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L’autogestione come forma identitaria

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 141-145)

Quella che i nostri intervistati hanno chiamato “autogestione” o autorganizzazione o ancora autogoverno, e che in passato era considerata una modalità organizzativa interna tipica dei movimenti che rivendicano un protagonismo e una partecipazione diffusa, oggi sembra valicare il significato organizzativo per appropriarsi di un con-tenuto fortemente identitario.

L’autogestione sembra così capace di governare l’eterogeneità interna, salva-guardando le differenze dalla spinta omogeneizzante del gruppo, e valorizzare i di-versi punti di vista che, pur non sempre in modo armonico e semplice, costruiscono un senso di gruppo, un’appartenenza collettiva e quindi un’identità forte in cui gli individui si riconoscono.

“La prima cosa che dico a chi si avvicina è che siamo una realtà assembleare, in cui tutti partecipano alla presa di decisioni, e la seconda cosa è che siamo una realtà autogestita, qui non c’è gente che lavora per noi, per tanto tutto ciò che c’è da fare passa per noi.”

[Gerar-do, 63 anni, attivista Can Batlló]

L’autogestione offre, infatti, uno spazio di protagonismo alle persone che, in una dinamica di orizzontalità, possono sperimentare la costruzione del proprio ruo-lo condividendo, in un gruppo, le difficoltà e le gioie che nascono dal lavorare col-lettivamente. Questa pratica non è più solo una questione puramente organizzativa e, pur non essendo completamente al riparo da derive verticistiche nascoste, per-mette di costruire un’idea di sé contrapposta al sistema sociale vigente, raggiun-gendo un duplice obiettivo: definire sé stessi e individuare gli avversari in un conte-sto in cui i confini sono sicuramente più sfumati che in passato.

La definizione di un avversario chiaro e nominabile è, infatti, divenuta sempre più complessa, «non esiste un unico nemico», ma possiamo parlare di un «progetto neo-liberale» con cui descriviamo «una rete complessa di attività e istituzioni che hanno l’effetto di perpetuare e moltiplicare le varie forme di oppressione intercon-nesse» facendo sì «che i popoli possano essere divisi e gestiti mentre le nostre vite sono sempre più condizionate dall’accumulazione capitalistica e dal controllo ra-zional-burocratico» (Day 2005: 15). Le difficoltà nel definire un avversario chiaro aggiungono complessità alla costruzione di un movimento che sia duraturo e capace

di rimanere in vita e incisivo anche nei periodi di latenza in cui lo scontro e il con-flitto sono meno diffusi e meno visibili. Questo movimento, proprio attraverso l’identificazione con l’autogestione, è in grado di esplicitare il conflitto che lo gene-ra mantenendosi attivo anche nei periodi di scarsa conflittualità: se il nemico è un progetto e un’idea di società, la descrizione del “noi” è strettamente legata alla de-finizione di un progetto alternativo a quello egemonico.

“Noi lavoriamo molto a livello di politica, mettendo in discussione il sistema rappresentati-vo verticale e la democrazia dei partiti e scommettiamo sull’autonomia, sull’autogestione, sull’orizzontalità in ambito sociale e culturale, trovare delle alternative al capitale. Ci fu un momento in cui iniziammo a costruire alternative a livello economico, smettendo di vedere l’economia come qualcosa che deve generare lucro, privatizzazione e arricchimento indivi-duale cominciammo a vederla come la materia che studia come ripartire in modo eguale le risorse scarse e rispondere alle necessità, quindi un meccanismo per risolvere le necessità e non come ricerca di benefici.” [Martin, 43 anni, attivista Can Batlló e membro de La

Ciu-tat Invisible]

Proprio questa contrapposizione genera il conflitto che fa di queste esperienze un movimento sociale e un attore di storicità, per dirla alla Touraine. Non si tratta di semplici gruppi che adottano l’orizzontalità delle decisioni come una prassi che li caratterizza, ma sono considerabili a tutti gli effetti movimenti sociali che, par-tendo proprio da questa pratica, strutturano una visione del mondo alternativa a quella neoliberale, una visione che non è solo una rivendicazione immateriale e teo-rica, ma si tramuta in esperienze pratiche che proprio partendo dal concetto di auto-gestione danno vita a sperimentazioni concrete e alternative.

L’esperienza milanese e quella catalana, pur partendo da presupposti e storie differenti, arrivano a costruire spazi simili per rivendicazioni, modalità di gestione e significato che assumono per i militanti-attivisti17. Proprio la diversa traiettoria che porta però a un traguardo unico ci permette di cogliere l’importanza che questo tipo di esperienze gioca per i nuovi movimenti. Se a Milano l’esperienza del Comitato Abitanti di San Siro e quella dello Spazio del Mutuo Soccorso prendono vita dall’esperienza di occupazione del Centro Sociale occupato “Cantiere”, a Barcello-na il percorso di rivendicazione di Can Batlló, poi conclusosi con la sua occupazio-

17 Can Batlló a Barcellona e Spazio del Mutuo Soccorso a Milano, per una dettagliata descrizio-ne si rimanda al capitolo che descrizio-ne descrive storia e caratteristiche.

ne da parte dei vicini, ha le sue radici nel Centro Sociale di Sants e dall’esperienza dell’ABS (Assemblea del barrio de Sants), che coinvolgeva le differenti realtà che si muovevano su diverse rivendicazioni e con diversi gradi di radicalità all’interno del quartiere. Ognuna di queste esperienze porta con sé delle particolarità che si ri-percuotono sulla costruzione dell’identità collettiva; tuttavia ciò che risulta interes-sante è che arrivano a costruire uno spazio con delle similitudini tali da poterlo trat-tare come unico caso – come vedremo nel prossimo capitolo. Il filo di congiunzione è rintracciabile proprio nell’autogestione che prende vita e forma all’interno delle assemblee e nelle attività quotidiane che si svolgono in questi spazi. Ancora una volta rileviamo come l’orizzontalità e il protagonismo racchiusi in questa modalità organizzativa incidono sulla costruzione dell’identità collettiva e sul senso di appar-tenenza molto più che le ideologie, come era per molti dei movimenti sociali vec-chio stile, e molto più che la condivisione di un certo background culturale, come è stato per molti dei nuovi movimenti sociali.

L’autogestione, quindi, partendo dal fare, diviene un laboratorio all’interno del quale si governa l’eterogeneità che caratterizza questo movimento.

“È stato un gran laboratorio dove si testano le possibilità di condivisione e quindi persone diverse come età, come esigenze, perché ci sono famiglie, ci sono singoli… voglio dire un laboratorio anche di esperienza comune di condivisione che non è facile trovare… è un la-boratorio difficile perché poi ripeto età diverse, esperienze completamente diverse che hanno esigenze completamente diverse, per cui riuscire a fare poi una sintesi di tutte queste necessità e metterle in comune è comunque un bello obiettivo, non che noi ci siamo già riu-sciti, per carità divina, e però è un costruire anche questa possibilità che significa tanto per molti.” [Laura, 63 anni, attivista Comitato Abitanti di San Siro]

Per arrivare a costruire un collettivo con un progetto ampio e chiaro che ha la propria essenza nel coinvolgimento e nel protagonismo dei suoi membri.

“Il comitato è un gruppo di autorganizzazione, un gruppo di persone che si è organizzata e che prova a organizzarsi per cambiare in primis il territorio in cui vive e cambiarlo nel sen-so che, secondo varie sfaccettature, dal resistere all’attacco ai nostri diritti e alla nostra di-gnità che tutti i giorni viene fatta, al cambiarlo positivamente tessendo quelle reti di solida-rietà di socialità che invece nei contesti urbani è difficile ritrovare, quell’aspetto

comunita-rio che un po’ si è perso all’interno delle città e in cui gli ultimi avamposti sono i quartieri popolari.” [Antonio, 28 anni, abitante SMS e attivista e Comitato Abitanti di San Siro]

Proprio questa sua trasversalità e capacità di aggregare per affinità più che per egemonia (Day 2005) ci racconta di come l’autogestione possa essere considerata la dimensione principale su cui questi movimenti costruiscono un’identità collettiva ampia, includente e del tutto nuova rispetto al passato. Un’identità capace di co-struire spazi di azione o re-azione non istituzionalizzati, non integrati, non limitati e non esclusivi in cui i singoli, compromettendosi al loro interno, trovano zone di protagonismo e facendo, prendendo parte, partecipando, sperimentano un reciproco scambio con gli altri che permette la costruzione un’identità individuale, in una lo-gica di auto-riconoscimento, integrata con la sensazione di sentirsi parte di un col-lettivo più ampio con obiettivi che vanno oltre l’individuo.

Possiamo quindi dire che questi movimenti si pongono in conflitto con il pro-getto neoliberale e poiché il capitalismo e lo Stato possono essere intesi come for-me di coesistenza umana, per cambiare queste macro-strutture bisogna soprattutto cambiare i micro-rapporti. In questo modo nuove forme divengono realtà solo nell’atto di essere realizzate e, come affermava Landauer (1918: 31-32), la creazio-ne alternativa diviecreazio-ne valida in sé e per sé in uno sforzo continuo di «amore, lavoro e silenzio». Proprio per questo, il processo di autogestione e protagonismo, che ha generato e alimenta le esperienze qui studiate, diviene più importante del risultato stesso, proprio per la sua capacità di prefigurare e creare strutture politiche alterna-tive basate sulla democrazia diretta, sulla responsabilità comunitaria e sul poten-ziamento del gruppo e del singolo. Certo queste esperienze non sono scevre da dif-ficoltà e la frequentazione così aperta e fluida, che lascia ampio margine di scelta agli individui sul tipo e la quantità di partecipazione, le espone a fluttuazioni rile-vanti. L’abbandono e la diminuzione dei partecipanti, infatti, pur potendosi consi-derare fisiologiche, rischiano, a volte, di comprometterne la stabilità e allo stesso modo, la logica della porta aperta, le obbliga a risignificare continuamente i propri obiettivi e orizzonti. Tuttavia, sembra essere proprio l’accoglimento di questa sfida a determinarne uno dei più rilevanti caratteri di novità.

Nel documento Abitare nella crisi. (pagine 141-145)