociale di Sants – famoso per la sua radicalità - hanno uno sguardo più a lungo raggio, mentre gli al-tri, spesso, si fermano ad una visione limitata alla gestione di Can Batlló e del quar-tiere limitrofo.

“Un altro dibattito fu tra le persone che si impegnavano tout court nei lavori delle navi fun-zionanti e coloro che invece “andavano in giro” per le altre navi a capire e fare qualcosa di diverso. Il dibattito fu proprio tra visioni e alla fine chi è contento di fare le cose al bloque 11 le fa, altri, che non sono qui solo per gestire uno spazio occupato ma per immaginare al-tre cose, si occupano di quello. Quindi è bene che queste due anime convivano.” [Martin,

43 anni, attivista Can Batlló e membro de La Ciutat Invisible]

Le strategie per ricucire questa distanza d’interpretazione e costruire un’identità unitaria prevedono l’utilizzo di dispositivi e azioni che facilitano la contaminazione tra le due prospettive. Alcune di queste, che potremmo chiamare sociali più che po-litiche, offrono a tutti la possibilità di sperimentare in prima persona le differenti sfaccettature di una lotta e i differenti piani che vi s’intrecciano.

“Il dispositivo è quello di cercare di costruire un gruppo attraverso le responsabilità, ma anche attraverso dei percorsi, con delle cose per cui lentamente c’è una crescita nella capa-cità di assumersi delle responsabilità anche politiche e non solo materiali.” [Antonio, 28

anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]

Altre sono più legate ai momenti di classica formazione e discusse all’interno delle assemblee generali che cercano di favorire un confronto genuino e schietto.

La sfida sembra perciò quella di sviluppare consapevolezza sul rischio di chiu-dersi e costruire un movimento la cui concentrazione sul locale non impedisca di essere globali e pertanto costruire una dimensione glocal (Köhler e Wissen 2003) che incida non solo sugli obiettivi, ma anche sull’identità stessa del collettivo. As-sumere questa visione significa, quindi, portare avanti azioni collettive nella città, che ineriscono problemi della società generale, quali ad esempio la disoccupazione, l’economia, l’ambiente – e in questo caso la città funziona come un’arena per il di-battito pubblico –, e azioni collettive sulla città che invece hanno come oggetto del

contendere le questioni urbane quali ad esempio gli alloggi, i servizi, costruzioni di opere, ecc. (Pickvance 1989), in una continua oscillazione.

La costruzione di una dimensione glocal sembra tradursi in un’attenzione a tre differenti livelli. Il primo afferisce alla dimensione micro: entrambi i casi studio si concentrano sulla vita del quartiere in cui nascono, affrontandone problematiche e costruendo reali spazi di sperimentazione in cui gli individui possono, attraverso la partecipazione, sviluppare un senso di appartenenza al quartiere e al gruppo. La ri-costruzione di reti di vicinato e di solidarietà assume in questo livello un’importanza fondamentale.

“A parte le amicizie normali che hanno tutti, siamo sempre stati da soli, non ci siamo mai sentiti parte di qualche cosa e invece adesso sinceramente è più presente molto più tornata questa… come dire insomma è tornata una socialità che comunque avevo vissuto e avevo diciamo perso negli anni.” [Alberto, 53 anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti

di San Siro]

“Insomma è un esperimento sociale duro e puro che privilegia le relazioni di vicinato.” [Florina, 28 anni, attivista Can Batlló]

Il secondo livello, che potremmo chiamare meso, si riferisce invece alla città: di là dal quartiere le rivendicazioni, materiali e immateriali, investono il contesto cit-tadino e le politiche che lo governano. Questo, che non è considerabile solo come un esercizio filosofico, si traduce nella contestualizzazione del quartiere in un con-tenitore più ampio, la città appunto, costruendo consapevolezza sull’interdipendenza che lega le politiche cittadine alla vita quotidiana dei quartieri; attraverso questo lavoro non solo l’impegno politico diventa più puntuale, ma le persone che si avvicinano al collettivo entrano anche in un percorso di allargamento del proprio sguardo, costruendo un senso di appartenenza e identitario che, pur par-tendo dal quartiere, abbraccia anche la città e la società nella sua interezza.

“È anche un po’ la cosa innovativa che ci piaceva come concetto era quello di fare tutta questa serie di attività in maniera militante, nel senso che noi facciamo il dopo-scuola per i bambini però facciamo anche un discorso d’attacco sull’abbandono dei quartieri popolari, sull’abbandono delle scuole di periferia, l’abbandono di qualsiasi tipo di finanziamento, facciamo anche un discorso sul welfare state che non esiste e magari ci abbiamo legato solo

un pezzettino che è il mercatino però ovviamente anche con un discorso politico che non fa sconti a nessuno, che dice quello che deve dire sia pubblicamente e quando c’è da andare da qualcuno ci va tranquillamente.” [Mara, 32 anni, attivista Comitato Abitanti di San

Si-ro]

“Da un lato [Can Batlló] è un polo comunitario autogestito e gestito in forma più vicina ai bisogni degli abitanti, però dall’altro lato abbiamo tutta la città del capitale che sta crescen-do, qui c’è un distretto economico evidente che parte dall’aeroporto e passando per Plaza Europa e la Fiera arriva fino a qua. Questa è un’espressione della vittoria del capitale ri-spetto al progetto, il progetto urbanistico che si sviluppa seguendo i principi neoliberali, quindi chiaro dipende dalla capacità di lottare e la capacità che abbiamo di difendere il no-stro quartiere, che poi il quartiere si crea difendendolo e producendolo e appropriandosene in una forma antagonista al capitale (…) Ci sono tutta una serie di processi, come la

gentri-fication di intere zone della città che sono in marcia, vedremo la capacità che potrà avere il

collettivo per contrastarli.” [Martin, 43 anni, attivista Can Batlló e membro de La Ciutat

Invisible]

Infine, il livello più ampio è quello macro da cui sono partiti il movimento dei movimenti e il movimento no-austerity: costruire l’immagine di un “cittadino glo-bale” attento e consapevole delle dinamiche che governano il pianeta significa fare tesoro dell’eredità dei movimenti del passato e tradurre le rivendicazioni pratiche in una critica al governo neoliberale.

Attraverso la sintesi di questi tre livelli i movimenti qui studiati sembrano offri-re una ricomposizione tra due poli opposti: il localismo e il globalismo. La figura del cittadino globale, nella sua stessa dicitura, infatti, contiene la dimensione locale della città, il luogo in cui gli individui possono giocare un ruolo attivo e incidere concretamente sulle politiche, ma allo stesso tempo include la dimensione globale che permette di cogliere il legame che lo stesso sistema neoliberale ha creato tra i diversi luoghi del mondo rendendoli interdipendenti tra di loro.

Non possiamo considerare questo percorso né lineare né rapido: al contrario, come dimostra questa ricerca, è irregolare e lento e richiede una continua negozia-zione.

“Tutto questo è un processo che combina l’autogestione intesa come la riappropriazione di risorse e la soluzione di necessità per parte della collettività (…) Ancora una volta qui si

vede latente la dialettica tra l’appropriazione e la produzione, dove il ritmo dell’amministrazione e del capitale è uno e il ritmo della comunità è un altro, per questo molto spesso il tema della partecipazione della cittadinanza non funziona, perché non san-no rispettare, san-non sansan-no leggere i codici comunitari di funzionamento. Il processo dal basso è sicuramente molto più lento però è anche molto più arricchente (...) in uno stesso spazio convivono diversi modi di funzionamento con contraddizioni, con conflitti ecc., ci sono co-se che ancora non si sono risolte in 5 anni e ci sono molti dibattiti sopra il tavolo, ma non ci facciamo prendere dalla frenesia perché solo così il processo, come dicevo, nonostante la sua lentezza diventa condiviso e profondo.” [Martin, 43 anni, attivista Can Batlló e

mem-bro de La Ciutat Invisible]

Tuttavia, nonostante l’irregolarità, e partendo proprio dal radicamento nei terri-tori, queste esperienze stanno costruendo uno spazio in cui gli individui, parteci-pando all’azione collettiva, riscoprono la possibilità di costruire la propria identità (Farro 2014), capace di abbracciare le diversi dimensioni, micro-meso-macro, che attraversano l’identità del movimento.

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 122-130)