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Legittimare un’azione radicale

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 151-156)

Il ricorso alla protesta è stato regolarmente individuato come l’elemento caratteriz-zante i movimenti rispetto ai partiti, centrati sulla partecipazione elettorale, e ai gruppi d’interesse, che si distinguerebbero invece per la pressione lobbistica (Rucht 1990, 1995). È possibile quindi intendere la logica comune della protesta come la rottura del consenso che, unita alla capacità di mobilitare l’opinione pubblica verso una forma di manifestazione non-ortodossa, ha come obiettivo l’espressione di un

conflitto capace di mettere pressione ai decision-makers (della Porta e Diani 2006). Corpi, simboli, identità, pratiche e discorsi sono usati per perseguire o prevenire cambiamenti nei rapporti di potere istituzionale (Taylor e Van Dyke 2004) elabo-rando negative claims (Tilly 1978) nei confronti di altri attori, vale a dire formulan-do strategie che in caso di successo comporterebbero una significativa riduzione del controllo esercitato da questi ultimi sulle risorse (economiche, politiche, simboli-che) cui il movimento attribuisce importanza (Touraine 1981).

La scelta delle pratiche è legata sia a dinamiche interne, che producono e raffor-zano l’identità collettiva (Pizzorno 1993), sia esterne, e partendo dalla costruzione simbolica di un conflitto mette in gioco due dimensioni: quella diagnostica che in-dividua il problema e i suoi responsabili e quella prognostica che, invece, ne indivi-dua le possibili soluzioni (della Porta e Piazza 2008).

Non tutte le azioni di protesta hanno lo stesso livello di radicalità. Al contrario, accogliendo la proposta di Dalton (1988), possiamo individuare un continuum for-mato da quattro steps: il primo consiste nel passaggio da forme di partecipazione convenzionali a forme non convenzionali, attraverso l’adozione di pratiche politi-che come la partecipazione a cortei autorizzati e la firma di petizioni politi-che, pur non assumendo i tratti della conformità, ancora rientrano in pratiche consentite dalla legge; il secondo step consiste nell’adozione di pratiche di azione diretta come il boicottaggio, che può limitarsi all’astensione dall’acquisto di prodotti di alcune multinazionali, fino ad azioni più radicali come la distruzione di piantagioni di pro-dotti geneticamente modificati; il terzo è il passaggio a repertori di azione illegali, ma non necessariamente violenti, come l’adesione a scioperi selvaggi o l’occupazione di edifici. L’ultimo step, infine, implica la partecipazione a azione radicali che vanno dalla violenza contro la proprietà a quella contro le persone.

Storicamente il numero dei partecipanti diminuisce con l’innalzarsi del livello di radicalità, ma ciò che emerge in questa ricerca è proprio la rottura di questa equa-zione. Infatti, sia a Milano sia a Barcellona, nonostante la genesi dei due movimenti sia molto differente, incontriamo luoghi – SMS e Can Batlló – tra loro più che simi-li per obiettivi, modasimi-lità di gestione e di partecipazione, che hanno nell’occupazione il loro atto di nascita.

Considerando che l’occupazione di centri sociali, tipica del movimento okupa, puntava a una sperimentazione soggettiva e sociale differente, volta alla creazione di forme di socialità e culture alternative in cui l’aspetto sociale si fondesse con

quello più politico di ridefinizione di spazi abbandonati e di protesta rispetto al si-stema che tale degrado ha prodotto (Berzano, Gallini e Genova 2002), possiamo ri-levare come questi movimenti ne abbiano ereditato le pratiche; non possiamo tutta-via considerare queste due esperienze identiche.

La prima novità che possiamo rintracciare risiede nel percorso che ha generato la ri-appropriazione e nell’assenza di un retroterra ideologico specifico – che sia la sinistra radicale o l’anarchia. Se i centri sociali avevano un gruppo di militanti ideo-logicamente orientato che compiva l’azione di occupare per poi iniziare un lavoro territoriale di allargamento della base sociale, sia Can Batlló sia SMS sono frutto di un percorso inverso, dove un lavoro territoriale di coinvolgimento degli abitanti, con la presenza di differenti riferimenti ideologici, precede la riappropriazione dello spazio.

“I vicini che da molto tempo ragionavano su questo spazio, capirono che o facevano qual-cosa oppure si sarebbero trovati questo progetto fatto sul loro territorio. Così si cominciò a scendere in strada facendo una serie di manifestazioni di tipo festivo però, inaugurando quella che fu chiamata la campagna “Tic-Tac, Can Batlló” e fu allora che mi sono chiesta ma cosa è questa campagna che parla del mio quartiere? Perché allora non sapevo nulla, quindi mi avvicinai, mi raccontarono la storia e iniziai a partecipare. C’erano diverse per-sone tra cui un gruppo di giovani architetti che fin dal principio parteciparono molto e così cominciai a partecipare anche io, fino a quando ci fu l’occupazione.” [Francisca, 32 anni,

attivista Can Batlló]

Il lavoro preparatorio di informazione e costruzione di un immaginario genera un crescendo di partecipazione e un coinvolgimento sempre maggiore e permette di trasformare uno spazio abbandonato e vuoto in un luogo che simbolicamente rap-presenta le politiche di governo del territorio contro cui battersi e a cui contrapporre un modello altro. All’abbandono delle istituzioni è, infatti, contrapposta la cura dei cittadini che con le proprie mani sistemano un luogo, facendolo proprio e restituen-dolo alla cittadinanza.

“Il giorno dell’occupazione uno spazio che era morto e che si stava reclamando fu preso da più di mille persone e i giorni successivi si iniziò a fare commissioni e assemblee per capi-re come organizzarci.” [Florina, 28 anni, attivista Can Batlló]

“Sms è una risposta politica al problema dell’abitare, una risposta politica concreta, dicen-do: vedete queste case sono vuote da decenni, nessuno ci mette mano e allora ce la mettia-mo noi, ristrutturiamettia-mo quello che riusciamettia-mo a ristrutturare e diamettia-mo le case a chi ne ha ne-cessità. È stato fatto così, ha funzionato poi è arrivata la palestra, l’università popolare poi da cosa nasce cosa chi ha delle idee che possono funzionare le sviluppa, le mette insieme e invita la gente a dargli una mano.” [Claudio, 62 anni, attivista Comitato Abitanti di San

Si-ro]

Riappropriarsi di uno spazio abbandonato, attraverso un processo di partecipa-zione dal basso, risignifica quindi una pratica fino ad allora considerata radicale, donandole legittimità: un atto di disobbedienza civile non fine a se stesso, ma capa-ce di trasformarsi nell’inizio di un cammino di costruzione di pratiche in cui risco-prire e sperimentare un protagonismo attivo e attento ai bisogni del territorio su cui insiste.

“È la dialettica tra “appropriazione della città” e “produzione dello spazio” da parte del ca-pitale. Il capitale produce uno spazio determinato e la gente nell’appropriarsi di questo spa-zio gli da un senso inaspettato e differente.” [Martin, 43 anni, attivista Can Batlló e

mem-bro de La Ciutat Invisible]

Proprio questo protagonismo, unito all’orizzontalità con cui sono prese le deci-sioni all’interno dei collettivi, ha reso possibile una contaminazione reciproca tra visioni e radicalità differenti. Questo mix ha permesso di destrutturare la narrazione che i media facevano dell’atto di occupare e contemporaneamente di costruirne una nuova in cui l’accento è posto su temi come la “riappropriazione” o la “riqualifica-zione” degli spazi urbani. L’atto illegale si trasforma in qualcosa di legittimo e do-veroso, mentre sono l’abbandono e la speculazione, che investono questi luoghi, ad essere sempre più considerati come la vera ingiustizia.

“Con l’esperienza di SMS, per esempio, è nato anche il discorso di riqualificazione della piazza lì davanti. Anche rispetto a questo discorso qua, prima era tutta fanghiglia e con gli abitanti abbiamo iniziato a fare la piantumazione e l’idea è quella di farci un parco da resti-tuire alla città. Lo stesso i corsi della palestra sono frequentati da persone del quartiere che non frequentano il centro sociale, che forse non avremmo mai incontrato che però invece a SMS ci vengono, alcuni hanno attivato il GASP. Abitativo e progetti si sono dati quindi

forza uno con l’altro, oltre che fisicamente anche nel ragionamento politico che ci ha spinto a riprendere questo spazio e farci sms.” [Mara, 32 anni, attivista Comitato Abitanti di San

Siro]

“Erano 2 palazzi fantasma, abbandonati da 15 anni, erano 2 esempi di degrado della città, palazzi disabitati e fantasma che sono pieni di vita adesso, ci sono nati 3 bambini che non sapevano dove nascere.” [Barbara, 42 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]

In questo modo un’azione di protesta, prima confinata e patrimonio di uno spe-cifico gruppo politico, fortemente connotato ideologicamente, si trasforma in qual-cosa di accessibile e fatto proprio da tutti, aprendo la possibilità di implementare, anche concretamente, uno spazio di condivisione in cui a tutti è garantito di parte-cipare e, soprattutto, capace di far nascere progetti concreti in cui le persone posso-no contemporaneamente spendersi nei e usufruire dei servizi offerti.

“Questa occupazione è socialmente legittima, super legittima. Una riappropriazione,

l’empoderamiento, dopo anni lottando per Can Batlló ci siamo detti “entriamo, mettiamo

un piede!” [Estella, 60 anni, attivista Can Batlló]

Da questa condivisione nasce una contro-narrazione in opposizione a quelle dominante, come si può leggere perfettamente nella “lettera aperta su San Siro” scritta proprio dal Comitato Abitanti di San Siro:

“Ma il quartiere, pur nelle condizioni di difficoltà, si organizza, con iniziative di riqualifi-cazione, con doposcuola autogestiti, scuole d’italiano, palestre popolari, sportelli sindacali, associazioni, mercatini di scambio, feste popolari gratuite, panettieri che regalano il pane, laboratori di ricerca: una San Siro solidale che resiste alla crisi mentre istituzioni abbando-nano quartieri e persone. L’unica sicurezza che vogliamo è quella sociale, quella dei diritti, non crediamo che si possa pensare di risolvere un’emergenza sociale con le camionette, militari, sgomberi e chiusura di spazi: servono investimenti, serve garantire diritti elemen-tari come quello alla casa, all’istruzione, alla salute, servono spazi di socialità in cui gli abi-tanti di questo quartiere si conoscano, si aiutino, si confrontino, si sentano responsabili e partecipi di questo territorio.”

[lettera aperta su San Siro: http://www.radiondadurto.org/2016/11/23/milano-lettera-aperta-su-san-siro/]

Una narrazione che legittima ulteriormente le pratiche messe in campo e si ri-volge a una platea ampia, cercando di avvicinarla a queste esperienze. La riappro-priazione non è però solo un atto politico e simbolico: come vedremo nel prossimo paragrafo, essa funziona da laboratorio per la partecipazione attiva in cui anche la pulizia degli spazi si trasforma in un momento aggregativo su cui costruire la soli-darietà interna e la legittimità del percorso.

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 151-156)