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la vite in un sistema policolturale

Capitolo 3: la viticoltura, contesto globale e locale

3.3 la vite in un sistema policolturale

Prima di esporre i risultati dello studio di Carpenè e Vianello e gli sviluppi seguenti, mi soffermerò brevemente sulla vite inserita in un sistema agrario policolturale, come quello che nei suoi aspetti generali ha caratterizzato il territorio italiano nel suo complesso, sino ad iniziare la sua rapida scomparsa nel Secondo dopoguerra con veloce sparizione dalla memoria e dal paesaggio collettivi.

Il suolo nazionale è costituito quasi all’ottanta per cento di rilievi montuosi e collinari29 che fino all’epoca rinascimentale non erano stati adeguatamente sfruttati; difatti è con l’aumento della popolazione e il prevalere del sistema mezzadrile che inizia il ricorso ai dissodamenti e alle piantagioni individuali nei rilievi collinari. 30

«Qui, con più evidenza che nella gran parte del resto d’Europa, lo spazio agricolo appare come una lunga, spezzata, faticosa costruzione storica. »31

Nelle aree rurali vigeva un economia di sussistenza sviluppatasi «attorno a principi di risparmio e parsimonia»32ed i fazzoletti di terra coltivati a fatica dovevano fornire il più possibile alle famiglie, anche in termini di varietà. L’uva, inserita in questo contesto, rappresentava spesso un eccedenza che poteva essere venduta33. A questo proposito, molto interessante è il fatto che i grappoli erano sin dal Quattrocento un frutto “votato” alla ricerca di un profitto “capitalistico”; Sereni narra come nonostante il disappunto degli agronomi, la pratica del “ritocchino”, ovvero una sistemazione34 collinare che segue la linea del massimo pendio, sia stata applicata tanto da divenire caratteristica del territorio italiano, mentre per una maggior stabilità

29

Sereni E., op. cit., pag. 151, Bevilacqua P., op. cit., pag. 28

30

Sereni E., op. cit., pag. 115-117.

31

Bevilacqua P., op. cit., pag. 28-29.

32

Mattana U. , op cit., pag. 33.

33

Biscaro M. G., op . cit., pag. 32; Sereni, op. cit., pag. 117; Berengo, op. cit., pag. 292.

34

Cito da Sereni la definizione di sistemazione (agraria): «complesso coordinato di opere complementari che servono a perfezionare il regime idrico del suolo agrario, già avviato con le opere principali di bonifica e dissodamento, al fine di assicurare la difesa idraulica del suolo stesso e di renderlo atto a una produzione meno incerta, più varia e più intensa», op. cit., pag. 91.

del suolo agrario sarebbe stato più consono adottare la sistemazione “per traverso”; il rischio intrapreso era dettato dalla volontà di incrementare la produzione.

Durante il Rinascimento è iniziata la trasformazione del paesaggio italiano in paesaggio principalmente agrario35: sino al boom economico degli anni Sessanta, come sappiamo, non ci furono grossi stravolgimenti36 ed al giorno d’oggi possiamo ancora osservare alcune strutture che sono nate molte secoli fa e di altre percepire la composizione attraverso i segni presenti sul territorio e nei capolavori della pittura veneta. A Settentrione, in seguito a numerose opere di bonifica e di sistemazione idraulica, ebbe inizio la suddivisione in strutture chiuse, la “piantata” nella quale si alternavano cereali in campi lunghi delimitati da filari di viti che erano sostenute da alberi da frutto, detti “sostegni vivi” e le viti venivano legate tra loro tra un albero e l’altro come dei “festoni”. 37 In collina non era possibile questa soluzione e i tralci di vite erano legati individualmente all’albero e pendevano da esso senza toccare terra38. Un esempio dell’associazione albero-vite nella Valsana, in particolare del gelso e della sua sparizione a favore dei vigneti “razionali” mi è stato dato da Marica Rossi, casalinga della Vallata:

« man man che i vegnèa avanti i vigneti, si toglievano i gelsi perché in realtà chi ci faceva la fila di viti da ‘na parte all’altra era il gelso per tenere su i fili, i filari delle viti, però bevevano anche il vino fatto con l’uva naturalmente ma facevan anche da mangiare con le foglie del gelso ai bacchi per avere la possibilità di vendere i bacchi alla serica piuttosto che altri qua per attorno..»39

La piantata, così come altre sistemazioni di pianura che erano segno visibile di equilibrio, di “eco-compatibilità” con l’ambiente circostante, sono quasi scomparse e spesso divengono nicchie ecologiche da difendere, ne sono un esempio i palù del

35

Sereni E., op. cit., , pag. 115.

36

Farinelli F., op. cit., pag. 230-231.

37

Carpenè A. Vianello A., op. cit., pag. 109; Sanson L., pag. 62-64.

38

Ivi, pag. 110; Sanson L., pag. 64.

39

Quartier del Piave40 prossimi alla Valsana. Invece, a livello strutturale i rilievi collinari vitati non hanno subito grandi trasformazioni perché permangono i terrazzamenti. Nella zona di nostro interesse, le colline sono lavorate a “gira poggio”41, forma che si adegua alla conformazione del suolo, con pendenza a valle e lateralmente in senso opposto42.

Questo tipo di struttura era l’ideale per le sommità ripide delle colline qui considerate; difatti in altezza vi si trovavano solo alberi vitati mentre le coltivazioni cerealicole erano collocate nella bassa collina.43 Come delineato nel primo capitolo, l’agricoltura e l’artigianato sono sempre stati complementari in Vallata,44 però risulta difficile al giorno d’oggi pensare in termini di scarsità in riferimento ad un territorio biologicamente ricco e vario come quello della Valsana. Nel volume La Filanda

della Memoria che raccoglie le voci femminili di molte donne che hanno lavorato

alla “Filanda Piva” di Valdobbiadene, ci sono delle testimonianze sulle condizioni difficili dell’agricoltura locale:

« (La filanda) l’era l’unica risorsa de sti paesi qua eh, no l’era mia altre possibilità»45

L’intervistatrice chiede allora delle attività agricole, l’intervistata risponde:

«Eh ma no ghe n’era tanta tèra da lavoràr, anca qua l’è ste do tre rive qua da drio. L’era do tre faméie qua da drio che no so quanti che i era, come che i fésse a mantégnerse co sto s-ciant de ùa, dopo co vegnèa grande ste tosète, le mandéa subito a lavoràr»46

40

A questo proposito si veda Nadia Breda: Palù: inquieti paesaggi tra natura e cultura, Verona, Cierre ed./Canova, 2001. I palù sono delle aree paludose e quindi non direttamente coltivabili, ma le particolari caratteristiche fisiografiche in passato sono state sfruttate all’interno delle sistemazioni multi-colturali e costituiscono oggi siti di pregio ambientale.

41

Sanson L., op. cit., pag. 66

42

Sereni E., op. cit., pag. 169.

43

Sanson L., op. cit., pag. 66

44

Ivi, pag. 50.

45

Gasparini D. ,Breda N., op. cit., pag. 54; [ (La filanda) era l’unica risorsa di questi paesi, non c’erano altre possibilità)]

46

Ivi, pag. 55; [Non c’era tanta terra da lavorare, anche qui ci sono queste due - tre colline là dietro. C’erano due – tre famiglie, che non so quanti erano, non so come facessero a mantenersi coon quel po’ di uva, quando le ragazze crescevano le mandavano subito a lavorare.]

Se da un lato la testimonianza mette in luce la scarsità e l’inevitabile complementarietà tra agricoltura e industria (prima artigianato) dall’altro rileviamo che tra i vari prodotti della terra l’intervistata nomina le viti, dato che queste sono merce e non solo prodotto per l’autoconsumo. La presenza della vite nelle colline dell’Alta Marca è lunga ed è la storia di una pianta che pian piano ha conquistato il ruolo di protagonista nella scena economico-sociale. Ora la coltivazione della vite è diventata anche simbolo di questo territorio che però essendo pedemontano, nel passato era caratterizzato da un sistema economico agri-silvo-pastorale nel quale l’equilibrio perseguito nella gestione delle molteplici risorse che il territorio offriva, era stato raffinato nel corso di secoli.47 La varietà di situazioni ecologiche era altresì legata alle molteplici “identità lavorative”48 che un individuo della Vallata poteva assumere, a seconda della stagione e delle proprie necessità. In questo senso, la vite oltre ad essere coltivata in maniera policolturale, era inserita in un contesto variegato, anche se alla pari del gelso, rappresentava quel surplus, quell’eccedenza indispensabile in un sistema economico di sussistenza.