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il Veneto agropolitano

Capitolo 2: definire il paesaggio

2.1 il Veneto agropolitano

Nell’ultimo decennio (in particolare) la regione Veneto ha iniziato a problematizzare la sconcertante trasformazione del territorio e quindi del paesaggio che tutt’ora pare un fenomeno inarrestabile. L’intelligentia locale, i

proti2 sono stati convocati dalla Giunta Regionale nel 2004 a definire lo “scheletro” di un piano territoriale per il Veneto, dei principi fondamentali per

1

Turri E., op. cit. (2003), pag. 221. Turri fa ricorso spesso al termine “sovrapposizione” che secondo me è un termine chiave per leggere il territorio. In questo passaggio è più esplicito ciò a cui si riferisce, applicabile anche ai toponomi: « […] la crescita del Veneto sia avvenuta come innesto (sovrapposizione o giustapposizione) del nuovo, del moderno e in qualche caso del post-moderno su un tessuto territoriale delineatosi in età romana, medievale e veneta, senza rimuovere in funzione del nuovo l’organizzazione territoriale ereditata.», “Alla ricerca di nuove organizzazioni territoriali” in Fondamenti del Buon Governo del Territorio. Carta di

Asiago, op.cit. , pag. 53.

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Così sono stati definiti gli studiosi invitati alla creazione della Carta di Asiago, come i saggi della Serenissima, auspicando un modello di gestione territoriale efficace.

un buon governo.

Il documento che ne è scaturito, la Carta di Asiago è il punto di partenza della presa di coscienza politica di una situazione limite già denunciata da studiosi (Turri, Bernardi), intellettuali, abitanti e gruppi di ambientalisti. Dalle riflessioni della Carta e da lavori pregevoli precedenti o posteriori ad essa3, il quadro generale non è allettante: il boom economico del dopoguerra, ha trasformato gli stili di vita e gli assetti territoriali spezzando il legame uomo- ambiente nella ricerca di un benessere che scongiurasse la miseria precedente troppo a lungo vissuta.

La fretta di cambiare un passato di fame e fatica ha però quasi eroso tutto quello che di positivo c’era nella ruralità: una gestione oculata delle risorse ambientali, la conservazione del proprio medio-ambiente in prospettiva del futuro dei figli, un estetismo sano quindi un architettura in relazione col territorio e non di sopraffazione dello stesso, valori comunitari e perché no, una certa “versatilità” dettata dalla necessità. Il paesaggio rurale è stato “smaterializzato”4 e questa frantumazione ha seguito principalmente due direzioni che sono tra loro complementari: da un lato la specializzazione agricola richiesta dal mercato finanziario e la diffusione di un apparato industriale “a macchia di leopardo” e dall’altro lo stravolgimento del: «telaio territoriale municipalistico5» con un moltiplicarsi di centri e periferie che hanno messo in crisi le relazioni precedenti fra città e campagna. Agropolis, la

3

Dopo la Carta di Asiago sono stati pubblicati con cadenza quasi annuale alcuni volumi finanziati dalle Regione: Ripensare il Veneto, questo il nome dei lavori che raccolgono gli interventi di esperti in svariate discipline. Tra i lavori più importanti il libro a cura di Vallerani e Varotto: Il grigio oltre le siepi: Geografie smarrite e Racconti del Disagio in Veneto, Portogruaro, Nuova Dimensione, 2005, che ha messo in luce il rapporto tra degrado ambientale e disagio umano nel Veneto contemporaneo. Recentemente, i documentari sono aprezzati da un ampio pubblico e sono stimolatori di criticità; A Nord Est, di Milo Adami e Luca Scivoletto, premiato al Lago Film Fest di Revine Lago nel 2010 è un buon esempio di denuncia della devastazione paesaggistica-ambientale in Veneto.

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Farinelli F., “Lo spazio rurale nell’Italia di Oggi”, in Storia dell’agricoltura italiana in età

contemporanea, Vol. 1 “Spazi e Paesaggi”, Bevilacqua P., a cura di, Venezia, Marsilio, 1989,

pag. 233.

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grande “città diffusa”6 del Nordest è una rete fitta di nuovi collegamenti, tra una miriade di punti sparsi o addensati, collegamenti che hanno spodestato o si sono sovrapposti ai precedenti. Eppure il territorio e la sua gente sembrano perdersi più che trovarsi nell’intersecarsi di strade, superstrade, ferrovie e trasporti connessi; non a caso una delle prime criticità emerse in Agropolis è quella sull “identità veneta”7 che attendendoci alle questioni paesistiche, appare appunto alquanto “spaesata” nel proprio territorio. Nel libro L’Italia

Maltratta, Francesco Erbani, giornalista di Repubblica, dopo aver denunciato

nella prima parte lo sfruttamento improprio del suolo nazionale e gli apparati che lo hanno reso possibile, dedica una parte ad alcuni casi paradigmatici, tra questi il Nord Est e le sue patologie da sovraccarico8. L’autore fornisce dati allarmanti: la quantità di suolo agrario che ha cambiato destinazione d’uso fra il 1961 e il 1981 ha superato il totale dei millenni precedenti9 e dal calcolo sono escluse montagne e aree collinari; inoltre Erbani riporta dati Istat sulla cementificazione, che fanno ipotizzare non manchi molto alla totale saturazione del verde a valle.

Icona dell’urbanizzazione sparsa in Agropolis, la villetta mono o bi-familiare obiettivo tanto di condomini stressati come di eremiti montani. Le file di casette spalmate lungo nuove periferie hanno finalmente svuotato i centri storici minori: la struttura con la tavernetta ed il giardino descritta da Erbani10 è il trionfo dell’individualismo tanto auspicato eppure ancora in conflitto con un passato recente “comunitario”, un passato che lascia dei segni, delle traccie ancora non ben metabolizzate. La tavernetta non è solo il luogo deputato della socialità, ma è luogo di quotidianità per le famiglie che la preferiscono ai

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La “città diffusa” è stata teorizzata negli anni ’90 da Francesco Indovina, docente IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia).

7

Si veda la prima pubblicazione di Ripensare il Veneto (2006), che ha come fulcro l’identità.

8

Erbani F., L’Italia Maltrattata, Roma-Bari, Laterza, 2003, pag. 73-83.

9

Ivi, pag. 76; dati riportati dall’autore dal Rapporto 2002 della Fondazione Nord Est.

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suntuosi divani acquistati nei grandi mobilifici veneti (dove probabilmente lavorava qualche familiare prima della “crisi”) ma che sono ancora coperti dalla plastica per essere ammirati, non usati, dagli ospiti che dopotutto preferiscono il calore della taverna e il suo odore di castagne arrostite11; il giardino spesso è un orto dove le verdure hanno ancora “il sapore di una volta”; le villette sono abbastanza “mono” da far sentire la famiglia un nucleo compatto ed abbastanza vicine alle altre uguali, da permettere pettegolezzi, scambi di favori e screzi di vicinato. Ci sono sempre più insediamenti abitativi “mono” e sempre più sagre “locali” straripanti dove l’individuo arriva con la sua singola automobile a mettersi in fila per uno speo12 con polenta e sentirsi di nuovo partecipe nel territorio.