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Possibili errori strategici e di marketing

CAPITOLO 4 – ANALISI DI UN CASO REALE: DESIO & ROBÈ SRL

4.3 Possibili errori strategici e di marketing

Dopo aver indagato quelli che sono gli aspetti propriamente legati all’analisi di bilancio e aver cercato di dare una prima motivazione alla crisi che si è abbattuta sull’impresa in esame, cerchiamo di evidenziare quali possano essere stati gli errori anche dal punto di vista strategico e di marketing.

Per fare ciò ci avvaliamo di un importantissimo strumento d’analisi rappresentato da un modello che analizza gli stadi che attraversa il declino se non viene gestito in modo adeguato91.

Il primo è quello della cecità nel quale cambiamenti interni ed esterni minacciano la sopravvivenza nel lungo periodo e richiederebbero quindi dei provvedimenti immediati al fine di contrastare subito la situazione appena sorta, magari snellendo le procedure, razionalizzando il numero di dipendenti o migliorando i rapporti con i propri clienti. In questa fase però i manager solitamente ancora non hanno percepito che quanto sta accadendo è il segnale di un vero e proprio declino in atto e si limitano quindi a sviluppare sistemi di monitoraggio e di controllo efficaci atti ad evidenziare ciò che non funziona come dovrebbe.

Interventi più adeguati invece, supportati da un flusso adeguato di informazioni, potrebbero riportare subito l’organizzazione alle prestazioni ottimali.

Il secondo stadio è quello dell’inattività durante il quale il manager nega la situazione nella quale versa l’azienda e si limita a far quadrare i conti, come si suol dire, con appropriate tecniche di bilancio.

Cercherà inoltre di convincere i dipendenti che tutto va bene ancora una volta senza intraprendere le dovute azioni correttive che dovrebbero essere volte alla ricerca di nuovi approcci per la risoluzione dei problemi, ad una maggiore partecipazione al processo decisionale e all’incoraggiamento a manifestare la propria insoddisfazione al fine di capire cosa non va ed agire per modificarlo.

Il terzo è lo stadio dell’errore nel quale i problemi sono divenuti gravi e vengono messi in evidenza dai vari indicatori che analizzano i risultati.

Non si può più ignorare la situazione altrimenti si rischia il fallimento dell’organizzazione.

91

Per un’analisi più approfondita del modello vedi Richard L. Daft, Organizzazione aziendale – quarta edizione, Apogeo srl, Milano 2010.

Il manager pone in essere azioni drastiche per ridurre i costi mediante tagli al personale e ridimensionamenti.

Sarebbe più corretto rendere partecipe il personale di quanto sta accadendo al fine di responsabilizzarlo e far sì che si impegni al massimo nella produttività ma in realtà si continua a tenerlo all’oscuro di tutto.

Un errore commesso in questa fase diminuisce notevolmente le possibilità di risanamento.

Il quarto stadio è quello della crisi vera e propria.

L’organizzazione vive una situazione di panico legata al fatto che non è stata in grado di gestire efficacemente il declino per evitare che sfociasse in una vera e propria crisi. Una volta arrivati a questo punto, l’unico rimedio è quello di una radicale riorganizzazione nella quale saranno necessarie azioni straordinarie come ad esempio la sostituzione dei vertici che si sono rivelati non idonei a gestire il problema quando si era ancora in tempo per farlo e cambiamenti rivoluzionari nella struttura, nella strategia e nella cultura aziendale.

Il ridimensionamento tipico di questa fase va però gestito adeguatamente anche perché può assumere connotati alquanto severi.

Non bisogna ad esempio nascondere ai dipendenti la possibilità di un licenziamento sia perché tale prospettiva può spingere il lavoratore a massimizzare la sua produttività per scongiurare la perdita del lavoro e sia perché le voci di corridoio sono ancora più pericolose della comunicazione diretta.

Si tratterà poi di aiutare i lavoratori licenziati ad affrontare la perdita del posto di lavoro e a ristabilirsi nel mercato del lavoro tramite formazione, liquidazioni, indennità e assistenza nella ricerca di un nuovo impiego.

Non bisognerà infine dimenticarsi della forza lavoro rimasta a disposizione dell’azienda la quale rischia di non essere immune alla cosiddetta “sindrome dei sopravvissuti alla riduzione del personale” la quale si concretizza nella preoccupazione di perdere il proprio posto di lavoro, nel non avere più fiducia nella dirigenza aziendale e nell’assumere un atteggiamento restio nei confronti della stessa.

Talvolta vi è anche difficoltà nell’adattarsi ai nuovi doveri e alle nuove responsabilità legate alla riorganizzazione e nel gestire le nuove relazioni sorte all’interno dell’azienda a seguito del ridimensionamento.

Infine si entra nell’ultimo stadio che è quello della dissoluzione nel quale il declino è ormai irreversibile con gravissime perdite di quota di mercato, dei migliori elementi in termini di personale e di capitale e della reputazione dell’azienda.

Unica possibilità è ormai quella di porre fine il prima possibile all’attività, evitando così di peggiorare ancora di più la situazione.

L’azienda in esame, Desio & Robè srl, a mio parere ha attraversato tutte le fasi esaminate dal modello.

Durante lo stadio della cecità e dell’inattività ad esempio, pur essendo presenti indicatori di bilancio che mettevano in evidenza la pericolosissima sottocapitalizzazione dell’azienda e lo scarso apporto della gestione caratteristica al risultato d’esercizio, i manager non si sono preoccupati di porre in essere azioni correttive ma anzi hanno incrementato la gestione atipica tramite l’acquisto di terreni a puro scopo speculativo e impegnandosi in un investimento esageratamente oneroso quale l’apertura del nuovo punto vendita a Livorno.

A mio parere questo è stato un gravissimo errore visto che avrebbero potuto impiegare quelle risorse per migliorare l’organizzazione già in atto e dar vita ad investimenti strategici quali quelli in qualità, ricerca e sviluppo, analisi di mercato atte ad analizzare meglio i bisogni della clientela.

Si entra quindi nello stadio dell’errore in cui si inizia con i tagli dei costi del personale, vediamo infatti una diminuzione dell’organico nel corso degli esercizi presi in esame. Si arriva infine alla fase della crisi nella quale ormai la dirigenza è nel panico perché la situazione è grave e si cerca una riorganizzazione massiccia e ancora un ridimensionamento. Si chiudono quindi i punti vendita di Castelnovo di Sotto (RE) e di Grumolo delle Abbadesse (VI).

Quello che ci si chiede e se non sarebbe stato invece strategicamente più corretto chiudere il punto vendita di Livorno al posto degli altri due presenti già da parecchio tempo sul territorio. Questo sia perché un nuovo negozio richiede sempre degli anni prima di fornire un reale apporto produttivo e sia perché in Toscana era già presente la sede di Navacchio, facilmente raggiungibile dal bacino di utenza del punto vendita livornese evitando così di perdere una fetta di mercato nell’Italia settentrionale.

Infine giungiamo allo stadio della dissoluzione nel quale per evitare di arrivare al fallimento vero e proprio o comunque di peggiorare ancora di più la situazione, si aderisce alla procedura di concordato preventivo, la quale avrà inizio nel settembre del 2013.

Avendo visitato personalmente più volte la sede di Navacchio prima della sua chiusura, cercherò di mettere in evidenza quelli che a mio modesto parere risultavano i punti di debolezza della struttura presa in esame.

Percorrendo in lungo e in largo gli ampi locali nei quali veniva svolta l’attività di vendita, al consumatore finale risaltava subito agli occhi la totale assenza di rinnovamento. I locali cioè presentavano una sorta di staticità che veniva percepita come una mancanza di innovazione.

I prodotti a scaffale erano posti sempre nel posto usuale e il cliente andava quindi alla ricerca di ciò di cui necessitava indirizzandosi a colpo sicuro nel reparto di appartenenza.

Non venivano quindi utilizzate le classiche politiche di marketing legate allo spostamento dell’output mirato a far sì che il soggetto si trovasse suo malgrado di fronte a prodotti diversi da quelli che era intenzionato ad acquistare e fosse così spinto a comprare, anche magari solo per semplice curiosità qualcosa di nuovo o comunque non in programma.

La presenza di un percorso obbligato all’interno del punto vendita avrebbe potuto tranquillamente agevolare tale politica di marketing, in quanto il cliente era obbligato a visitare l’intero negozio prima di giungere alla barriera casse.

Sarebbe bastato quindi magari invertire l’ordine dei prodotti offerti per ottenere il risultato sperato ma questo spesso non avveniva.

Probabilmente tale scelta era dovuta al non voler sostenere costi aggiuntivi connessi al pagamento di straordinari notturni ai dipendenti incaricati di effettuare gli spostamenti tattici richiesti da tale politica.

La varietà di prodotti inoltre talvolta era alquanto scarsa, non si puntava cioè su una forte differenziazione che riuscisse a conquistare un vantaggio competitivo come ad esempio avviene nel caso dei mega store di Ikea.

L’importante era offrire semplicemente una risposta al bisogno della clientela accertandosi solo di fornire un output base che rispondesse alle esigenze del mercato. L’azienda puntava prevalentemente ad un leadership di costo, si cercava cioè di offrire prodotti standard a prezzi competitivi senza effettuare invece un’adeguata segmentazione dei mercati, al fine di commercializzare prodotti differenziati e rispondenti alle esigenze di segmenti con caratteristiche assai diverse fra loro.

Se fornire un prodotto più economico può permettere di conquistare una grossa fetta della domanda, specie in un periodo in cui il denaro a disposizione dei consumatori è

assai limitato, nel medio lungo periodo non permette di difendere la propria posizione di mercato perché il cliente, divenuto sempre più esigente, si rivela in cerca di qualcosa di nuovo, di diverso, di unico.

La differenziazione in parte era ottenuta tramite la presenza di servizi accessori quali la consegna a domicilio e l’installazione di quanto acquistato ma probabilmente non erano comunque sufficienti a far ritenere l’azienda diversa dalle altre.

Questo presumibilmente perché si trattava di servizi accessori forniti regolarmente anche dai competitors e quindi solo necessari alla sopravvivenza dell’apparato aziendale, il quale sarebbe stato tagliato subito fuori dal mercato se non avesse fornito come i suoi concorrenti tale supporto alla clientela.

Altro grave errore dell’azienda era legato al fatto che puntando esclusivamente su una leadership di costo non andava a perseguire politiche di qualità.

Il prodotto quindi veniva percepito come a buon mercato ma qualitativamente medio basso, talvolta gravato anche da difetti di fabbricazione con il conseguente sostenimento dei costi della non qualità legati alla perdita d’immagine e alla restituzione dell’oggetto sulla base della garanzia legale contro vizi e difetti occulti92.

Mi sono personalmente trovata a dover scegliere fra più esemplari esposti quello migliore seppur non totalmente privo di difetti.

In un punto vendita dove spiccava la poca attenzione alla qualità vi era poi anche il cosiddetto “angolo delle occasioni” in cui si potevano acquistare prodotti di qualità ancora inferiore e a costi più limitati.

Se da una parte questo poteva comportare degli introiti legati magari ad un incremento negli acquisti perché a basso prezzo, di certo andava a danneggiare ulteriormente l’immagine complessiva del negozio.

Un prodotto qualitativamente basso inoltre ha una durata limitata nel tempo e se questo può essere inquadrato in un’ottica di obsolescenza programmata e quindi di garantire un riacquisto nel giro di pochi anni, comporta però un’insoddisfazione da parte del consumatore quando il guasto si presenta in un periodo di tempo troppo ravvicinato. L’azienda non potrà quindi sfruttare una delle più importanti leve di marketing quale quella del cosiddetto passaparola positivo93.

92

La garanzia contro vizi e difetti occulti è un effetto naturale della compravendita. Nel caso in cui la res presenti vizi tali da renderla inidonea in tutto o in parte all’uso al quale era destinata o siano tali da ridurne sensibilmente il valore, il consumatore ha diritto alla risoluzione del contratto ex art.1490 del c.c.

93

Il passaparola ha un peso fondamentale nelle decisioni della clientela, specie quando si rivolge verso un servizio intangibile. In qualunque settore però un passaparola positivo è una fortissima arma di

L’acquirente insoddisfatto infatti tenderà a sconsigliare l’acquisto da quel rivenditore sviando la clientela e indirizzandola verso competitors qualitativamente migliori.

Il cliente soddisfatto oltre a risultare fidelizzato rappresenta anche la migliore pubblicità per l’azienda ed è quindi una delle principali fonti di clientela

La scarsa attenzione verso la qualità era testimoniata anche dalla mancanza sistemi di certificazione della stessa.

Altro errore era legato al fatto che mentre molti competitors tranquillizzavano il consumatore nella fase dell’acquisto rendendosi disponibili a restituire in contanti il prezzo sostenuto in caso di ripensamento, la srl Desio & Robè si limitava invece a propria discrezione ad accettare la restituzione dell’oggetto in cambio di un buono, seppure questo fosse integro e provvisto dello scontrino fiscale.

Probabilmente l’azienda attuava questa politica di vendita al fine di evitare la perdita di un’entrata fra l’altro già contabilizzata ma a mio parere ciò incideva parecchio sulla fidelizzazione della clientela, io per prima nel caso di acquisti di importo ingente rivolgevo la mia attenzione verso competitors che in caso di errore di valutazione erano disposti alla restituzione di quanto sborsato perché perseguivano come fondamentale variabile strategica quella della customer satisfaction.

Il personale inoltre molto spesso non era in grado di fornire i dovuti chiarimenti in merito all’output che ci si apprestava ad acquistare, rispondendo talvolta in modo vago alle richieste di chiarimenti o leggendo di fronte al cliente quanto riportato sulla confezione per elencare le caratteristiche dell’oggetto.

Mancavano quindi probabilmente degli adeguati corsi di formazione al fine di rendere i dipendenti edotto sul prodotto del quale doveva occuparsi.

La presenza all’interno del punto vendita di prodotti tecnologicamente evoluti richiedeva spesso la necessità di conoscerne a fondo le caratteristiche prima di effettuarne l’acquisto e trovarsi di fronte ad addetti di vendita poco preparati sovente portava il soggetto a rivolgersi a competitors che magari erano meno a buon mercato ma che fornivano un fondamentale servizio accessorio alla vendita: la consulenza.

Alla base vi era una buona divisione del personale per settori merceologici poiché l’azienda aveva una gamma di prodotti molto vasta che toccava ambiti totalmente differenti. Se questa fosse stata accompagnata da un adeguato addestramento del

ampliamento della clientela, così come se negativo può portare ad una gravissima perdita d’immagine per l’azienda.

personale avrebbe sicuramente portato ad un incremento di fiducia da parte del consumatore finale.

Spesso il cliente era costretto a recarsi due volte nel punto vendita, la prima per effettuare un sopralluogo sulle varianti di prodotto offerte e la seconda per effettuare l’acquisto una volta informatosi sulle caratteristiche delle diverse opzioni.

Talvolta però può accadere che il cliente non torni nel punto vendita e rivolga la sua attenzione verso un altro concorrente che forniscano un’adeguata assistenza alla vendita.

Questo comporta una pericolosissima perdita di fatturato e ancor peggio di immagine. Il cliente va conquistato subito, non deve andar via dal negozio senza aver effettuato l’acquisto sia perché quanto prima si ottiene l’introito tanto prima si avrà la correlazione tra costi e ricavi e sia perché il soggetto che varca la soglia dell’uscita a mani vuote rappresenta una potenziale entrata persa perché non vi è certamente la garanzia che questo torni in quel punto vendita e non si rechi altrove.

Non si puntava inoltre sulla fidelizzazione della clientela che tipicamente si ottiene ad esempio anche con la presenza delle diffusissime tesserine punti, le quali molto spesso spingono il soggetto a recarsi in un certo punto vendita, magari anche più distante o leggermente più costoso piuttosto che in un altro, al solo fine di accumulare punti. Errore questo a mio parere fatale perché il costo sostenuto dall’azienda per compensare il consumatore finale con una raccolta punti porta ad un beneficio molto più che proporzionale, azzarderei esponenziale.

La fidelizzazione della clientela infatti è a mio parere una delle più importanti variabili strategiche sulle quali puntare.

Il cliente fedele assicura una sorta di stabilità all’azienda la quale sa di poter contare su introiti costanti.

La presenza di tessere di fidelizzazione della clientela inoltre permette lo svolgimento di importantissime politiche di controllo delle preferenze atte a conoscere meglio la domanda e a fornire una risposta sempre più adeguata alla stessa.

Altra gravissima pecca era la carenza di pubblicità, solo di rado infatti presso le abitazioni venivano distribuiti dei volantini rappresentanti le offerte in corso e comunque ciò non era di certo sufficiente a colpire l’attenzione del consumatore e a portarlo quasi automaticamente in negozio.

La pubblicità, per quanto sia un ingente onere per l’azienda non è di certo una spesa da tagliare al fine di ottenere una leadership di costo.

Occorre fra l’altro studiare il proprio segmento di clientela allo scopo di trovare le politiche pubblicitarie più adeguate.

Quello che veniva percepito dal consumatore finale inoltre era una totale mancanza di ammodernamento nei locali i quali risultavano esageratamente statici e talvolta forse eccessivamente obsoleti.

Entrando nel punto vendita si respirava un’aria di “vecchio”, anche i colori usati per gli espositori colpivano poco l’attenzione del consumatore.

I prodotti non venivano largamente rinnovati, spesso forse sarebbe bastato anche solo un packaging più accattivante per attirare maggiormente l’attenzione del consumatore. La presenza inoltre del settore alimentare a mio parere non era una scelta strategica positiva in quanto trovare uniti assieme ambiti merceologici così diversi ha un impatto negativo sull’acquirente il quale sarà portato a pensare che siano tutti ambiti di bassa qualità, vista la mancanza di specializzazione.

Ritengo quindi che il settore alimentare rappresentasse un costo non correlato a ricavi adeguati.

Sarebbe forse stata necessaria un’analisi di marketing per stabilire quanto la clientela fosse disposta all’acquisto di quel prodotto per definire se fosse adeguato sostenerlo o dismettere quanto prima il reparto, come talvolta accade anche nella grande distribuzione.

I costi sulla ricerca però in azienda erano molto limitati.

Il punto vendita inoltre effettuava un orario di apertura al pubblico alquanto ridotto perché oltre ad essere chiuso in pausa pranzo le vendite cessavano alle ore 20, si andava così a perdere un’ampia fetta di clientela, quella con orari di lavoro incompatibili. Si cercava di sopperire a ciò con l’apertura pomeridiana domenicale ma anche questo spesso non era comunque sufficiente perché talvolta i soggetti preferiscono impiegare i giorni festivi in altro modo.

Questo fa ben comprendere come l’azienda in esame non si fosse armonizzata con i propri concorrenti i quali per essere più competitivi erano aperti con orario continuato e spesso fino tarda sera.

Tanti quindi gli errori strategici riscontrati tra cui anche la carenza di qualità e di formazione del personale che purtroppo, come evidenziato nel terzo capitolo, sono tipiche delle piccole e medie imprese le quali spesso non ne colgono la reale importanza e sono portate a ritenere che per ottenere la tanto sospirata leadership di costo siano proprio queste le uscite sulle quali operare adeguati tagli.

Ci si chiede quindi se davvero la colpa della chiusura dell’azienda sia da ricercare solo nella congiuntura economica negativa o forse molto più probabilmente anche in tali errori che in una grave crisi come quella attuale possono risultare fatali.