Tra i termini con cui i nostri intervistati descrivono lo spazio e il collettivo, autoge-stione e assemblea sono i più ricorrenti e, pur essendo due modalità organizzative tipiche dei movimenti sociali, come abbiamo accennato parlando della costruzione dell’identità, assumono in queste esperienze una centralità nuova che genera risulta-ti interessanrisulta-ti e importanrisulta-ti.
Il termine autogestione veicola l’idea e la pratica di un protagonismo diffuso, tanto che la stessa esperienza vive solo se le persone che la frequentano mettono al suo interno tempo ed energie. Questa visione, che superando il principio della dele-ga permette a tutti di diventare attivi e di sentirsi indispensabili, ha fatto sì che la necessità di allargare quanto più possibile la partecipazione anche e soprattutto oltre il nucleo di persone che le hanno dato vita diventasse uno degli obiettivi principali. L’occupazione di spazi non è quindi la costruzione di un feudo chiuso su se stesso in posizione di difesa, ma una sorta di avamposto che, attraendo il maggior numero di persone possibile, contamina e sviluppa un modello alternativo di vivere i territo-ri fatto di protagonismo attivo.
“In Can Batlló siamo circa 350 persone attive che fanno qualcosa organizzate in 30 tra pro-getti e commissioni.” [Pablo, 67 anni, attivista Can Batlló e membro del Centro Social de
Sants]
Non è solo una questione di numeri, figlia della logica del “più siamo, meglio è”, ma diventa un modus vivendi dello spazio stesso. L’obiettivo è sicuramente quello di aumentare le risorse spendibili nella vita quotidiana, ma contemporanea-mente persegue anche altri due scopi: la diffusione di una cultura partecipativa e la creazione di spazi che siano del quartiere e quindi in grado di rispondere ai suoi bi-sogni.
Superato il principio della delega, questi collettivi abbandonano anche l’idea di avanguardia che dovrebbe guidare le masse, avvicinandosi sempre più alla filosofia di stampo zapatista del “comandare obbedendo”. Gli spazi che prendono vita sono così immaginati, pensati, vissuti e organizzati come luoghi del quartiere e delle per-sone che lo abitano.
“I primi anni abbiamo fatto un lavoro fisico di restauro e abbiamo fatto molte riunioni per definire come gestire tutto questo e definimmo che è uno spazio dei vicini, pubblico e che le attività si autofinanzino per se stesse.” [Pablo, 67 anni, attivista Can Batlló e membro
del Centro Social de Sants]
Perseguire questi obiettivi significa impostare un’esperienza il più possibile aperta e coinvolgente verso l’esterno. Il fine non è incentivare le persone ad usu-fruire dei servizi, ma cercare di coinvolgerle praticamente nell’esecuzione e soprat-tutto nella fase ideativa. Questo si è tradotto nella costruzione di spazi di condivi-sione in cui le esigenze e i bisogni dei cittadini potessero trovare un contesto dove emergere, essere elaborati e collettivizzati. La porta di accesso è il più delle volte la partecipazione ai momenti di festa e alle varie attività, ma il luogo principe in cui si condividono idee e pratiche e si costruisce quella cultura della partecipazione che rende significativi questi spazi rimane l’assemblea. All’interno di quest’ultima con-vergono tutte le questioni legate all’occupazione e alla vita degli spazi, dalle più materiali fino a quelle riguardanti l’orizzonte politico. Tutti hanno il diritto di porta-re la propria opinione e attraverso lo scambio porta-reciproco si costruisce una strategia di azione comune che rispecchia la volontà di tutti.
“Le decisioni le prendiamo collettivamente, non votando ma riflettendo su quella che è l’idea migliore… è necessario che ci siano molte idee che ognuno dica la propria.” [ Marta,
34 anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]
L’assemblea, tuttavia, non è uno strumento di facile utilizzo e spesso nasconde al suo interno diverse insidie che rischiano di occultare il verticismo, mascherando-lo da orizzontalità. I nostri intervistati sembrano esserne consci e per questo metto-no in campo alcuni dispositivi che tentametto-no di metterli al riparo da queste derive: l’organizzazione interna di entrambi gli spazi ha infatti vissuto un percorso di cre-scita in cui, attraverso prove ed errori, si è cercato di costruire un meccanismo di reale partecipazione. A Barcellona, per esempio, accanto all’assemblea generale, che rimane il luogo in cui sono elaborati gli obiettivi politici, sono nate diverse commissioni collaterali.
“È stato un processo anche in questo caso, all’inizio c’era un gruppo di persone con idee e progetti molto chiari poi strada facendo si sono aggiunte altre persone e altri progetti e altre
commissioni, per cui per coordinare tutto questo abbiamo un’assemblea generale che si tie-ne una volta al mese, una che si fa settimanalmente di coordinamento dove partecipa una persona per ogni gruppo di lavoro e poi ogni gruppo ha la sua assemblea.” [Francisca, 32
anni, attivista Can Batlló]
Alcune di queste commissioni si riferiscono alla gestione degli spazi specifici all’interno di Can Batlló, altre hanno invece il fine di elaborare studi più approfon-diti su questioni ritenute particolarmente importanti, che saranno poi affrontate nell’assemblea generale. Attraverso questo passaggio, gruppi più ristretti, e quindi più agili, svolgono quel lavoro preparatorio di ricerca e socializzazione del sapere, necessario a implementare un dibattito vero e approfondito. Produrre e condividere informazioni prima della discussione significa permettere a chiunque di avere gli elementi necessari per farsi un’idea propria, da condividere poi con gli altri compo-nenti, diminuendo così la possibilità che i più informati e i più abili nell’arte della dialettica governino l’assemblea.
È importante cogliere come la dimensione collettiva investa anche questa fase precedente alla discussione: il lavoro di ricerca delle informazioni non rimane così in capo all’individuo e alle sue capacità, ma anch’esso è collettivizzato perseguen-do l’obiettivo di consegnare a chiunque la possibilità di partecipare alla discussio-ne, quindi di essere protagonista delle decisioni che saranno prese. Un esempio di questa modalità è rintracciabile nel dibattito apertosi a Barcellona sulla possibilità di introdurre all’interno di Can Batlló attività capaci di generare reddito. Essendo questo un argomento delicato, considerato il carattere di partecipazione volontaria che caratterizza lo spazio, la preparazione della discussione è preceduta da un lavo-ro di studio.
“Se introdurre la “remunerazione” e su come gestire quelle attività che potrebbero generare reddito ancora non abbiamo un accordo definito, la commissione di economia sta lavoran-do per svilupparlo per capire come fare e nel frattempo periodicamente ne discutiamo nell’assemblea generale.” [Pablo, 67 anni, attivista Can Batlló e membro del Centro Social
de Sants]
Un’altra garanzia di orizzontalità è rintracciabile nell’adozione del metodo del consenso per la presa delle decisioni.
“La presa delle decisioni si fa per consenso e non per votazione, quindi bisogna avere come un accordo nel senso che nessuno, in alcuna forma, si opponga frontalmente alla decisione. È un processo abbastanza lento ma è questo che sono i processi assembleari.” [Francisca,
32 anni, attivista Can Batlló]
Il metodo del consenso è una forma che permette di prendere decisioni coopera-tive e non coercicoopera-tive e in breve implica che un gruppo di persone che si riunisce, sollevata una questione, la discuta, ipotizzi varie soluzioni e scelga quella che sod-disfa l’intero gruppo. È un processo che consente a ciascun individuo del gruppo di partecipare, di lavorare e prendere decisioni insieme agli altri in maniera nonviolen-ta; contemporaneamente dà alle persone il potere di prendere decisioni e richiede a ciascuno di assumersi la responsabilità per tali scelte.
Il consenso non è unanimità e la decisione finale, di solito, non coincide con la prima preferenza di ciascun individuo del gruppo. Ci saranno persone a cui il risul-tato finale non piacerà, parzialmente o del tutto, ma sarà una decisione a cui tutti avranno acconsentito e a cui ciascuno sarà disposto, a livelli diversi, a cooperare.
L’individuo, le sue idee e i suoi punti di vista sono rispettati e valorizzati duran-te la fase di discussione, ma una volta presa la decisione a emergere è quel “noi” di cui fanno parte. Attraverso questo modo di procedere sia il singolo sia il gruppo trovano spazio e importanza, ma tramite la forza discorsiva e la solidarietà che lega le persone, a conclusione del processo, ciò che è più importante è il collettivo, non più l’individuo. A differenza del voto, il consenso dà valore al sentimento, all’emozione, al come-ci-si-sente, e in questo modo permette a tutti, anche a coloro che partivano con un’idea diversa, di sentirsi parte del processo decisionale.
Autogestione, orizzontalità e metodo del consenso possono essere considerati gli ingredienti che danno vita a questi spazi occupati e contemporaneamente ci spingono a richiamare il concetto di sfera pubblica di habermasiana memoria. Co-me è noto, in Storia e critica dell'opinione pubblica Habermas (1962) formula tale nozione, intendendo uno spazio in cui individui formalmente liberi dialogano ra-zionalmente su argomenti di rilevanza collettiva, sottoponendo il loro giudizio, la loro proposta o la loro opinione al vaglio intersoggettivo. La sfera pubblica haber-masiana è quella che prende forma e si articola nei salotti, nei club, nei circoli, nelle associazioni e soprattutto nei caffè del Seicento e Settecento in Inghilterra e si è
evoluta nel tempo, con forme e modalità differenti a seconda dei contesti, tanto che lo stesso studioso tedesco ha preso atto delle critiche rivolte al concetto iniziale formulato, modificandolo leggermente nei lavori successivi. Tuttavia, ai fini del no-stro ragionamento, resta il fatto che la sfera pubblica sia, in termini molto generali, uno spazio discorsivo e relazionale in cui insiemi di individui si incontrano, si in-formano, si relazionano l’un l’altro attraverso l’utilizzo del linguaggio condiviso. Nella sfera pubblica i soggetti partecipanti si danno da fare per proporre soluzioni a eventuali problemi o condividendo le loro opinioni su un fatto inerente al bene co-mune e, dunque, dalla rilevanza collettiva. Essa dunque ha a che fare con tutte le «condizioni che ci aiutano a farci un’opinione ragionata assieme ad altri su proble-mi di interesse generale» (Privitera 2012: 16).
Possiamo quindi considerare questi spazi occupati come una vera e propria sfera pubblica all’interno della quale entra in gioco non solo la forza discorsiva, ma an-che la sfera emotiva an-che spinge le persone a partecipare. Sia Can Batlló sia SMS possono quindi essere descritti come spazi discorsivi e relazionali all’interno dei quali un insieme di individui agenti, aventi uguale diritto di parola e dotati dell’uso di un linguaggio condiviso, discute razionalmente ed emozionalmente, utilizzando modi civili, di questioni per loro rilevanti o, meglio, che per loro acquistano rile-vanza specifica. «Le questioni affrontate sono pubbliche (o lo diventano) e vengono offerte a un pubblico, al cui vaglio intersoggettivo si affidano proposte, soluzioni e intenzioni di agire al fine di risolvere il problema-questione di interesse collettivo di cui si discute» (Cerulo 2014: 88-89).
In questi spazi si costruisce così una realtà sociale, sia quella del presente sia quella del futuro; sono quindi luogo di confronto, di interpretazione delle cose del mondo, ma, soprattutto, di azione collettiva: possibilità di creazione di un futuro di-verso da quello pensato e predisposto da altri soggetti, istituzionali e non.
Nei prossimi paragrafi entreremo nel vivo di questo modello alternativo descri-vendo le azioni messe in campo e soprattutto gli effetti che queste hanno sulla crea-zione, anche materiale, di una città-società differente.