sem-brano mostrare i tratti tipici dei luoghi terzi (Oldenburg 1989) e, attraverso un misto di attività più squisitamente politiche e altre maggiormente orientate alla costruzio-ne di un welfare dal basso e partecipato, tramite la socievolezza (Simmel 2005) sembrano dar vita a una sorta di sfera pubblica rivisitata e più capace di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla società complessa in cui viviamo.
Prima di entrare nel vivo dell’analisi dei risultati emersi, ci soffermeremo sull’ambiente in cui queste esperienze nascono e si sviluppano: la città. Crediamo, infatti, che il contesto urbano porti con sé numerose implicazioni, tutt’altro che neutre, da cui è necessario partire per poter comprendere appieno il significato che questi esperimenti possiedono.
Fatto questo primo lavoro di contestualizzazione, ci inoltreremo nell’analisi del significato che assume il riappropriarsi di uno spazio abbandonato attraverso un processo di partecipazione dal basso e di come ciò abbia spinto questi collettivi a strutturare luoghi che, pur nelle loro differenze, si dimostrano capaci di sviluppare un’alternativa reale e concreta di città e uno spazio aperto al protagonismo e all’attivismo di tutti gli abitanti dei territori.
1. Movimenti dentro la città contemporanea
Comprendere i movimenti urbani significa, anzitutto, cogliere cosa sia la città e, per farlo, è necessario partire dal presupposto che anch’essa è un prodotto sociale deri-vato da contrastanti interessi e valori sociali e, nel tempo, ha assunto forme e signi-ficati differenti. Gli sguardi e gli studi che hanno provato e provano tuttora a spie-gare questo fenomeno sono numerosi, dagli urbanisti ai geografi, dai politici ai so-ciologi; tale affollamento non ne ha sempre facilitato una migliore comprensione anzi, spesso, ha schiacciato l’attenzione su alcuni aspetti, trascurandone altri. Per questo, il compito del sociologo, come suggerisce Lefebvre, è smarcarsi dal punto di vista dell’urbanista e tentare uno sguardo più ampio: solo in questo modo, infatti, sarà possibile cogliere come «la città proietta sul suolo una società nella sua inte-rezza (…) compresa la sua cultura, le sue istituzioni, la sua etica, i suoi valori, in breve la sua sovrastruttura, compresa la base economica e i rapporti sociali che co-stituiscono la sua struttura propriamente detta» (Lefebvre 1970: 159).
Assumere questo punto di vista come proprio significa dunque rifiutare la visio-ne evoluzionistica che vuole la città di oggi come il logico risultato di un’evoluzione naturale e accogliere l’idea che le tipologie di città sono il risultato di rotture di un modello sociale precedente su cui irrompe, non sempre pacifica-mente e senza drammi, un nuovo modello di organizzazione della società. Così, an-che il modello neoliberale, an-che prende piede con il passaggio dall’età industriale a quella post-industriale e che oggi si dispiega in tutta la sua forza, è il risultato della lotta tra forze sociali differenti e non un dato scontato.
Assumendo questo punto di vista, possiamo intendere i movimenti sociali qui analizzati come uno degli agenti di storicità in campo e quindi, almeno teoricamen-te, capaci di incidere sul modello di città e di società che prende vita sotto i nostri occhi.
Come abbiamo visto in precedenza, con la metà degli anni ‘70 del Novecento il capitalismo si trasforma e si diffondono ideologie e politiche di stampo neoliberale che, nate proprio dalla crisi del fordismo, inducono la città a sperimentare nuove forme di specializzazione post-fordista capaci di collocarla in una posizione compe-titiva nell’arena globale delle relazioni economiche (Rossi e Vanolo 2010). In que-sta fase, le classi dominanti, organizzate nello Stato e negli apparati di governo e amministrazione locale, utilizzano sempre di più il settore immobiliare come vero e proprio regolatore anti-ciclo del sistema capitalistico, sostenendo con appositi provvedimenti (in particolare a sostegno della proprietà immobiliare) un’economia che si alimenta della valorizzazione del suolo urbano e della rigenerazione continua della rendita fondiaria e dei rapporti sociali ineguali tipici del sistema capitalistico18 (Harvey 1989a).
Tale modalità di gestione del capitale, che si innerva nell’amministrazione della città, accelera il processo di trasformazione della forma di governo che porta a un passaggio fondamentale: quello tra government e governance. Al primo termine corrispondono forme di governo della città gerarchiche e manageriali, fondate sul primato del settore pubblico-statale e su una politica redistributiva delle risorse
18 Un chiaro esempio di questa politica è riscontrabile a Berlino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso in quello che è stato definito come “piano di ricostruzione residenziale per aree”. Ta-le piano prevedeva la diffusa demolizione di edifici da appartamenti e la costruzione di nuovi edifi-ci moderni basandosi sull’acquisto da parte dei privati d’intere aree attraverso il sostegno finanzia-rio pubblico che garantiva, attraverso la valorizzazione del suolo, un ritorno economico agli inve-stitori privati (Geronimo 2012; Steven e Mayer 1985).
create a livello locale mediante la fornitura di servizi alle imprese e alla collettività. Il secondo, invece, disegna il passaggio a modalità maggiormente decentrate di go-verno, in cui il primato detenuto fino a quel momento dal settore pubblico e statale è messo in discussione, per un verso, dalla crescente influenza acquisita dalle coali-zioni pubblico-private nella realizzazione di opere e progetti di rinnovamento urba-no e, per l’altro, dall’adozione di procedure di goverurba-no esplicitamente orientate alla negoziazione dei processi decisionali tra una pluralità di attori, pubblici e privati per l’appunto, o anche semi-pubblici (Harvey 1989b).
La svolta neoliberale nella politica urbana apre anche la strada a un nuovo rap-porto tra autorità politico-amministrative (locali, nazionali e sovranazionali), da una parte, e cittadini e gruppi sociali, dall’altra. Se in passato la città era governata so-prattutto per ciò che riguarda l’uso del suolo e le regole dell’attività edificatoria, cui si aggiunsero in epoca keynesiana le questioni relative alla distribuzione e localiz-zazione dei servizi alla popolazione, oggi un numero ben più ampio di sfere della vita urbana rientra nelle prerogative e competenze di governo delle autorità politi-co-amministrative. L’era del liberalismo avanzato è segnata da una sempre più per-vasiva «governamentalizzazione» dell’esperienza urbana (Foucault 1978): dall'or-ganizzazione di eventi culturali e attività di divertimento e svago alle misure di con-trasto alla devianza sociale e ai provvedimenti per la sicurezza individuale e collet-tiva, fino alle politiche di rigenerazione dei quartieri a rischio e agli interventi edili-zi, si assiste al dispiegamento di una serie complessa e variegata di strumenti di go-verno urbano, laddove «gogo-verno» può voler dire al tempo stesso disciplinamento, controllo, ordinamento o «messa in relazione» di ciò (attori, risorse, pratiche socio-spaziali) che altrimenti avrebbe un'esistenza distinta (Rose 1999).
La città si trasforma così in una realtà in competizione con le altre in un mondo globalizzato, in cui il capitale finanziario è attirato solo se sono messe in campo po-litiche che ne facilitano la rendita. Proprio a questa necessità risponde l’ulteriore fluidificazione della struttura urbana dovuta alla progressiva «liberalizzazione» del mercato delle abitazioni: si mostra così la chiara tendenza a lasciare il compito di disegnare la struttura della città al libero mercato (Petrillo 2000). Nelle zone in cui la valorizzazione degli immobili può procurare profitti si dispiegano processi di omogeneizzazione che la rimodellano completamente e ne riducono progressiva-mente la mescolanza sociale. Prende sempre più piede il processo di gentrification, che, dietro alla retorica della riqualificazione di intere zone, le trasforma da
quartie-ri popolati da una classe sociale medio-bassa a quartiequartie-ri di lusso destinati a essere fruiti da una classe più che benestante e quindi più remunerativi19.
Una chiara espressione di questo processo è rintracciabile nell’abuso di termini come “rigenerazione”, “trasformazione”, “miglioria”, “riabilitazione”, “recupero”, “riqualificazione”, improntati a una retorica che nasconde in realtà «uno strumento indispensabile per estendere l’azione amministrativa e il controllo razionalizzatore sugli interventi di pianificazione, non tanto urbanistica, quanto propriamente
urba-na. Si tratta, in concreto, di uno strumento indissolubilmente associato ai processi
di igienizzazione e normativizzazione degli individui dentro un campo semantico fatto di rappresentazioni proprie di una cittadinanza ideale e idealizzata (Sennett 1994), che non contempla né ammette espressioni imperfette di se stessa e che, tut-tavia, non smette di produrre sistematicamente» (Aricó, Mansilla e Stanchieri 2016: 22-23).
In questo panorama si dispiegano dunque precise strategie di valorizzazione ur-bana che poco e nulla hanno a che fare con l’urbano e la vivibilità della città stessa: l’organizzazione di grandi eventi, l’utilizzo strumentale della cultura e dello spetta-colo, così come la trasformazione di aree da industriali ad aree di servizi, altro non sono che modalità per attirare capitali di investimento che modificano in un proces-so up-down l’intera morfologia della città e la vita stessa che in essa si dispiega. Il caso del cosiddetto “modello Barcellona” incarna perfettamente questa tipologia di governo dell’urbano: dall’organizzazione delle Olimpiadi del 1992 fino all’organizzazione del Forum Universale delle Culture del 2004 la città è stata inve-stita da un processo che ne sta mutando considerevolmente il volto. Quartieri interi come La Mina, Vallcarca o Poble Nou (Borja e Fiori 2004; González 1994; Mansil-la 2015; Marrero 2003; Stanchieri 2016), da sempre popoMansil-lari, vengono attraversati da profonde speculazioni mascherate con la retorica della riqualificazione per una
19 La riqualificazione urbana del fronte-mare a Baltimora costituisce uno degli esempi più signi-ficativi: se da un lato, infatti, l’intervento ha permesso di trasformare completamente il volto de-crepito di questa zona della città, ora pedonalizzata e arricchita di musei e spazi espositivi, nonché di negozi e ristoranti tanto da essere considerata una delle più popolari attrazioni turistiche urbane degli Stati Uniti, dall’altra rivela sin dal principio forti contraddizioni. Infatti, l’ingente dispendio di risorse finanziarie pubbliche e private investite nei progetti di rinnovamento urbano hanno gene-rato benefici solamente per ristrette élite urbane, mentre contemporaneamente circa il 70% dei re-sidenti viveva significativi fenomeni di esclusione sociale e segregazione residenziale in veri e pro-pri ghetti (Levine 1987). Questo perché il pro-principale pilastro di questo tipo di governo dell’urbano si fonda sulla speculazione e sulla rendita garantita da una certa fascia di popolazione e sicuramen-te non da quella più povera.
città che una volta è quella olimpica, una volta quella della cultura, un’altra quella capace di attrarre turisti da tutto il mondo. I risultati di questa conversione del suolo in spazi di lusso sono, da una parte, la crescita vertiginosa della rendita fondiaria, dall’altra l’espulsione di interi settori della popolazione che non possono più per-mettersi di vivere in questi quartieri e sono costretti a spostarsi.
Riprendendo le categorie lefebvriane di citta e urbano20 diventa più chiaro co-me la città neoliberale stia completando e spingendo all’estremo l’opera di pianifi-cazione delle città iniziata con la rivoluzione industriale: la città schiaccia l’urbano, la pianificazione prevede l’omogeneità e l’ordine e assistiamo a un silenzioso, quanto inesorabile, annichilimento dello spazio pubblico per mezzo della legge e di strumenti più sofisticati e apparentemente non politici come il design e la progetta-zione urbana (Mitchell 1997). Lo spazio pubblico, luogo in cui storicamente si è generato l’urbano, viene trasfigurato e non solo è sempre più ridotto in quanto a estensione e possibilità di fruizione, ma le persone affidano sempre più spesso agli spazi privati funzioni collettive come la socializzazione, il passeggio e le attività ri-creative (Rossi e Vanolo 2010).
Farsi movimento sociale urbano capace di contrapporsi a questa specifica moda-lità di governo della città significa, quindi, affrontare una sfida complessa. Non può più essere solo la rivendicazione di spazi di incontro, e nello stesso tempo non può essere considerato, come abbiamo visto in precedenza, uno scontro tra il proletaria-to organizzaproletaria-to terriproletaria-torialmente e una borghesia che occupa i gangli di potere nelle istituzioni cittadine. I movimenti qui studiati non sono allora riconducibili tout
court a quelli analizzati da Castell in The City and the Grassroots (1983), proprio
perché gli avversari cui si oppongono sono differenti così come diverse sono le po-litiche che questi implementano e gli obiettivi che si pongono. In gioco non c’è so-lamente la possibilità di incidere sull’architettura di uno specifico spazio urbano, ma la produzione dello spazio in sé, dove per spazio non intendiamo una semplice cornice o una cosa tra le cose, ma piuttosto «un congiunto di relazioni» attraverso cui modellare e dare significato agli spazi della città riscoprendone il valore d’uso sopra quello di scambio (Lefebvre 1974).
20 Lefebvre intende il concetto di città come la realtà presente, immediata, architettonica, un da-to pratico-sensibile. Il concetda-to di urbano, invece, si riferisce alla realtà sociale composta di rappor-ti da elaborare, da costruire, quindi prodotto né dello spazio né del tempo, ma da una forma che è definita prima di tutto dalla dialettica della centralità, o dalla sua negazione (la segregazione, la di-spersione, la periferia) (Lefebver 1968).
Gli obiettivi sembrano così diventare la rivendicazione e la conquista del diritto alla città che, ben più che il semplice diritto alla partecipazione ai destini dell’urbano, alle sue trasformazioni, attività e potenzialità, è il riconoscimento della comunanza del destino di ciascun cittadino, che si trasforma immediatamente in di-ritto-dovere all’integrazione. «Il diritto alla città significa allora la costituzione o la ricostruzione di un’unità spazio-temporale, di una riconduzione ad unità invece di una frammentazione» (Lefebvre 1972, trad. it. 1976: 30).
È in questo panorama che vanno inserite le esperienze di occupazione di spazi che ci accingiamo ad analizzare, luoghi che diventano rivendicazione del diritto alla città travalicando le mura che li contengono. Non più la costruzione di un “feudo” o di un avamposto in cui trincerarsi, ma la concretizzazione di un processo di costru-zione di un modello alternativo e concreto di vivere la città dove partecipacostru-zione, orizzontalità e protagonismo dei cittadini si contrappongono al modello neoliberale, in cui decisioni e piani di governo del territorio sono calati dall’alto senza coinvol-gere gli abitanti dei territori.
Nei prossimi paragrafi entreremo nel merito di queste esperienze che, attraverso la riappropriazione di spazi all’interno della città, hanno costruito canali di parteci-pazione capaci di favorire un protagonismo e un’assunzione di responsabilità nei cittadini. La partecipazione, l’autogestione e l’orizzontalità, mettendo al centro i bi-sogni e le risorse degli individui, hanno inoltre permesso di trasformare l’azione di questi movimenti, che dalla semplice richiesta di prestazioni alle istituzioni pubbli-che, passano ad una vera e propria produzione di servizi e di un certo tipo di welfa-re dal basso. Questo passaggio, tutt’altro che scontato, ci spinge a considerawelfa-re que-sti movimenti come proattivi, cioè attori concreti, o agenti di storicità, che costrui-scono realmente modelli alternativi di società.