La relazione di identità che è sorta nel punto precedente è connessa al metodo scientifico scelto dal naturalismo cognitivo. Il risultato della connessione è la spiegazione riduzionistica.
Abbiamo detto che l'Interno è l'Esterno e viceversa, nella misura in cui esiste soltanto il contenuto dell'Interno, il quale è la materia come è concettualizzata dalle scienze naturali. Nelle scienze della natura, “spiegare” è illustrare la causazione di un evento nei termini delle sole cause efficienti. Questo implica che, una volta determinato il processo tramite cui il risultato si produce e una volta che esso è stato eventualmente concettualizzato in una legge o secondo leggi30, non c'è più niente che dobbiamo
sapere. L'identità che abbiamo dedotto è la condizione di possibilità che rende necessario e sufficiente questo tipo di spiegazione: necessaria, nel senso che soltanto identificando l'Interno con l'Esterno ha senso affermare che descrivere un processo è
30 Dico “in una legge” quando una sola legge comprende l'andamento dell'intero processo, da questa deducibile in linea di principio. Dico “secondo leggi” quando i passaggi del processo, pur essendo connessi, sono caratterizzati da principi diversi, che non possono o non sono ancora stati ricondotti a una legge più generale.
una spiegazione di uno stato mentale; sufficiente, perché l'identità garantisce che questo tipo di spiegazione sarà esaustiva. Non solo: si può notare che l'identità implica necessariamente la spiegazione riduzionistica, pertanto si può parlare di implicazione stretta “se e solo se”. Ne consegue che porre l'identità implica porre una spiegazione riduzionistica.
È da questa impostazione che derivano le difficoltà peculiari del monismo integrale, su cui il dibattito contemporaneo ha fatto sufficiente chiarezza, secondo il mio parere.
Nel 1983, Joseph Levine sollevò un problema rimasto poi noto con il nome di “explanatory gap” in un articolo, pubblicato su “Pacific philosophical quarterly”, intitolato “Materialism and qualia: the explanatory gap”. Dopo aver caratterizzato la spiegazione come abbiamo fatto noi31, si fa notare che:
1. c'è un vuoto (gap) ontologico (nomenclatura mia) nella spiegazione, perché dalla spiegazione fisicalista non si capisce perché un quale sembra quel che è e non un altro, cioè tramite la spiegazione fisicalista non si riesce a dedurre in modo necessario quella data qualità fenomenica32. Il risultato fenomenico si
produce nel microscopico, livello a cui si colloca ciò che il riduzionista considera un fatto elementare, cioè qualcosa che non abbisogna più di una spiegazione per essere reso intellegibile. Il piano fenomenico macroscopico però non è un fatto omogeneo al microscopico, dunque occorre una
31 Cfr. Joseph Levine, Materialism and qualia: the explanatory gap, Pacific philosophical quarterly, 64 (1983), pp.354-361 (p.357). Un discorso nel nostro caso specifico è considerato <<explanatory>> nel senso che <<[...] tell us by what mechanism the causal function we associate with heat (l'esempio nel testo è sul calore e l'agitazione molecolare) are effected. It's explanatory in the sense that our knowledge of chemistry and physics make intelligible how it is that something like the motion of molecules could play the causal role we associate with heat […]. Once we understand how this causal role is carried out there is nothing more we need to know>>. 32 Cfr. ivi, pp.357-358.
spiegazione che ve lo riconduca33. Levine precisa che questa difficoltà può
intuitivamente non essere presa sul serio, ma in realtà si pone almeno il problema di capire quando una spiegazione per riduzione è valida e soddisfacente34;
2. da questo vuoto ontologico segue un vuoto epistemologico (ancora nomenclatura mia). Se non posso mostrare una connessione necessaria tra microscopico e macroscopico, posso ammettere la possibilità che tra i due non ci sia vincolo causale35. Si noti che Levine prende in considerazione che
il punto possa essere <<the right way to characterize what we imagine>> e precisa che il suo argomento dà per scontato che questo sia stato fatto correttamente. Tolta questa interferenza, risulta chiaro che il punto è la possibilità di una corrispondenza biunivoca tra macroscopico e microscopico. Qualora una tale corrispondenza non possa essere determinata, secondo Levine, allora anche se alcune osservazioni del fisicalismo tra le identità occorrenza fisica-stato mentale fossero vere, non si potrebbero distinguere quelle vere da quelle false a causa della possibilità, data da questa situazione, dell'argomento della realizzazione molteplice di Putnam, sfruttato anche da Davidson per la teorizzazione del suo monismo anomalo36.
33 Ivi, pp.358-359. 34 Ivi, p.359. 35 Ibidem.
36 Si può trovare l'esposizione dell'argomento e dell'uso che ne fa Davidson insieme a una confutazione a mio parere definitivamente invalidante, che mostra l'incoerenza di chi considera la realizzazione differenziale multipla come viene ordinariamente concepita una confutazione del monismo integrale in Jaegwon Kim, Supervenience and mind, pp.271-275. Putnam afferma che, per essere scientificamente coerente, una teoria riduzionistica deve affermare delle leggi tali che siano valide in ogni sistema organico per gli stati di esperienza fenomenica, ma ciò non accade. Davidson ritiene che la realizzabilità multipla degli eventi renda impossibile la traduzione delle leggi della psicologia in leggi fisiche, dunque, se anche il mentale ha una sostanzialità fisica, esso si mantiene irriducibile all'oggettualità del cervello.
Questi rilievi ci interessano perché fanno emergere per contrasto i compiti che il naturalismo deve assolvere: mostrare il passaggio dal non-fenomenico al fenomenico e determinare la legge che connette il fisico e il mentale. Quello che vogliamo fare adesso è capire con che genere di legge avremo a che fare, determinare non la legge stessa, bensì le sue caratteristiche logiche.
Prima di proseguire, è necessaria una precisazione. Abbiamo aperto con una considerazione sulle qualità fenomeniche, cioè le qualità caratterizzate dall'appercezione empirica e il lettore potrebbe avere notato che si è rimasti vaghi riguardo le caratteristiche che definiscono l'eterogeneità del mentale, trattandole come un fatto noto. Dato che la questione della legge che mi appresto a discutere riguarda tutto il mentale, è opportuno anticipare che il monismo integrale non ha problemi nella riduzione dei qualia meno di quanti ne ha con l'intero pensare in quanto attività che struttura l'elemento del mentale, pertanto si può parlare del mentale in termini generali. Vorrei che il lettore non cedesse alla tentazione di dare per scontato che solo l'aspetto fenomenico della coscienza sia l'ostacolo al riduzionismo. La questione si preciserà a diverse riprese nel corso del testo.
Proseguiamo. Il libro di Kim “Physicalism, or something near enough”, ci aiuta a caratterizzare la spiegazione riduzionistica e a capire come affronta l'explanatory gap.
In primo luogo, affinché non venga violata l'identità stabilita riproponendo quell'opposizione tra Interno ed Esterno che era caduta, è necessario che l'explanans non faccia riferimento entro se stesso né ai termini né alle leggi dell'explanandum in quanto tali. Kim giunge alla stessa conclusione criticando chi, nell'ultimo ventennio,
ha creduto di dover ricercare delle leggi di trascrizione che mettessero in comunicazione i livelli del discorso mente-corpo, cioè i nostri Interno ed Esterno. Questo tentativo è fondato sul modello di riduzione formulato da Ernest Nagel nel suo libro The structure of science37. Secondo Kim, esso è inadatto agli scopi del
dibattito mente-corpo38, perché ha il difetto intrinseco di estendere la teoria di
destinazione (quella verso cui si sta riducendo) in un duplice modo: introducendo il termine A della teoria di partenza nella legge che congiunge la proprietà A con la sua corrispondente a così che essa possa essere descritta nella teoria di destinazione, risulta espansa l'ontologia di quest'ultima (perché vi compare un nuovo predicato) e il dominio epistemologico, perché la bridge-law, contenente il predicato A in quanto tale, fa ora parte degli assiomi della teoria di destinazione, ma A fa riferimento a una teoria che può avere impegni epistemologici diversi da quelli della teoria di destinazione. Credo che l'obiezione sia corretta e forse possiamo renderla più comprensibile se la traduciamo nel lessico da noi impiegato.
La bridge-law è il termine medio di un sillogismo che comincia dall'Esterno e conclude nell'Interno e, come tale, assolve al proprio compito rendendo omogenei i termini in relazione, ma proprio per questo li mantiene separati, almeno concettualmente. Si osservi il seguente schema:
P1: A è sentire X1...Xn (esempio: il dolore è sentire X1...Xn);
P2: sentire X1...Xn è a (esempio: sentire X1...Xn è l'infiammarsi di una fibra nervosa);
Conclusione: A è a.
37 Il modello è noto come “bridge-law model”. Cfr. in particolare il capitolo 11 del libro indicato. 38 Cfr. Jaegwon Kim, Physicalism, or something near enough, p.98, Princeton, Princeton University
Press, 2005:<<it will be helpful to briefly review this model and see why it does not underwrite a conceptual reduction that is appropriate for the purposes of mind-body debates>>.
Nella P2 compare a come termine omogeneo all'Interno, mentre X1...Xn è omogeneo
all'Esterno, e sono A ed a a essere posti in identità. Così facendo, X1...Xn, che doveva
sparire spontaneamente con il determinarsi di a, resta e diviene il suo contenuto, così che l'Esterno rimane come contenuto dell'Interno (Cos'è l'infiammarsi della fibra nervosa C? Sentire dolore) e viceversa, ma non è così che abbiamo detto essere l'identità di Esterno e Interno. Infatti, qui l'uguaglianza resta un passaggio discontinuo da A ad a del tipo “A et a”, mentre noi volevamo che da a sorgesse per causazione continua A e che essa avesse un contenuto omogeneo ad a39. Kim coglie
in modo preciso la situazione in cui ci si viene a trovare: gli emergentisti, per esempio, chiedono giustamente (perché è proprio quello che ci manca) la dimostrazione di P2, della bridge-law che correla stati mentali e fisici in generale al di
là della semplice co-occorrenza; invece, come spiega Kim, <<in using the bridge-law as auxiliary premises for reductive deerivations, the Nagelian reductionist is simply assuming exactly what needs to be derived and explained […] if we are to close the explanatory gap or solve the hard problem of consciousness>>40. Ciò conferma la
necessità di proseguire come abbiamo fatto noi, cioè rimuovendo Esterno e Interno. Risulta dimostrato a sufficienza, dunque, che una vera spiegazione riduzionistica non deve trattenere presso di sé l'explanandum in quanto tale41.
In secondo luogo, dobbiamo concentrarci sul cosiddetto problema dell' “explanatory ascent” (la parte ontologica dell'explanatory gap) e come il riduzionismo si propone di risolverlo. Kim definisce bene il problema:<<if explanation requires deduction, how can we deductively fill the gap between the explanandum at one level and the
39 Si può schematizzare così: (a → (A=a)). 40 Ivi, p.100.
purported explanans at another level?>>42. Suppongo che per “deductively fill the
gap” qui si intenda qualcosa di simile alla necessità di delineare la causazione fisica continua che comprenda il sorgere di una coscienza fenomenica, come abbiamo detto essere necessario.
Secondo Kim, ci sono tre possibili soluzioni43:
1. impiegare bridge-laws consistenti in <<contingent, empirical laws connecting explanandum phenomena with phenomena at the reduction base>>;
2. impiegare <<definitions, providing conceptual, semantic relations between phenomena at the two levels>>;
3. dimostrare <<identity statements that identify the explanandum phenomena with certain lower-level phenomena>>.
Della prima opzione abbiamo già parlato trattando della condizione fondamentale di ogni teoria riduzionistica.
Studiare la seconda strada, adottata da studiosi tra cui David Chalmers (The
conscious mind, 1996) e Joseph Levine (On leaving out what it's like, 1995) ci
aiuterà a fare chiarezza su un altro aspetto dell'identità. Sia Chalmers44 sia Levine45
ritengono che la spiegazione riduzionistica consista nella definizione funzionalistica dei termini coinvolti, definizione che si configura come un procedimento analitico che, nel nostro caso, termina con la determinazione della causazione efficiente. Kim caratterizza la <<functional reduction>> con i seguenti tre passaggi46:
1. tradurre gli oggetti in termini funzionali;
42 Ivi, p.107. 43 Ivi, pp.107-108.
44 David Chalmers, The conscious mind, pp.43-45, Oxford, Oxford University Press, 1996. 45 Il saggio in questione mi è stato irreperibile, lo leggo in Kim, Physicalism, pp.109-110. 46 Ivi, p.101.
2. identificare le cause efficienti della funzione; 3. illustrare il processo sotteso a questa funzione.
In questa nuova impostazione l'Esterno è ricondotto alla sua efficacia causale, la quale è propriamente l'Interno, che adesso resta l'unico contenuto, come richiesto dall'identità. In questo modo, si può effettivamente chiudere la parte ontologica dell'explanatory gap. Dopo che un certo stato fenomenico è tradotto nel suo ruolo causale con una definizione (che non è una legge e dunque non espande la teoria di destinazione), una volta che si scopre come questo ruolo causale è soddisfatto, si può dire di avere spiegato tutto quello che c'è da sapere.
Almeno apparentemente, perché in realtà questo uso dell'identità nasconde un problema pratico e un problema epistemologico. Il problema pratico è che, a meno di avere a disposizione l'osservazione di quel che ricopre il ruolo causale, il procedimento funzionalista è inapplicabile e spesso questa è una condizione difficile da soddisfare. Il problema epistemologico invece è il seguente. Kim nota che <<identities seem best taken as mere rewrite rules in inferential contexts; they generate no explanatory connections between the explanandum and the phenomena invoked in the explanans; they seem not to have explanatory efficacy on their own>>47. Tuttavia, <<we don't have to say identities have absolutely no role in
explanatory contexts. What identities can do is helping to defend or justify explanatory claims>> (corsivo nel testo)48, nel senso che anche noi abbiamo precisato
quando è risultato che l'identità è condizione necessaria e sufficiente della spiegazione riduzionistica. Ma se le cose stanno così, torna anche la necessità di
47 Ivi, p.132. 48 Ivi, p.136.
rimuovere Interno ed Esterno ed approdare alla causazione continua, in cui l'identità passa e in cui l'unico contenuto è l'Interno. Infatti, Kim conclude coerentemente con noi che <<on this approach, psychoneural identities get their warrant precisely from the fact that they eliminate psychoneural correlations or “dangling” laws, not from the supposed explanation they provide for them>>49.
È risultato che la seconda strada è in realtà l'aspetto pratico con cui si realizza la terza: le definizioni funzionaliste non sono altro che proposizioni di identità, che mirano a fare del contenuto Interno l'unico contenuto. Secondo Block e Stalnaker50,
l'opzione funzionalista è distinta dall'opzione delle proposizioni di identità perché, mentre la prima richiede la conoscenza empirica della causazione efficiente e del ruolo funzionale, la seconda richiede soltanto la conoscenza empirica della correlazione neuronale e ciò la rende preferibile per la maggiore disponibilità di dati. In realtà le due opzioni non sono distinte. Kim nota che <<in fact, on Block and Stalnaker's view, identities have a dual explanatory role: on one hand, they enable certain explanations that we want to have, on the other, as we have seen, they “disable”, as we might say, certain explanatory questions that we are better off not to having to face [...]>>51. In questa situazione, vediamo che la neurofisiologia può
fornire spiegazioni del passaggio tra gli stati fenomenici (poniamo APH e BPH)
rappresentabile come APH → BPH una volta che si sia accettato che ognuno di questi
stati sia identico con un certo correlato neuronale (poniamo ACN e BCN). Se e solo se
si accetta l'identità l'asserto ACN → BCN diviene una spiegazione pertinente. Se non si
49 Ivi, p.137. Questa posizione è riconosciuta da Kim a Smart e Herbert Feigl.
50 Cfr. Ned Block e Robert Stalnaker, Conceptual analysis, dualism and the explanatory gap, Philosophical review, 108 (1999), pp.1-46. Anche questo articolo mi è stato irreperibile, lo leggo in Kim, op.cit, pp.113-120;139-146.
vuole incorrere in una petitio principii, dunque, è necessario argomentare separatamente la verità dell'identità, ma proprio come accadeva al modello delle “bridge-laws” è proprio quest'ultima parte che si trascura di dimostrare, facendo vedere che si è dato per scontato che rendere legittima la migliore spiegazione che si è riusciti a trovare fino a questo momento sia di per sé una dimostrazione52: anche
qui non ci si rende conto che la spiegazione si interrompe dove è più necessaria e dove ci serve sia completa per provare l'identità senza fallacie, ovvero nel momento in cui si dovrebbe spiegare in che modo i correlati neuronali producono anche il lato fenomenico dell'evento.
Da questa analisi si impone una conclusione. Finché non si indagherà anche in che modo il mentale in quanto mentale risulta dalla causalità naturale, si andrà incontro a sempre nuove aporie. La causa per cui queste tre strade falliscono, infatti, è sempre la volontà di escludere il contenuto del mentale in quanto mentale. Potremmo dunque dire di esserci imbattuti nella necessità epistemologica di ammettere il mentale come un effetto reale. Ovviamente, sto parlando in linea di principio: al momento nessuno ha idea di come la coscienza fenomenica sorge dal corpo e neppure la questione può essere decisa al di fuori dello sviluppo autonomo della scienza; qui voglio solo dire che non bisogna cercare di eludere la questione, illudendosi che una riduzione tronca sia una spiegazione definitiva.
In realtà, bisogna ancora discutere qualcosa. Il risultato precedente è il frutto di una dialettica che procede per superamento delle posizioni precedenti, arricchendosene, ma dobbiamo mettere in conto l'ipotesi che qualcuno adotti una negazione unilaterale e confutarne i risultati. Abbiamo visto che il deficit delle teorie precedenti è l'aspetto
fenomenico della mente. Se anziché mantenere fermo lo sviluppo concettuale intrapreso nel paragrafo precedente ci si appoggia unilateralmente alla certezza del momento dell'Interno, si può risolvere la difficoltà nientificando l'Esterno, riducendolo a nulla più che all'epifenomeno accidentale e inessenziale dell'attività cerebrale53. In altre parole, si può dichiarare che l'esperienza soggettiva in quanto
esperienza soggettiva non aggiunge alcunché all'attività del cervello; in tal senso, dico che le è completamente inessenziale. Il mio proposito nel resto del paragrafo è dimostrare che questa opzione non è percorribile, perché incoerente. Una volta che sarà dimostrata la necessità di ammettere il mentale in quanto mentale restando fedeli al monismo, avanzerò la tesi che ha animato questo scritto.
Se si ammette che il mentale in quanto mentale è l'orpello epifenomenico dell'attività del cervello, allora si sta asserendo che la figura è l'incondizionatamente non-vero che deve essere rimosso, cioè ricondotto al niente. In tal caso, il contenuto del pensare è unicamente il processo di pensare da un punto di vista biologico e ci si impone di ricercare quale sia la verità del contenuto che in origine era pensato: sensazioni, concetti e quant'altro in quanto tali sono stati infatti tutti rimossi. Si consideri adesso in cosa consiste la rappresentazione della causalità nella scienza naturale. Un evento è legato da una relazione causale a un altro se è il risultato della variazione di una o in una sostanzialità che ha l'altro evento come risultato54, il che
significa che l'evento non può essere meramente rimosso, bensì deve essere trattenuto nella legge, la quale gli conferisce realtà mediandolo con i suoi
53 Per fare un'analogia, il mentale starebbe al cervello come la dispersione termica sta al funzionamento di un macchinario elettrico.
54 “Evento” ha qui un'accezione ampia che voglio precisare. L'evento è uno stato di cose così come la determinatezza di una proprietà singolare. Nella concezione scientifica del mondo, non esiste un fatto immediato: tutto risulta come mutamento secondo principi, ovvero solidale, di molteplici aspetti.
fondamenti. Adesso riportiamo questa osservazione al discorso mente-corpo. È evidente che, se abbiamo ragionato correttamente, rimuovere il mentale in quanto mentale equivale ad affermare che l'attività del cervello non ha alcun nesso con il mentale in quanto mentale, perché se il risultato diviene niente, allora una legge che li congiunga non ha più ragion d'essere, dato che non sussiste alcun mutamento. Si cade però in contraddizione: stabiliamo correlazioni neuronali perché ci interessa spiegare l'esistenza dei nostri comportamenti appercepiti in quanto appercepiti, ma se li rimuoviamo in quanto tali è come dire che dobbiamo correlare il corpo con il niente, ma allora perché correlare? La neurofisiologia come viene praticata oggi