• Non ci sono risultati.

Impatto della crisi sulle Piccole e Medie Imprese

CAPITOLO 3 – IMPATTO DELLA CRISI SULLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE E

3.1 Impatto della crisi sulle Piccole e Medie Imprese

Gli ultimi anni saranno di certo ricordati come i peggiori del sistema industriale italiano e purtroppo non siamo ancora venuti fuori da questo difficilissimo periodo.

Se si guarda bene alla situazione della nostra economia però e in particolare al comparto delle piccole e medie imprese, vediamo che in realtà la crisi era già in atto ben prima che si verificasse in modo evidente nel 2008.

Le PMI, produttrici di output il più delle volte con valore aggiunto medio basso e in più caratterizzate da una crescita strutturale alquanto limitata, legata in parte ad un modesto sviluppo del mercato domestico e in parte alla sempre più spinta globalizzazione, si trovano in seria difficoltà in uno scenario altamente competitivo.

Tali entità quindi si sono presentate già con una domanda complessivamente debole e con margini industriali sotto forte pressione in un mercato dominato da una crisi mondiale acutissima.

Nella maggior parte delle imprese con dimensioni ridotte si evidenzia inoltre una forte fragilità finanziaria legata alla sottocapitalizzazione52 e ad un esorbitante ricorso al debito bancario.

L’eccessiva frammentazione del tessuto industriale e le dimensioni mediamente inferiori a quelle dei concorrenti europei e internazionali impediscono inoltre investimenti in capacità manageriali, piattaforme tecnologiche e asset intangibili come ricerca, brevetti, marchi, know how.

Queste quindi le caratteristiche di profonda debolezza con le quali questi attori del mercato di dimensioni limitate si sono affacciati in uno scenario di pesante crisi.

52

Un’azienda è sottocapitalizzata quando è carente di mezzi propri rapportati al livello necessario per perseguire in maniera ottimale gli obiettivi aziendali. Le risorse finanziarie a sua disposizione sono i mezzi propri (equity) e il capitale di terzi (debiti). Quanto più ridotti sono i mezzi propri tanto più difficile sarà per l’azienda onorare i propri debiti. Tanto maggiore sarà di conseguenza il rischio per i creditori i quali tenderanno a richiedere tassi di interesse sempre più elevati con un aggravio di costi per l’impresa ed una conseguente diminuzione della sua redditività. La propensione alla sottocapitalizzazione spesso è spinta da ragioni fiscali in quanto gli interessi passivi sono detraibili dal reddito. Si può così abbattere l’utile e le relative imposte che gravano su di esso caratterizzate da un’aliquota molto elevata.

Altro problema rilevante è stato una grossa crisi di liquidità legata alla difficoltà di reperire prestiti. Le banche infatti vivevano in balia di una gravissima crisi finanziaria che aveva portato alla riduzione delle risorse a livello internazionale, ad un crollo della fiducia nei confronti degli istituti di credito ed una perdita ingente di valore del loro portafoglio titoli. Tutto ciò è sfociato nell’insolvenza anche di grandi aziende sovente non più in grado di onorare i propri debiti.

Anche le banche italiane sono state considerate rischiose pur non detenendo titoli ad alto rischio con la conseguenza di dover essere sempre più severe e selettive nella scelta dei propri debitori, razionalizzando la concessione del credito.

La brusca riduzione di finanziamento nell’ultima parte del 2008 e nel 2009 ha portato ad una nuova crisi di liquidità, questa volta con effetti più ampi sull’intero sistema economico. Le imprese infatti, private del denaro anticipato loro dalle banche in attesa di rientrare nei costi, hanno ritardato maggiormente i pagamenti per conservare il più possibile le risorse al loro interno.

I soggetti maggiormente colpiti ovviamente sono stati i più deboli i quali avevano meno potere contrattuale nei confronti dei fornitori.

Le grandi imprese invece, potendo fornire garanzie migliori alle banche, sono riuscite comunque ad avere prestiti e in previsione del forte calo di liquidità hanno accumulato riserve di tesoreria consistenti contrattando tempi di pagamento più lunghi con i propri fornitori.

La crisi nelle PMI ha attraversato quattro fasi, la prima legata ad un progressivo indebolimento competitivo, la seconda ad una crisi finanziaria vera e propria, la terza ad un calo di liquidità conseguente al razionamento nella concessione dei crediti e la quarta caratterizzata dall’esasperazione dei criteri seguiti dalle banche nell’erogazione di prestiti a causa delle normative di vigilanza sul capitale53. Gli istituti di credito non hanno concesso prestiti a circa il 30-40% delle entità di modeste dimensioni a causa dei loro bilanci ad elevato rischio.

Delineiamo meglio cosa è accaduto nelle quattro fasi.

Nella prima la redditività aziendale lorda e netta comincia a deteriorarsi in modo rilevante per via della riduzione della domanda e della competitività. Nello specifico si assiste ad un calo del fatturato e dei margini operativi.

53

Si tratta degli accordi firmati a Basilea, noti come Basilea 2 e Basilea 3, che dettano le regole a garanzia della stabilità del sistema bancario con vincoli legati ai requisiti patrimoniali degli istituti di credito.

Difficilmente in questo stadio, di durata ampia pari alle volte anche a 18-24 mesi, l’imprenditore mette in atto reali politiche strategiche. In genere cerca una soluzione immediata, quale una lieve riduzione dei costi e un relativo abbassamento dei prezzi al fine di acquisire maggiori ordinativi. Si tratta di un intervento che mira a contrastare il calo del fatturato e il blocco degli investimenti al fine di evitare così di esaurire le risorse a sua disposizione.

Sarà però questo un errore fatale per l’impresa54.

Nella seconda fase la sottocapitalizzazione comporta tensioni di tesoreria non ancora acutissime che nuovamente vengono sottovalutate e non affrontate quindi con i giusti strumenti strategici. Sarebbe invece questo il momento più adatto ad agire in modo concreto approfittando del fatto che le banche spesso non hanno ancora colto la gravità della situazione e sono quindi disponibili a concedere prestiti.

Il problema reale è che in questo stadio l’imprenditore non ha compreso l’effettiva gravità della situazione e in più non ritiene opportuno far percepire alle banche le proprie difficoltà finanziarie per evitare un’automatica riduzione della fiducia nei suoi riguardi.

Le PMI da sempre sono carenti di strumenti di auto-diagnosi e ciò non fa che aggravare il rischio d’insolvenza con un conseguente progressivo aumento delle situazioni di dissesto finanziario.

Il calo del fatturato teoricamente dovrebbe comportare un minore fabbisogno di risorse conseguente alla riduzione degli acquisti di materie prime da impiegare nel ciclo produttivo. In realtà il peggioramento nei termini d’incasso e la totale dipendenza da linee di credito a breve finisce per destinare tali mezzi finanziari al sostenimento di pagamenti ravvicinati e oneri fiscali. La situazione di cassa di conseguenza si impoverisce per l’assenza di riserve a cui aggrapparsi.

Il calo del fatturato legato alla riduzione della domanda di beni e servizi in breve tempo porta ad una progressiva diminuzione del fabbisogno di manodopera. Si avrà quindi un forte incremento della disoccupazione, fenomeno divenuto sempre più grave col passare del tempo55.

54

Nella crisi attuale la riduzione dei fatturati è stata altissima con percentuali che vanno dal 30% fino addirittura al 50%. Qualsiasi impresa trova grosse difficoltà a sopravvivere comunque e questo porta al fallimento in particolare di quelle con una posizione finanziaria poco solida quali le PMI.

55

In Italia il tasso di disoccupazione nel 2008 era pari al 6,7% per arrivare all’8,6% nel 2010 con una conseguente riduzione del tasso di occupazione sotto il 57%.

La percentuale di addetti nelle PMI è diminuita del 2%, dopo le aziende estrattive che vedono un calo del 6,2% sono proprio le aziende manifatturiere a perdere più occupazione con un dato che si aggira attorno al 5,4%.

Sono state in particolare le aziende piccole e medio piccole a reagire con maggiore difficoltà alla crisi. Questo è dimostrato dal fatto che nel caso delle imprese manifatturiere quelle medio grandi e quelle grandi hanno subito un riduzione pari al 4,4% mentre quelle con meno di 50 dipendenti in un solo anno hanno perso ben l’8%, quasi il doppio quindi.56.

Un dato fortemente negativo si trova nel settore delle costruzioni, anche qui sono principalmente le piccole entità ad essere più colpite dalla crisi ed in particolare quelle che hanno dai 10 ai 49 dipendenti.

Al contempo in questo settore nascono molte imprese individuali in quanto il disoccupato che necessita di rientrare nel mercato del lavoro riveste ora la qualifica di lavoratore autonomo, aiutato in ciò anche dal fatto che in tale comparto i controlli sono pochi e risulta quindi più facile aprire un’attività.

Nella terza fase la tensione finanziaria diviene costante e conduce inevitabilmente a non onorare i propri debiti con le banche le quali quindi riducono il loro affidamento nei confronti dei clienti morosi.

Le PMI rappresentano le realtà con le peggiori performance ed hanno quindi bisogno di pesanti iniziative di sostegno, quelle italiane in particolare sono più indebitate delle altre europee e devono fronteggiare anche una peggiore situazione di liquidità.

Fra la prima e la terza fase passano più di 2 anni, tempo che sarebbe sufficiente per prendere delle contromisure.

Nella maggior parte dei casi la riduzione degli indici di bilancio porta gli istituti di credito a ridurre o azzerare i massimali di garanzia concessi ai fornitori. L’impresa si trova così molto limitata anche nell’utilizzo del credito-fornitore dovendo quindi acquistare con pagamenti anticipati e incassare a 120 giorni o più. Si entra quindi in una crisi finanziaria da cui si potrebbe uscire solo con immissioni notevoli di liquidità tramite aumenti di capitale sottoscritti dai soci o da nuovi soggetti che vogliano entrare nella società.

Le imprese con prodotti validi e competitivi vivono anche un quarto stadio nel quale la prospettiva di una ripresa del fatturato potrebbe addirittura invertire la rotta. Pur

56

accadendo ciò però la ripresa può rivelarsi insufficiente e illusoria perché spesso coincide con la fase di reazione delle banche alle crisi d’impresa che solitamente si presenta con grande ritardo. Questo ovviamente genera un problema insormontabile per l’azienda.

La crisi ha colpito in particolare l’area settentrionale nella quale le industrie manifatturiere sono da sempre più radicate57.

Dal punto di vista occupazionale invece sono state le regioni meridionali le più colpite dal calo degli addetti, in particolare la Sicilia, la Calabria, la Basilicata e la Puglia dove il tasso di occupazione risulta essere inferiore addirittura al 35%, nelle regioni del centro-nord invece i risultati peggiori sono nel Lazio dove l’unica eccezione è costituita da Roma, nell’Umbria, nelle regioni meridionali di Marche e Toscana e nella Liguria in cui il tasso varia tra il 35% e il 45%58.

Tre importantissime manifestazioni della crisi sono state l’aumento dei fallimenti59, il crescere delle sofferenze bancarie e il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni60.

Dal 2005 al 2010 le ore totali di cassa integrazione sono cresciute di oltre il 390%, in particolare quella ordinaria ha subito un incremento del 140%, quella straordinaria del 440% e nel caso di quella in deroga si è arrivati addirittura a toccare percentuali del 2.700%61. A livello di distribuzione territoriale ovviamente sono le regioni con livelli occupazionali più elevati che hanno fatto maggior ricorso agli ammortizzatori sociali. E’ chiaro che la depressione economica si ripercuota negativamente sull’impresa, magari portando al fallimento di un cliente importante con la conseguente generazione di effetti a catena ma bisogna comunque essere realisti e riconoscere anche la presenza di errori manageriali e di impreparazione, entrambi grandi responsabili delle crisi d’impresa.

57

Fonte elaborazioni Ires su dati Istat. Lo studio si basa su un interessante rapporto statistico del MiSE del 2010, Monitor statistico su industria ed aree di crisi che ha mappato il territorio italiano evidenziando le aree in cui la crisi industriale è risultata più intensa. Tale lavoro è rintracciabile all’indirizzo www.sviluppoeconomico.gov.it.

58

Fonte elaborazioni Ires su dati Istat.

59

Facendo riferimento al primo biennio della crisi complessivamente fra il 2008 e il 2009 le attività manifatturiere hanno perso il 4,5% delle aziende e il 5,4% degli addetti, i settori più colpiti sono stati quello dell’abbigliamento, quello della lavorazione del legno, le imprese di fabbricazione di prodotti in metallo e le imprese che producono computer e apparecchi elettronici.

60

La CIG (Cassa Integrazione Guadagni) è un istituto previsto dalla legge italiana per venire incontro alle aziende che si trovino in momentanea difficoltà, sgravandole di parte dei costi della manodopera momentaneamente non utilizzata. Consiste in una prestazione economica, erogata dall’INPS o dall’INPGI a favore dei lavoratori sospesi dall’obbligo della prestazione lavorativa o che si trovino ad operare a orario ridotto.

Il fattore esterno quindi non fa che mettere in evidenza la debolezza dell’organismo economico. Occorre ricercare proprio negli aspetti strategici della gestione le cause che portano alcune micro imprese ad ottenere comunque risultati positivi ed altre ad intraprendere la strada del declino.

Principale fonte di criticità è la carenza o addirittura la totale assenza di metodi e strumenti di controllo dell’andamento gestionale.

Frequentemente la contabilità è seguita esternamente e l’imprenditore che non conosce i margini industriali per categorie di prodotto e per cliente effettuata sovente scelte commerciali errate, ad esempio optando per la vendita di prodotti a margine troppo basso o addirittura negativo. Spesso inoltre non ha una conoscenza chiara ed approfondita del budget annuale e di periodo, talvolta per la mancanza di investimenti in semplici strumenti informatici in altri casi per il loro mancato utilizzo quand’anche presenti. A causa di ciò non scorge lo scostamento dagli obiettivi prefissati e non interviene quindi con rapide correzioni ma lo fa solo quando ormai è tardi.

Altro grave problema è rappresentato dalla mancanza di una gestione preventiva dei flussi di cassa con l’incapacità quindi di prevenire situazioni di illiquidità e di insolvenza.

Quello che verrebbe da pensare è che le piccole imprese non abbiano la possibilità di avere internamente le competenze gestionali, di marketing, di logistica, di pianificazione che quelle di dimensioni più elevate possono invece permettersi ma in realtà questa è una tesi che non regge. Seppure tale argomentazione possa in parte ritenersi corretta in realtà la colpa va comunque attribuita ai piccoli imprenditori che non hanno saputo scegliere i consulenti esterni più adeguati in un panorama in cui l’apporto di soggetti esperti e qualificati è oggi fornito a costi sostanzialmente sostenibili anche dalle realtà più piccole.

Il piccolo imprenditore è un soggetto con troppe responsabilità che prende da solo decisioni importanti. Se questo può anche andar bene in periodi di crescita economica di certo non è la soluzione ideale in momenti di depressione nei quali si necessita di competenze esterne qualificate.

L’impatto della crisi attuale sulle piccole e medie imprese è una dimostrazione evidente dei loro limiti e dei loro errori.

La loro risposta alla difficile situazione attuale è stata quella di cercare di concentrarsi sul proprio core business62 e per farlo hanno optato per l’outsourcing, esternalizzando attività ritenute a basso valore strategico. Si sono cioè rivolte a partner esterni che hanno come core business l’attività richiesta. Tali soggetti, essendo altamente specializzati in quel settore, forniscono la prestazione sostenendo un costo più contenuto e con una qualità sicuramente maggiore di quella che sarebbe stata raggiunta internamente.

E’ possibile così smobilizzare investimenti e liberare personale da attività non ritenute strategicamente rilevanti trasformando inoltre un costo che prima era fisso in variabile. L’esternalizzazione però richiede un’analisi accurata dei soggetti ai quali rivolgersi. La fase della selezione diviene molto delicata e non può seguire come unico criterio quello del prezzo perché si tratta di valutare la qualità del servizio offerto, l’affidabilità e la professionalità del soggetto esterno.

Le PMI hanno anche cercato di ridefinire i rapporti di subfornitura nel modo più coerente possibile con le dinamiche del mercato e con l’articolazione della propria filiera produttiva. Questi soggetti in genere hanno una rete di fornitori piuttosto ristretta e instaurano con questi dei rapporti di tipo fiduciario.

La maggior parte dei fornitori strategici sono ubicati nello stesso territorio o in territori abbastanza vicini in modo tale da ridurre i costi legati al trasferimento delle materie prime perché quanto meno estesa è la rete di distribuzione e quanti meno passaggi sono affrontati dagli input prima di giungere al consumatore finale impresa tanto meno il loro prezzo lieviterà.

Le PMI per cercare di rimanere comunque competitive nonostante la loro struttura le metta in seria difficoltà rispetto ai competitors di dimensioni più elevate, devono cercare di aprirsi verso piattaforme più ampie, dove è possibile reperire servizi ad alto valore aggiunto e competenze altamente specializzate.