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Effetti della crisi economica sulle Piccole e Medie Imprese: analisi di un caso reale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea in Economia e Commercio

TESI DI LAUREA

EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SULLE PMI:

ANALISI DI UN CASO REALE

CANDIDATO: RELATORE:

Francesca Natale Egr. Prof. Marco Giannini

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO 1 - CRISI ECONOMICA: QUADRO GENERALE ... 7

1.1. Premessa ... 7

1.2. I risvolti della crisi sulla situazione politica ... 10

1.3. Crisi economica e crisi dei debiti pubblici... 13

1.4. Le Piccole e Medie Imprese e la crisi ... 17

CAPITOLO 2 – CRISI DEL 2008 E GRANDE DEPRESSIONE: DUE CRISI A CONFRONTO ...26

2.1 La crisi del ’29: quadro storico... 26

2.2 Caratteristiche della crisi del ‘29 ... 31

2.3 L’impatto della crisi del ’29 sull’Italia ... 33

2.4 Due grandi crisi a confronto: analogie e differenze... 37

CAPITOLO 3 – IMPATTO DELLA CRISI SULLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE E STRATEGIE PER FRONTEGGIARLA ...43

3.1 Impatto della crisi sulle Piccole e Medie Imprese ... 43

3.2 Strategie di marketing per sopravvivere in un mercato in crisi ... 49

3.3 Miglioramento dell’efficienza e ricerca della qualità come risposta alla crisi ... 58

3.4 Verifica dell’andamento dell’impresa nel tempo ... 63

CAPITOLO 4 – ANALISI DI UN CASO REALE: DESIO & ROBÈ SRL ...74

4.1 L’azienda ... 74

4.2 Verifica dell’andamento dell’azienda nel tempo tramite l’analisi di bilancio ... 76

4.3 Possibili errori strategici e di marketing ... 85

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INDICE

RINGRAZIAMENTI ...96 BIBLIOGRAFIA ...97 PRINCIPALI SITI INTERNET ... 100

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INTRODUZIONE

Lo scenario economico odierno è dominato da una profonda crisi che nata in America ha poi intaccato tutto il mondo mettendo in grossa difficoltà le imprese, sia quelle più grandi che quelle medie e piccole.

L’attualità e la gravità del problema mi hanno spinta a cercare di approfondirlo chiedendomi nel corso dell’indagine se fosse possibile riuscire a sopravvivere anche in questo contesto.

Vista la presenza massiccia di piccole e medie imprese operanti nel mercato, ho rivolto la mia attenzione in particolare a quello che è stato l’impatto del fenomeno su tale operatori economici, andando poi infine ad analizzare un caso reale per evidenziare così concretamente quelli che sono stati i risvolti della crisi sull’impresa sottoposta al mio esame.

L’elaborato ha cercato di evidenziare punti di forza e di debolezza delle piccole e medie imprese indicando anche quali siano le strategie vincenti in un contesto come l’attuale e quali gli errori compiuti dall’impresa esaminata.

Il primo capitolo si propone di inquadrare il fenomeno in atto evidenziandone le cause e rilevando il collegamento forte che esiste fra la crisi attuale e quella dei subprime rappresentata da una crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti che sembra rappresentare le radici dell’attuale depressione.

Si individuano poi i risvolti della crisi sulla situazione politica facendo notare come il cittadino inizi ad avere sempre meno fiducia nelle capacità dei politici di arginare la situazione, vista anche la necessità di competenze sempre più specifiche dovuta alla complessità dei problemi che ci si trova a fronteggiare.

Si è quindi passato a descrivere punti di forza e di debolezza delle piccole e medie imprese nel tentativo di affrontare la situazione attuale.

Il secondo capitolo ha invece l’obiettivo di mettere a confronto la crisi attuale con quella del 1929 visto che data la sua gravità la situazione che si vive ai giorni nostri è seconda solo a quella che si ebbe con la Grande Depressione.

Si delinea il contesto storico di riferimento parlando di quelli che furono i famosi giovedì nero e martedì nero che portarono al tracollo della Borsa di Wall Street dopo anni di crescita sfrenata.

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Dopo aver illustrato quelle che sono le caratteristiche della crisi del ’29, si va a vedere quale sia stato il suo impatto sull’Italia.

Si cerca infine di confrontare le due grandi crisi al fine di metterne in evidenza analogie e differenze.

Il terzo capitolo individua quello che è l’impatto della congiuntura negativa sulle piccole e medie imprese rilevando le grosse “pecche” che le caratterizzano, quali un output a valore aggiunto medio basso, una forte fragilità finanziaria ed una crescita strutturale alquanto limitata, tutti elementi che costituiscono un grosso ostacolo alla loro sopravvivenza nel contesto attuale.

Si descrivono poi quelle che sembrano essere le migliore strategie di marketing per sopravvivere alla depressione economica ed in particolare quelle legate al raggiungimento e al mantenimento nel tempo di un vantaggio competitivo, sia esso di costo o di differenziazione, al miglioramento dell’efficienza e alla ricerca della qualità. Si segnala la grande importanza ricoperta nell’attuale contesto da quest’ultimo elemento per conquistare una clientela sempre più esigente o per non perdere quella già acquisita ed anche per evitare di dover sostenere i cosiddetti costi della non qualità legati sia alla sostituzione del prodotto che alla perdita d’immagine che subisce l’azienda se immette sul mercato output difettosi.

Si evidenzia come grossa “pecca” delle piccole e medie imprese la scarsa attenzione rivolta alla qualità, non solo legata al prodotto, testimoniata anche dalla quasi totale assenza di sistemi di certificazione della stessa.

E’ proprio l’imprenditore per primo a non capire la strategicità di tale variabile in un ambito operativo orientato alla customer satisfaction e a ritenere i costi della qualità come voci da tagliare.

Si sottolinea inoltre come un grossissimo problema all’interno delle piccole e medie imprese sia costituito dal fatto che l’imprenditore accentri in sé tutte le responsabilità perché è restio a delegare ad altri per paura di perdere così parte del suo potere.

In tal modo si ha una guida dell’azienda più improntata a risolvere i problemi del breve periodo che non ad optare per le migliori scelte strategiche riferite al medio lungo termine.

Si va quindi a vedere in che modo si possa verificare l’andamento dell’impresa nel tempo illustrando strumenti quali il sistema di controllo e l’analisi di bilancio.

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Il primo vuole far emergere quelli che sono gli scostamenti tra gli obiettivi prefissati e i risultati raggiunti al fine di indagarne le cause e di implementare le adeguate azioni correttive.

La seconda invece si concretizza nel calcolo di opportuni indicatori che mettono in evidenza la situazione economica, finanziaria e patrimoniale dell’azienda.

L’ultimo paragrafo fa una carrellata dei principali indici di bilancio spiegandone il significato, l’importanza e i range entro i quali la situazione aziendale può definirsi sana.

Il quarto capitolo si occupa di studiare un caso reale e precisamente quanto accaduto ad un’azienda radicata da tempo nel nostro territorio, si tratta di Desio & Robè srl.

L’impresa in esame non è riuscita a superare la crisi in atto e si è quindi giunti nel 2013 ad una procedura di concordato preventivo.

Dopo aver indicato brevemente quale sia stata la sua storia, dall’apertura nel lontano 1963 fino alla cessazione dell’attività nel 2013, sono andata a verificare prima tramite gli indicatori di bilancio e poi mediante l’analisi strategica, quali possano essere stati a mio parere gli errori commessi da quest’operatore economico di gravità tale da portarlo a cessare la sua attività.

Gli indici di bilancio hanno già evidenziato delle criticità quali un’eccessiva sottocapitalizzazione, uno scarso apporto della gestione caratteristica al risultato d’esercizio, l’utilizzo di ingenti risorse in investimenti speculativi e non in qualcosa di più strategico come sarebbe stato invece più appropriato in una visione aziendale di medio lungo periodo.

L’analisi strategica ha invece evidenziato i grossi problemi che c’erano anche a livello decisionale quali la scarsa rilevanza che veniva data alla ricerca della qualità, la mancanza di innovazione, la pubblicità troppo limitata, la carenza di azioni atte alla fidelizzazione della clientela.

A mio parere sono stati anche tali errori che hanno portato a far cessare l’attività ad un’azienda che era radicata nel nostro territorio da più di 50 anni e quindi non solo la gravissima crisi economica in atto. Si tratta infatti di scelte errate che possono anche non emergere in periodi di espansione economica ma di certo non nell’attuale contesto di profonda depressione.

Si pone quindi fine al lavoro mettendo in evidenza come probabilmente non si possa dare la colpa delle crisi aziendali solo ed esclusivamente alla congiuntura negativa in atto ma si debbano evidenziare anche gli errori gestionali che possono aver condotto ad

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esse visto che purtroppo ci troviamo in un periodo nel quale l’imprenditore non può permettersi di sbagliare e anche l’errore più piccolo, che in tempi più prosperi non sarebbe risultato poi così grave, in quelli attuali potrebbe addirittura risultare fatale per la sopravvivenza dell’organismo economico.

Dimostrazione di ciò è data proprio dal fatto che ci troviamo di fronte ad aziende con caratteristiche molto simili ma con situazioni diverse.

Ve ne sono alcune infatti che anche se con ovvie e notevoli difficoltà sono riuscite a sopravvivere alla crisi ed altre che invece non ce l’hanno fatta.

Viene quindi da pensare che probabilmente la causa di ciò è da ricercare anche in errori di tipo gestionale che non hanno permesso di dare la risposta adeguata all’evoluzione dei mercati.

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CAPITOLO 1 - Crisi economica: quadro generale

1.1. Premessa

L’attuale contesto economico versa in un periodo di intensa crisi che ha colpito tutto il mondo.

Tale situazione, avviatasi nel 2008 e denominata anche Grande Recessione, trova le sue radici in una crisi di natura finanziaria originatasi negli Stati Uniti, la cosiddetta crisi dei subprime.

La crisi dei subprime, scoppiata alla fine del 2006, ha portato a gravissime conseguenze ancora in evoluzione sull'economia mondiale ed in particolare nei paesi sviluppati. Molti economisti proprio per tale motivo la considerano una delle peggiori crisi economiche della storia, seconda solo alla Grande Depressione iniziata nel 1929.

Qualche dato può chiarire meglio la gravità della situazione.

Il Fondo Monetario Internazionale1, nell’aprile del 2009, ha stimato in 4.100 miliardi di dollari Usa il totale delle perdite delle banche e delle altre istituzioni finanziarie a livello mondiale.

Si tratta di cifre astronomiche corrispondenti ad un reddito annuo di 20.500 dollari per 200.000.000 di lavoratori, oppure ad 1/3 dello stesso stipendio annuo per 600.000.000 di lavoratori o alla riduzione di 1/5 dello stesso stipendio per 5 anni.

Tale crisi è iniziata approssimativamente nella seconda metà del 2006 quando molti possessori di mutui subprime divennero insolventi a causa dell'innalzarsi dei tassi di interesse.

La crisi risulta evidente nel febbraio-marzo 2007 ed in particolare nel bimestre settembre-ottobre 2008, periodo nel quale si comincia a sgonfiare la bolla immobiliare statunitense. Si tratta di un tipo di bolla speculativa2 che periodicamente caratterizza i mercati immobiliari locali e globali concretizzandosi in un rapido aumento dei prezzi

1

Il Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund, di solito abbreviato in FMI in italiano e in IMF in inglese) è un’organizzazione composta dai governi di 188 Paesi e insieme al gruppo della Banca Mondiale fa parte delle organizzazioni dette di Bretton Woods, dal nome della località in cui si tenne la conferenza che ne sancì la creazione.

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In economia viene definita bolla speculativa una qualsiasi fase di un mercato caratterizzata da un aumento dei prezzi considerevole ed ingiustificato di uno o più beni, provocato da una crescita della domanda repentina e limitata nel tempo. Con tale locuzione solitamente si fa riferimento ai mercati nei quali si negoziano azioni, obbligazioni e titoli derivati ma la storia insegna che frequenti sono state anche le bolle riguardanti beni materiali come gli immobili.

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immobiliari che raggiungono livelli insostenibili rispetto ai redditi medi e ad altri parametri economici.

Contemporaneamente a ciò scompaiono le banche d’affari più note.

Lo scenario di fronte al quale ci si trova è il seguente: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers3 dichiara la bancarotta, il 22 settembre dello stesso anno Goldman Sachs4 e Morgan Stanley5 diventano banche normali.

Tutto ciò non può non influenzare in maniera violenta gli indici borsistici mondiali i quali si flettono in maniera consistente, arrivando mediamente sui livelli della fine del XX secolo.

A chi o a cosa attribuire le responsabilità di questa crisi? Molti le hanno attribuite alle pratiche predatorie dei prestatori subprime e alla mancanza di una effettiva supervisione da parte delle autorità governative, altri hanno accusato i mediatori creditizi di aver indirizzato i debitori verso prestiti che non potevano soddisfare, i periti di aver gonfiato artificialmente le valutazioni degli immobili e gli investitori di Wall Street di aver scommesso sui titoli che incorporavano mutui subprime senza aver verificato l’effettiva solvibilità dei prestiti sottostanti.

Di certo le banche hanno giocato un ruolo fondamentale nel far sì che la crisi si estendesse a livello globale e gettasse le radici per il gravissimo scenario nel quale tuttora viviamo.

Una volta gettate le fondamenta tramite la crisi dei subprime altri fattori hanno portato alla situazione attuale e sono stati gli alti prezzi delle materie prime (petrolio in primis), una crisi alimentare mondiale, un'elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo e per finire una crisi creditizia con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici.

Successivamente alla crisi finanziaria e a seguito del fallimento di Lehman Brothers si assisterà poi, nel secondo trimestre del 2008, ad una forte recessione e ad una grave crisi industriale con una forte contrazione della produttività e degli ordinativi.

3

Lehman Brothers Holdings Inc., fondata da Henry Lehman, Emanuel Lehman e Manuel Lehman nel 1850 a Montgomery (AL), era una società attiva nei servizi finanziari a livello globale e rappresentava uno dei primari operatori del mercato dei titoli di stato statunitensi. Si occupava in particolare di investment banking, equity e fixed-income sales, ricerche di mercato e trading, investment management, private equity e private banking.

4

The Goldman Sachs Group Inc. è una delle più grandi banche d’affari del mondo e si occupa principalmente di investimenti bancari e azionari, di risparmio gestito e di altri servizi finanziari, prevalentemente con investitori istituzionali (multinazionali, governi e privati).

5

Morgan Stanley è una banca d’affari con sede a New York City fondata il 5 settembre 1935 da Henry S. Morgan e Harold Stanley. Era una commercial bank. Dal 22 settembre 2008 è divenuta una holding bancaria con facoltà di raccogliere anche depositi a risparmio.

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Nel 2009 prende corpo una crisi economica generalizzata, caratterizzata da pesanti recessioni e vertiginosi crolli del Pil in numerosi paesi del mondo, in particolare in quelli occidentali.

Tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 si è verificata una parziale ripresa economica, subito dopo però si è assistito, soprattutto nei paesi dell’eurozona, ad un allargamento della crisi ai debiti sovrani e alle finanze pubbliche, particolarmente gravati dalle spese affrontate per sostenere i sistemi bancari.

Il 2 aprile del 2009, al termine del vertice del G20 di Londra6, si cominciò a pensare che la crisi fosse ormai superata e quindi rappresentasse solo un lontano ricordo, una piccola eccezione ad un cammino ininterrotto di eccezionale crescita economica, corrispondente ad un trend in corso in quel periodo.

Si riteneva che grazie al salvataggio delle banche e alla politica monetaria moderatamente espansiva degli stati Uniti, il mondo avrebbe recuperato, nel giro di soli quattro o cinque trimestri, i livelli produttivi e i ritmi di crescita precedenti all’estate del 2008 e che le quotazioni delle Borse sarebbero tornate ai livelli precedenti all’estate del 2007.

In realtà è accaduto l’esatto opposto e con il passare dei trimestri invece di assistere alla tanta sospirata e attesa ripresa ci siamo ritrovati di fronte ad un acuirsi della crisi.

Il recupero produttivo dei paesi ricchi si è rivelato sensibilmente inferiore al previsto ed è stato ottenuto pressoché unicamente con incrementi di produttività che hanno richiesto una riduzione dei costi, specie quelli per il personale, con un conseguente significativo aumento del numero dei disoccupati, in quanto questi rappresentano una delle uscite più rilevanti per un’impresa.

Nel settembre del 2011 l’ILO7

stimava il numero dei disoccupati in 20 milioni di unità per i paesi del G20.

6 Il summit dei Leader dei G20 sui mercati finanziari e sull’economia mondiale si è tenuto a Londra il 2 aprile 2009 presso l’ExCel Centre. E’ seguito, cronologicamente, all’omonimo summit tenutosi a Washington tra il 14 e il 15 novembre del 2008. Vi hanno partecipato sia i capi di governo e i capi di stato dei G20 che alcune organizzazioni regionali ed internazionali. Proprio in ragione dell’esteso numero di partecipanti generalmente viene anche chiamato “il Summit di Londra”.

7 ILO è l’abbreviazione di International Labour Organization. E’ un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di tematiche sul lavoro e in particolare delle norme internazionali del lavoro e del diritto di tutti ad avere un lavoro dignitoso.

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1.2. I risvolti della crisi sulla situazione politica

La crisi ha visto l’emergere di altri aspetti ad essa collegati che si sono rivelati non solo importanti ma anche altamente gravi.

Dal punto di vista politico sociale si è assistito all’emergere dello scontento dei cittadini elettori con forti riflessi sulla stabilità dei governi e sull’efficacia della loro azione di politica economica.

I cittadini elettori erano abituati alla figura del politico sereno e sorridente, in grado di promettere un avvenire radioso e di presiedere ad una crescita continua, quasi scontata, intento a redistribuirne i frutti. Tutto ciò non poteva che essere il quadro tipico dei periodi di prosperità economica.

La crisi porta invece al mutamento di questa figura in quella del politico che utilizza tagli e sacrifici come principali strumenti di redistribuzione8.

I capi di governo si trovano a fronteggiare situazioni sempre più complicate con la necessità di proporre politiche impopolari.

La situazione di instabilità porta alla forte necessità di adeguamento ai mutati vincoli internazionali, soprattutto di tipo finanziario, riguardanti i bilanci pubblici, all’alterazione o addirittura alla frantumazione del quadro politico tradizionale senza che però sorga immediatamente una maggioranza sostitutiva di governo e al conseguente susseguirsi di governi tecnici. In Italia in particolare vediamo prima quello guidato da Mario Monti e poi successivamente quello formato da Enrico Letta.

In tale contesto qualsiasi politica economica viene messa a punto e attuata con grande difficoltà.

A tutto ciò si deve aggiungere un peggioramento qualitativo percepibile, anche se non misurabile, dell’azione politica stessa a cominciare dagli strumenti legislativi.

L’instabilità politica fa sì che le opposizioni, una volta arrivate al governo, siano costrette ad assumere politiche non troppo discostanti da quelle dei loro predecessori. L’azione di governo subisce inoltre sovente un forte calo anche dal punto di vista qualitativo in quanto la gestione dell’economia nel suo complesso diviene sempre più complicata per via della crescente criticità della materia che necessità ormai di

8

Si susseguono infatti governi tecnici intenti a trovare sempre nuovi settori in cui attuare tagli al fine di destinare i fondi limitati al sostenimento delle spese pubbliche ritenute invece indispensabili e rispetto alle quali non si possono lesinare risorse.

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competenze specifiche. E’ anche per questo che ci si affida sempre più spesso a governi tecnici, come si diceva precedentemente.

Le politiche nazionali non sono state in grado di metabolizzare la globalizzazione. La crescente difficoltà di questi processi ha condotto ad una reazione particolarmente lenta alla crisi e all’emergere dell’inadeguatezza dei programmi di rilancio.

Questo è quanto accaduto a livello mondiale per ciò che riguarda le principali potenze ma si può ben vedere come tutto ciò si adatti benissimo a descrivere anche gli andamenti recenti dell’intreccio politico-economico italiano.

Possiamo quindi considerare tale intreccio come un caso nazionale di particolare intensità di un fenomeno più generale di portata mondiale.

Oltre alla riduzione della capacità dei politici “puri” di governare l’economia nella situazione drammatica in cui ci troviamo, la specifica carenza di conoscenze sul funzionamento del mercato finanziario globale sembra essere l’aspetto più importante della perdita di efficacia della politica economica.

Vediamo infatti che governi e finanza riescono ad interagire sempre meno, contestualmente occorre tenere in considerazione la scarsa preparazione dei normali cittadini nel campo economico-finanziario, divenuto ancora più complesso con la globalizzazione e richiedente quindi competenze sempre più specifiche.

Classe politica dei paesi ricchi e finanza globale hanno quindi continuato a non comprendersi proseguendo il loro viaggio su due binari paralleli e ciò non ha di certo facilitato i tentativi di risanamento dell’economia globale.

Ecco quindi spiegato perché la finanza non abbia proceduto ad una revisione critica del suo modo di operare, continuando invece ad agire come se la crisi finanziaria non si fosse verificata.

Anche a livello europeo la crisi non ha fatto che evidenziare una debolezza strutturale all’interno dell’Unione.

Dal punto di vista della finanza globale di fatto l’Unione Europea esiste perché dispone di una moneta unica, l’euro9

, a ciò però non si accompagna la presenza di un’organizzazione istituzionale che consenta di armonizzare politica economica e politica monetaria.

9

L’euro è la valuta comune degli stati membri dell’Unione Europea. Viene introdotto per la prima volta nel 1999 come unità di conto virtuale. Assume la forma di denaro contante per la prima volta nel 2002, in dodici degli allora 15 stati dell’Unione per poi estendersi progressivamente negli anni successivi ad altri stati membri.

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La nascita di tale ministero comporterebbe un importante trasferimento di sovranità dagli stati membri alle istituzioni centrali. Tale eventualità ha sempre incontrato l’ostilità dei governi e dei ceti politici dei singoli paesi, timorosi di perdere prerogative e conseguentemente potere e delle opinioni pubbliche dei paesi più ricchi, preoccupati dalla prospettiva di dover sopportare il peso fiscale del minor successo economico di altri paesi membri meno fortunati o meno virtuosi.

Nel corso della crisi, l’Unione Europea ha cercato di sviluppare surrogati di questa struttura istituzionale, ad esempio con il Trattato di Lisbona del dicembre 200710 ma non ha comunque raggiunto risultati decisivi.

Questa situazione continua ad esporre l’Unione al pericolo di crisi finanziarie locali, inquadrate nel più vasto orizzonte internazionale che possono compromettere quanto sin qui realizzato sul piano dell’integrazione monetaria, con esiti scarsamente prevedibili ma sicuramente gravi per le loro conseguenze sull’euro e sulla stessa esistenza dell’Unione.

Accantonata la dimensione politico-sociale della crisi, rivolgiamo lo sguardo a quella che riguarda invece la finanza pubblica la quale ha subito un marcato peggioramento in molti paesi ricchi in quanto la riduzione della produzione e dei consumi ha portato con sé una considerevole contrazione del gettito fiscale.

Verso la fine del 2010 e nel corso del 2011, la crisi ha superato abbondantemente i confini dell’economia in senso stretto per assumere dimensioni sempre più rilevanti e preoccupanti.

Lo scenario così delineatosi avrebbe richiesto un parallelo mutamento degli obiettivi delle politiche economiche che sono invece rimasti sostanzialmente invariati.

Si è cercato di chiudere in fretta la situazione di crisi nella quale l’economia versava senza interrogarsi troppo sulle sue cause remote.

L’unico obiettivo è stato quello di tornare al passato, agli anni d’oro del periodo 1980-2000, caratterizzati da mercati perfetti e crescita dolce senza scosse.

In un primo momento quindi si è pensato di rimettere facilmente l’economia in carreggiata ritenendo che quello al quale si era assistito fosse stato solo un capriccio della storia.

10 Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma, fu firmato il 13 dicembre 2007 e apportò ampie modifiche al Trattato sull’Unione Europea e al trattato che istituisce la Comunità Europea. E’ entrato ufficialmente in vigore in data 1 dicembre 2009. Tale trattato si occupa di abolire i “pilastri”, provvedere al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, rafforzare il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei trattati.

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A dimostrazione di questo modo di pensare, l’incremento della produzione verificatosi a partire dal secondo-terzo trimestre del 2009, non veniva visto come un recupero ma come una nuova partenza e in realtà ancora oggi le tesi più ottimistiche ritengono che, nonostante la lentezza insolita delle prime fasi della ripresa, tutto si assesterà e l’occupazione ripartirà.

Purtroppo però bisogna essere realisti e capire che il periodo d’oro che ci siamo lasciati alle spalle in realtà è stato un’epoca di cambiamenti confusi, i mercati reali erano e rimangono molto lontani dal modello ottimale di economia rappresentato dalla concorrenza perfetta.

Pur supponendo di riuscire a rimettere l’economia in carreggiata nonostante la situazione drammatica nella quale versa, non si riuscirà più a correre nella direzione di prima, gli scossoni saranno più frequenti e il viaggio meno comodo e forse più lento. Non si può pretendere d’altronde che una crisi di tale portata non lasci strascichi visto e considerato anche il mutamento dello scenario mondiale al quale ha portato.

Va notato di fatto che mentre per i paesi emergenti la nuova corsa è iniziata già da parecchio tempo11, nel caso dei paesi ricchi le ferite inferte dalla crisi non si sono ancora rimarginate, questi sono ancora lontani dalla tanto sospirata ripresa ed anche il giorno in cui dovesse finalmente arrivare il rischio di una nuova fermata imprevista rimane sempre in agguato.

1.3. Crisi economica e crisi dei debiti pubblici

La difficile situazione economica apparve ulteriormente aggravata dalla crisi dei debiti pubblici in alcuni stati europei come la Grecia, l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo, la Slovenia e Cipro.

Tali Paesi attuarono piani di salvataggio finanziario il cui scopo era quello di scongiurare il rischio di insolvenza sovrana ma i cui effetti in realtà si rivelarono ulteriormente recessivi per l’economia reale.

11 Già nel 2010 si registrò una ripresa sostenuta nei paesi sviluppati mentre nei paesi emergenti questa fu molto più forte e le loro economie mostrarono un rapido e deciso recupero, ad esempio Cina ed India videro un aumento medio del PIL del 10%.

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Si trattava di politiche di bilancio di austerity12 quindi restrittive sui conti pubblici, basate su riduzioni di spesa pubblica e aumenti di imposte.

Tali politiche hanno portato ad una divisione fra gli economisti, alcuni e in particolare quelli di formazione keynesiana, le vedono come una delle cause dell’aggravarsi dello stato di crisi, in quanto rendono ancora più poveri i contribuenti i quali hanno sempre meno denaro da spendere per far girare l’economia, altri esponenti accademici di cultura liberista invece le ritengono necessarie per evitare l’esplosione del debito pubblico e il rischio di default.

Guardiamo da vicino la crisi del debito italiano visto che è quella che più ci riguarda. Le ragioni di fondo che la scatenarono furono l’alto livello del debito pubblico in rapporto al PIL, che dopo diversi anni di complessiva riduzione a partire dal 2008 in coincidenza con la crisi vide una forte crescita, la scarsa o assente crescita economica, con il PIL aumentato in termini reali solo del 4% nel decennio 2000-2010 e poi successivamente addirittura ridotto, la scarsa credibilità dei governi e del sistema politico, spesso apparso privo di decisione o tardivo nel trovare le giuste risposte alle esigenze di un paese e di un’economia martoriati dalla crisi.

A tutto ciò si aggiunse che l’Italia, agli occhi degli investitori e soprattutto di quelli esteri, aveva perso credibilità in quanto a solvibilità.

Sul piano internazionale, gli interventi monetari della Banca Centrale Europea e il controllo delle politiche di spesa assunto dai vertici europei, puntavano ad attenuare le tensioni legate all’instabilità politica e all’acuirsi della crisi.

Per rendere meglio l’idea è bene fornire qualche dato.

Nel 2009 il PIL italiano aveva subito un crollo del 5% mentre l’indebitamento delle amministrazioni pubbliche era aumentato a 80,8 miliardi pari al 5,3% del PIL, il deficit aveva visto un incremento del 2,6%.

Il settore industriale aveva visto un grosso crollo pari al 15,1% ed anche gli ordinativi avevano subito un brusco contraccolpo.

Particolarmente consistente fu il crollo del settore delle auto, con un calo delle vendite a dicembre del 2008 del 48,9%.

12 Guido Rossi in un articolo pubblicato sul Sole 24 ore del 28 aprile 2013 mette in evidenza gli effetti negativi delle politiche di austerity le quali restringono la domanda, impediscono la crescita e fanno sì che divenga impossibile onorare i propri debiti.

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Fra il 2008 e il 2010, il debito pubblico italiano aumentò dal 103,6% al 119% per un ammontare complessivo nel 2010 di 1.843.015 milioni di euro a fronte di un PIL pari a 1.548.816.

A partire dal 2008 si amplia sempre di più la forbice fra buoni del tesoro poliennali e Bund13 mentre nel 2006 e quindi negli anni subito precedenti alla crisi essa appariva quasi del tutto irrilevante perché il tasso di rendimento dei titoli italiani rispecchiava un’affidabilità superiore ai Treasuries americani e ai Gilts britannici.

Nel 2008 tuttavia lo spread14 raggiunge la soglia vicina ai 100 punti base, salendo l’anno successivo di ulteriori 50 punti e raggiungendo in dicembre i 176 punti base. Si assiste alla fase più acuta della crisi del debito pubblico italiano a partire dall’estate del 2011, dopo che già Grecia, Irlanda e Portogallo a vario titolo avevano riscontrato difficoltà nel collocamento dei titoli del debito pubblico sul mercato finanziario. I tassi di rendimento si erano ormai attestati su soglie proibitive e tali Paesi erano giunti nella condizione di non potersi rifinanziare.

I buoni del tesoro poliennali tuttavia fino all’inizio dell’estate del 2011 avevano conservato rendimenti contenuti ed una buona appetibilità sul mercato tanto da essere considerati un “bene rifugio” sotto il profilo dell’affidabilità del debito, al pari dei titoli dei paesi più solidi dell’eurozona.

Successivamente però l’ampliamento dello spread, il differenziale di rendimento fra titoli di stato italiani e tedeschi (Bund), portò ad una crisi di fiducia sulla redimibilità dell’Italia provocando il ribasso dei mercati azionari europei ed in particolare della Borsa di Milano.

Le banche italiane possedevano numerosi buoni del tesoro nel proprio portafoglio e nella seconda metà di luglio registrarono perdite sul mercato borsistico, segnato da vendite da panico, speculazione e meccanismi automatici di vendita per circa 8 miliardi di euro di capitalizzazione.

La situazione italiana risultava ancora più seria per il fatto che il Paese era stato continuamente costretto ad emettere titoli per rifinanziarsi, con aste a scadenza settimanale. Era inoltre necessario che tali titoli venissero venduti a percentuali di interesse che non comportassero né eccessivi oneri per le finanze statali né l’eventualità

13 Bund è un’abbreviazione nel linguaggio finanziario delle obbligazioni federali (Bundesanleihen). Si tratta dei titoli di stato decennali tedeschi utilizzati come riferimento (benchmark), attraverso lo spread, per confrontare i rendimenti di altri titoli di stato di altri paesi europei.

14 Lo spread, inteso anche come credit spread è il differenziale fra il tasso di rendimento di un’obbligazione e quello di un altro titolo preso come riferimento (benchmark).

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di risultare ad alto rischio per gli investitori, difficilmente disponibili all’acquisto di titoli laddove il pericolo di insolvenza dell’emittente fosse stato ritenuto realistico. Nella notte del 20 settembre 2011 l’agenzia internazionale di rating Standard & Poor’s15

, basandosi sul fatto che riteneva limitata la capacità di risposta dello stato alla crisi corrente, annuncia a sorpresa di tagliare il voto di affidabilità sul debito pubblico italiano.

A fine novembre lo spread continua a crescere giungendo alla soglia dei 495 punti. Vista la grave situazione che si stava vivendo e sotto le pressioni di Piazza Affari in caduta e dei rendimenti dei titoli italiani in costante ascesa, il Premier in carica, Silvio Berlusconi, nella serata del 12 novembre 2011, rassegna le proprie dimissioni.

Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano assegna quindi al senatore a vita Mario Monti l’incarico di formare un nuovo governo.

Nasce così un governo di tecnici il cui operato porta ad una sensibile riduzione del differenziale BTP-Bund il quale però torna poi a salire a fine anno toccando nuovamente i 500 punti base.

Il 13 gennaio del 2012 Standard & Poor’s declassa ulteriormente il rating italiano portandolo da A a BBB+ arrecando un grave danno all’Italia la quale nella scala di giudizio sulla solvibilità viene collocata nella posizione medio bassa.

Trattamento simile viene riservato lo stesso giorno anche ad altri paesi dell’eurozona e precisamente alla Francia e all’Austria che si vedono decurtare di un punto il loro livello di rating precedentemente massimo passando quindi ad un AA+. Viene poi decurtato anche il rating di Portogallo (BB), Malta, Slovacchia e Slovenia.

La decisione viene motivata con la condizione di persistente instabilità della zona euro. Standard & Poor’s segnala il peggioramento delle condizioni del credito nell’intera eurozona e l’aumento dello spread per diversi paesi, anche con rating massimo, quelli cioè con la tripla A, denunciando il disaccordo fra i leader europei sulle misure necessarie ad allentare il panico sulle piazze e a risollevare la fiducia degli investitori. L’agenzia infine ha sottolineato l’elevato livello di debito pubblico e privato e il crescente rischio di recessione nel 2012, rappresentanti entrambi un evidente stato di ridotta stabilità finanziaria.

15 Standard & Poor’s Corporation è una società privata con sede negli Stati Uniti che realizza ricerche finanziarie e analisi su titoli azionari e obbligazionari. E’ fra le prime tre agenzie di rating al mondo insieme a Moody’s e Fitch Ratings.

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Nonostante il giudizio negativo di Standard & Poor’s all’inizio del 2012, dopo la manovra da 20 miliardi di euro messa in atto dal governo Monti al fine di consolidare le finanze dello stato nella prospettiva del raggiungimento del pareggio di bilancio, si assiste ad un miglioramento dell’opinione dei mercati con un calo consistente dei costi dell’indebitamento italiano.

Lo spread, risalito tra dicembre e gennaio, si riduce progressivamente fino al mese di marzo, contestualmente all’attenuarsi del timore su un possibile default greco.

La riduzione dei rendimenti fu dovuta in particolare all’operazione di liquidità di tre anni della Bce denominata long term refinancing operation (LTRO)16, che alcune banche italiane utilizzarono per acquistare debito sovrano.

Dal punto di vista dell’economia reale però la situazione complessivamente rimaneva negativa, caratterizzata da un costante aumento della disoccupazione giovanile, un considerevole calo dei consumi, una riduzione del credito dalle banche ed una prospettiva di contrazione del PIL per il 2012 di più di un punto percentuale.

1.4. Le Piccole e Medie Imprese e la crisi

A livello europeo la crisi ha esercitato un impatto profondamente negativo sulle piccole e medie imprese (PMI) le quali hanno subito un forte calo nelle vendite, nella produzione, negli occupati e nelle esportazioni.

La grave situazione attuale le ha particolarmente colpite in quanto queste non riescono a recuperare terreno in uno scenario economico ancora critico, contesto nel quale già le realtà di più grandi dimensioni fanno fatica a sopravvivere.

Stiamo quindi assistendo ad un forte incremento della media dei fallimenti rispetto agli anni precedenti, valori che purtroppo tendono a crescere.

E’ importante andare ad analizzare come la crisi abbia inciso sulle piccole e medie imprese17 poiché queste rappresentano una componente rilevante del tessuto economico europeo.

16 Il long term refinancing operation (LTRO) o piano di rifinanziamento a lungo termine consiste in un’asta di liquidità in cui la BCE concede un prestito alle banche richiedenti, della durata di tre anni e con un tasso di interesse pari alla media del tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali, calcolata nel periodo dell’operazione stessa. La BCE ha una garanzia sul prestito definita collaterale e composta solitamente da obbligazioni governative.

17 Secondo l’articolo 2 dell’allegato alla raccomandazione 2003/361/CE, si definiscono Small and Medium Enterprises (SME) acronimo inglese di PMI, le imprese che occupano meno di 250 persone e

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La grande maggioranza delle imprese presenti sul territorio infatti è proprio rappresentata da imprese di dimensioni medio piccole e di conseguenza anche la maggior parte degli occupati sono assorbiti proprio in tali realtà.

Se diamo un’occhiata alla situazione italiana vediamo come il peso delle piccole e medie imprese sia assolutamente preponderante, basti pensare che il 99,7% delle imprese industriali attive ha un numero di addetti inferiore alle 250 unità e l’81,7% di esso sono addirittura microimprese, attività cioè con meno di 10 dipendenti.

A partire dal 2008 anche queste attività di dimensioni medio piccole sono state colpite dalla crisi mondiale economico-finanziaria.

Le piccole dimensioni e alcune debolezze strutturali hanno fatto sì che le PMI fossero particolarmente esposte alla congiuntura sfavorevole.

Quello però che viene da chiedersi è se tale aspetto che a prima vista sembrerebbe esclusivamente negativo e al quale fa da pendant una maggiore flessibilità e adattabilità nella forma organizzativa, possa forse permettere una risposta più adeguata alle oscillazioni del mercato globale.

Le piccole e medie imprese sono sempre alla ricerca di una strategia anti-recessione che protegga il loro business.

L’unica strada che si prospetta loro è quella di un’attenta gestione dei costi e la selezione di investimenti intelligenti.

La prospettiva è quella sicuramente di una futura ripresa che di certo avverrà, come la storia ci insegna, in quanto l’economia segue dei cicli ben definiti18 con un alternarsi di

con un fatturato annuo non superiore ai 50 milioni di euro (oppure con un totale di bilancio annuo che non supera i 43 milioni di euro)

Nello specifico si distinguono:

Le microimprese, il cui organico è inferiore a 10 persone ed il cui fatturato o il totale di bilancio annuale non supera i 2 milioni di euro;

Le piccole imprese, il cui organico è inferiore a 50 persone ed il cui fatturato o il totale del bilancio annuale non supera i 10 milioni di euro;

Le medie imprese, il cui organico è inferiore a 250 persone ed il cui fatturato non supera i 50 milioni di euro o il totale di bilancio annuale non sia superiore a 43 milioni di euro.

Vedi in proposito Ires, Le Piccole Medie Imprese ai tempi della crisi – Politiche per PMI, impatto della crisi e ruolo della formazione continua, rapporto di ricerca n. 07/2011, settembre 2011 e Raccomandazione della Commissione 2003/361/CE del 6 maggio 2003 relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese, notificata con il numero C (2003) 1422.

18 Gli economisti classici non avevano elaborato una teoria del ciclo economico anche perché sposando la legge di Say, detta legge degli sbocchi, consideravano il mercato da solo in grado di garantire l’equilibrio tra domanda e offerta in quanto ritenevano fosse l’offerta a determinare la domanda di beni. Fu Malthus a sottolineare come invece l’offerta potesse non essere completamente assorbita dal mercato in quanto il risparmio poteva far sì che la domanda fosse inferiore ad essa. Vere e proprie teorie sui cicli economici però si avranno solo dopo il lavoro di Clément Juglar.

In una prima fase lo scopo delle teorie sui cicli economici era soprattutto quello di contenere le ampie oscillazioni dei prezzi o quanto meno mitigarle tramite appropriati strumenti monetari. Successivamente

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una fase di prosperità o boom, nella quale il PIL cresce rapidamente, una di recessione, individuata da una diminuzione del PIL in almeno 2 trimestri consecutivi, una di depressione, corrispondente a quella attualmente in corso, in cui la produzione ristagna e la disoccupazione si mantiene a livelli elevati e infine una di ripresa, in cui il PIL inizia nuovamente a crescere.

L’imprenditore che sappia davvero fare il suo mestiere, in grado quindi di sopravvivere alla crisi, può riuscire a far crescere la propria azienda anche nel contesto attuale grazie ad una ridefinizione dei processi interni e trovando dei metodi per tenere sotto controllo la spesa.

Saranno di certo queste imprese più virtuose che nella fase di ripresa si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto alle concorrenti e riusciranno quindi a sfruttare meglio delle altre la congiuntura favorevole dell’economia.

Tornando però ad analizzare la situazione attuale spicca come la crisi, a livello europeo, abbia esercitato un impatto profondamente negativo sulle PMI le quali hanno subito un forte calo nelle vendite, nella produzione, nelle esportazioni e nel numero degli occupati, con una disoccupazione alle stelle.

La contrazione delle vendite, manifestatasi nella seconda metà del 2008, ha subito un’impennata nel 2009, soprattutto per le imprese esportatrici più colpite rispetto a quelle operanti sul mercato domestico.

Se paragonate a realtà di dimensioni più grandi, le PMI risultano maggiormente indebolite dalla crisi per la presenza di maggiori criticità rispetto alle prime legate alla struttura finanziaria che risente di una liquidità maggiormente deteriorata, alla riduzione del fatturato, all’allungamento dei tempi di pagamento che non permette loro di rientrare in tempi brevi nei costi sostenuti per la produzione e ad un complicato accesso al credito.

La precaria situazione debitoria è aggravata dal crollo del mercato immobiliare il quale è spesso usato dalle PMI come elemento di garanzia nelle contrattazioni bancarie e dalla persistente stagnazione nell’offerta di venture capital19.

l’obiettivo è diventato quello di cercare di prolungare il più possibile le fasi di espansione, riducendo quelle di contrazione, attraverso l’uso di politiche atte a sostenere produzione ed occupazione.

19 Il venture capital è l’apporto di capitale di rischio da parte di un investitore (il venture capitalist) per finanziare l’avvio o la crescita di un’attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Nella maggioranza dei casi tali fondi sono erogati da limited partnership o holding a favore di aziende che per la natura della loro attività o per il loro stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari, come ad esempio le banche. Il venture capital è una parte del settore del private equity che include categorie di investimenti in società non quotate in un mercato regolamentato.

(21)

Se guardiamo nello specifico alla situazione italiana vediamo che se da un lato le PMI vantano una tradizionale, elevata diffusione sul territorio e sono tuttora in grado di sfruttare le opportunità offerte da processi produttivi frammentati in settori maturi e in aree distrettuali caratterizzate da un’articolata ed eterogenea filiera imprenditoriale, dall’altro però tutto ciò fa da pendant ad una minore produttività e competitività sui mercati.

Il principale problema è dato dalla mancata crescita del sistema produttivo, elemento critico già presente precedentemente alla crisi e molto evidente nel settore manifatturiero.

Tale criticità è legata in particolare ad una produttività negativa dovuta alla scarsa qualità degli investimenti. Spicca infatti nel panorama italiano il declino degli investimenti innovativi.

Andando a ricercare le cause di ciò emerge come il sistema produttivo italiano sia caratterizzato da una scarsa innovatività. Si è pensato di riuscire a competere sui mercati globali concentrandosi solo sulla riduzione dei costi.

Ci si è quindi preoccupati di attirare un’offerta di lavoro labour intensive di scarso contenuto professionale, in cui bassi salari e contratti atipici hanno reso possibile la sopravvivenza delle imprese senza spingerle verso organizzazioni produttive orientate all’innovazione, capaci di far crescere la produttività e la possibilità di competere con successo sui mercati internazionali.

Il ritardo della crescita dell’economia italiana va di pari passo con una stagnazione della domanda interna.

Nell’attuale contesto economico l’unica speranza di sopravvivenza per le piccole e medie imprese è quella di puntare su politiche di policy in grado di guardare al medio lungo periodo.

In particolare si deve puntare a migliorare la qualità del modello produttivo delle imprese stesse ed è quindi indispensabile puntare su politiche che qualifichino sempre di più il mondo del lavoro ad esempio con specifici interventi sulla formazione del personale.

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A sostegno di tale teoria si può infatti notare come con l’avvio della crisi nel 2008, soggetti pubblici, fondi interprofessionali e imprese hanno visto nella formazione continua una delle principali misure anticrisi20.

Le aziende maggiormente esposte a difficoltà produttive e di mantenimento delle quote di mercato hanno puntato molto sull’aggiornamento e la riqualificazione dei lavoratori occupati, visti come una possibile leva di mantenimento dell’occupazione e di rilancio complessivo della strategia imprenditoriale.

Pur subendo grossi danni dalla crisi le imprese hanno cercato di mantenere quanti più lavoratori possibili nel sistema produttivo e in ciò in buona parte sono state aiutate dall’intervento pubblico, regolato attraverso l’accordo Stato-Regioni del 2009 e confermato dall’Intesa per gli anni 2011-2012. Con tale accordo si è deciso di destinare una parte rilevante delle risorse dei Programmi Operativi Regionali finanziati dal Fondo Sociale Europeo ad integrare i sostegni al reddito della cassa integrazione e della mobilità.

Dall’altra parte si sono succeduti interventi di politica attiva fra i quali la formazione ha acquistato un ruolo di primo piano.

Da segnalare inoltre il finanziamento fornito dai Fondi Interprofessionali a imprese e territori in particolari situazioni di criticità.

Tali Fondi21 hanno rivolto il loro intervento ad una platea di beneficiari più ampia rispetto a quella tradizionale e ci si riferisce in particolare ai lavoratori temporaneamente sospesi oppure con una riduzione temporanea dell’attività, magari con contratti non standard quali apprendisti e lavoratori a progetto.

La rilevanza dell’attività dei Fondi è risultata sempre più evidente in quanto, alla storica difficoltà di affermazione di una cultura della formazione continua fra le imprese ed i lavoratori, si è accompagnato un progressivo calo degli investimenti in attività formative da parte delle aziende, attentissime ad un continuo taglio dei costi per la disperata ricerca di un pareggio di bilancio ove non fosse possibile un surplus, ignare però di dare così un duro colpo alla loro stessa produttività e competitività sui mercati internazionali.

20

Per un’analisi approfondita su tali interventi formativi e sul loro ruolo cruciale nell’attuale contesto vedi Ires, Le Piccole Medie Imprese ai tempi della crisi – Politiche per PMI, impatto della crisi e ruolo della formazione continua, rapporto di ricerca n. 07/2011, settembre 2011.

21

Per un’analisi più approfondita condotta dall’Isfol sulla strategia intrapresa dai Fondi e sull’entità del loro intervento vedi Ires, Le Piccole Medie Imprese ai tempi della crisi – Politiche per PMI, impatto della crisi e ruolo della formazione continua, rapporto di ricerca n. 07/2011, settembre 2011.

(23)

Qualche dato fornito dall’Istat Forze Lavoro può aiutare a comprendere l’entità della riduzione di spesa nella formazione.

Per effetto della crisi, nel 2009 rispetto al 2008, si è assistito ad un forte calo della partecipazione degli adulti alle attività formative, stimato attorno al 13%, in particolare a diminuire è stato il coinvolgimento ai corsi finanziati direttamente dalle imprese. Nel 2009 solo il 35% dei lavoratori occupati in aziende con meno di 10 addetti hanno partecipato ad attività formative organizzate dalle stesse imprese nelle quali prestano la propria attività, si tratta di una percentuale che tende a crescere all’aumentare della dimensione dell’impresa e in funzione dell’area territoriale, con una preponderanza del nord ovest ed un deciso sottodimensionamento del sud22.

Le PMI che hanno colto la rilevanza di tale strumento hanno rivolto la formazione in particolare verso le tematiche dell’informatica e della formazione tecnologica, a cui seguono quelle della qualità, della sicurezza (vista fra l’altro la sua obbligatorietà) e quelle dell’innovazione dei processi e delle tecniche di produzione.

Considerando che spesso le iniziative formative centrate sulla sicurezza sono state volte più che altro ad occupare temporaneamente lavoratori in situazioni di criticità è ovvio ritenere che le PMI che hanno rivolto i propri investimenti formativi anticrisi su tematiche legate ad informatica, tecnologia e tecniche di produzione hanno sicuramente evidenziato un profilo innovativo più accentuato che attraverso la riqualificazione dei lavoratori ed un rinnovamento del sistema di competenze interne, sviluppi l’innovatività e aumenti la competitività aziendale.

Una delle grosse pecche del sistema formativo però è che è ben poco sviluppata la certificazione delle attività realizzate.

Tutto ciò non fa che confermare quanta fatica faccia tale aspetto ad affermarsi nel contesto italiano e ciò non può che incidere negativamente sulla prospettiva di un salto di qualità della formazione continua finanziata dai Fondi interprofessionali.

L’indagine Indaco evidenzia come a livello nazionale è ancora altamente elevata la quota di iniziative formative che non si concludono con il rilascio di un titolo che certifichi le competenze acquisite dai partecipanti. Quando tali riconoscimenti sono presenti di fatto provengono da parte dell’organismo che ha attuato la formazione, si tratta quindi di una certificazione interna ma quello che realmente manca è una certificazione da parte di soggetti terzi.

22

(24)

Tutto ciò si spiega con una non adeguata presenza del soggetto certificatore pubblico e in particolare ci si riferisce alla regione la quale potrebbe essere portatrice di terzietà e di conseguenza garante del risultato professionale raggiunto.

Altro ostacolo a ciò è rappresentato dall’oggettiva difficoltà dell’affermarsi della formazione continua quale strumento anticrisi forte nelle mani delle PMI.

Uno dei settori profondamente interessati dalla crisi è stato quello manifatturiero, perché assai esposto alla concorrenza internazionale, è questo un ambito nel quale la presenza delle PMI è particolarmente radicata.

Si tratta di un settore nel quale le conseguenze negative della crisi si sono avvertite molto più che in altri23.

Nonostante però il tema sia attuale e di rilevante interesse, scarsi sono gli studi in materia e le PMI pur rappresentando una realtà importante non hanno visto loro rivolta la giusta attenzione. Questo è accaduto sia a causa di approcci teorici che enfatizzano il ruolo dei big business che per oggettive difficoltà operative legate al fatto che la recessione rappresenta un fenomeno recente, sorto nel 2008, non supportato quindi né da studi comparativi né da dati affidabili e dettagliati relativi ai suoi effetti ed in particolare a quelli prodotti sull’universo peculiare e talvolta meno noto delle PMI. La maggioranza delle imprese dell’UE è proprio rappresentata da PMI le quali sono una primaria risorsa occupazionale ed una forte motrice di sviluppo e innovazione. Quelle italiane sono circa il doppio di quelle francesi e più del doppio di quelle tedesche, di quelle spagnole e di quelle del Regno Unito. Non a caso infatti nel periodo 1998-2007 le PMI hanno prodotto significativi risultati in termini di fatturato, valore aggiunto ed esportazioni.

Si tratta inoltre di un modello d’impresa che evidenzia un’efficienza superiore rispetto alla media nazionale ed una spiccata concentrazione nelle aree più industrializzate. Il punto di forza di questa tipologia d’impresa sta nel fatto che la frammentazione del processo produttivo delle grandi aziende, sempre più decentrato e delocalizzato, facilita la nascita e lo sviluppo di piccole realtà le quali, proprio grazie alle loro piccole dimensioni ed ad una gestione più snella e flessibile, riescono ad entrare in mercati nuovi e spesso distanti o a svolgere attività complesse e sofisticate.

23

Per un maggiore approfondimento della crisi nel settore manifatturiero vedi Ires, Le Piccole Medie Imprese ai tempi della crisi – Politiche per PMI, impatto della crisi e ruolo della formazione continua, rapporto di ricerca n. 07/2011, settembre 2011.

(25)

Nello scenario economico moderno globalizzato e costantemente dominato da nuove sfide competitive, le PMI rappresentano una forma organizzativa particolarmente adatta a dare le giuste risposte al mercato in quanto coniugano specializzazione produttiva, buone competenze tecniche e massima flessibilità organizzativa con una evidente crescita delle realtà più dinamiche e virtuose.

Come dicevamo altro fondamentale tassello per sopravvivere alla crisi è il controllo dei costi al fine di raggiungere il pareggio di bilancio ove non fosse possibile il tanto sospirato surplus. Tale operazione che richiede lo sviluppo di un buon sistema informativo interno, permette di destinare al meglio le risorse disponibili tagliando i costi non necessari alla sopravvivenza dell’impresa stessa.

Negli ultimi decenni è molto cresciuto l’interesse nei confronti delle tecnologie dell’informazione, viste non solo come supporto indispensabile ad un adeguato controllo dei costi ma anche come una delle strategie concorrenziali per emergere in un mercato sempre più agguerrito. Esse infatti in prima battuta permettono un aumento di produttività ma col passare del tempo aiutano ad acquisire maggiore competitività sui mercati grazie alla disponibilità di informazioni in tempi brevi, al miglioramento del servizio offerto ai clienti con riferimento a tempi di produzione e di consegna, ad una più elevata flessibilità decisionale con la possibilità di valutare un numero maggiore di alternative ed un migliore utilizzo e controllo delle risorse24.

Un sistema informativo adeguatamente sviluppato è alla base di una buona scelta sugli investimenti più appropriati da effettuare.

Qualsiasi investimento aziendale infatti, inclusi anche quelli nel settore delle tecnologie dell’informazione, deve essere adeguatamente giustificato con un’opportuna analisi

costi/benefici25.

L’imprenditore prima di optare per un qualsiasi investimento deve valutare a cosa lo porterà e per farlo non può che utilizzare tale strumento di ricerca.

Deve considerare i legami presenti fra i costi sostenuti, i volumi produttivi realizzati e i risultati economici conseguiti26.

La gestione economica di un’impresa ha come obiettivo l’equilibrio economico. Questo viene raggiunto se in un dato periodo di tempo (per comodità è preso come riferimento

24

Per un’analisi più approfondita vedi Bracchi G. Informatica e Competitività, Mondadori Informatica 1992.

25

L’analisi costi benefici (cost-benefit analysis) indica genericamente l’insieme delle tecniche di valutazione dei progetti di investimento basate sulla misurazione e sulla comparazione di tutti i costi ed i benefici direttamente e indirettamente ricollegabili agli stessi.

(26)

l’esercizio amministrativo) i ricavi coprono i costi e consentono inoltre la remunerazione dei capitali investiti.

Tale equilibrio non può essere conseguito quotidianamente perché mentre alcuni costi e ricavi hanno una distribuzione abbastanza uniforme nel tempo altri si manifestano in modo irregolare. Alcuni costi ad esempio hanno natura pluriennale e si manifestano molto prima e in modo rilevante rispetto al realizzarsi del ricavo correlato.

Per controllare e gestire i costi in modo più efficace la loro contabilità è organizzata per centri di costo. Tutte le imprese infatti sono organizzate in reparti operativi che svolgono funzioni e compiti diversi e che rappresentano centri di costo specifici cioè piccole imprese all’interno dell’impresa.

Ciascuno di essi opera per raggiungere obiettivi aziendali ed ha una specifica dinamica dei costi da tenere sotto controllo.

Nel proseguo di tale lavoro si evidenzierà come debba essere svolta l’analisi dei costi, per ora ci si limita ad evidenziare quanto questa sia importante in un periodo come quello attuale nel quale le risorse sono limitate ed è quindi necessario destinarle nei settori ritenuti maggiormente strategici e fonti di innovazione e competitività sui mercati internazionali.

Nell’attuale contesto economico le imprese si trovano con sempre meno risorse a disposizione sia a causa dell’aumentato prezzo delle materie prime da immettere nel ciclo produttivo al fine di passare dall’input all’output, sia per la contrazione della domanda in ormai tutti i settori e sia per la difficoltà di riscuotere quanto dovuto al fine di rientrare nei costi sostenuti a monte.

Tutto ciò oltre a comportare una serie di fallimenti non può che intaccare anche le imprese più solide le quali si trovano comunque a dover decidere quali siano i settori che più di altri risultano meritevoli di investimenti.

L’imprenditore saggio infatti non deve tagliare i costi in modo arbitrario ma deve valutare dettagliatamente quali siano quelli necessari per la sopravvivenza dell’intera struttura produttiva.

Un taglio indiscriminato dei costi infatti potrebbe portare ad un risultato opposto a quello sperato e comportare quindi la crisi aziendale.

L’analisi svolta nei successivi capitoli evidenzia come talvolta possa essere necessario l’apporto fornito da un soggetto esperto al fine di valutare quali siano i costi sui quali sia possibile operare e quali invece siano quelli indispensabile per la sopravvivenza dell’intero organismo.

(27)

CAPITOLO 2 – Crisi del 2008 e Grande depressione: due crisi a confronto

2.1 La crisi del ’29: quadro storico

Vista la gravità della situazione economica attuale, sovente capita di far riferimento ad un periodo altrettanto critico quale quello rappresentato dalla crisi del 1929 la quale, partita dagli Stati Uniti, si propagò poi a tutto il mondo occidentale.

Nel presente capitolo si cercherà di mettere in evidenza analogie e differenze fra queste due situazioni.

La crisi del ’29 ebbe come causa scatenante il crollo della Borsa di Wall Street ma in realtà ha radici ben più profonde.

Il 24 ottobre 1929, passato alla storia come giovedì nero, la Borsa di Wall Street invertì la sua rotta con un primo tracollo, dopo anni di crescita sfrenata.

La settimana successiva, il 29 ottobre, noto anche come martedì nero, il prezzo delle azioni di numerose imprese di grandi dimensioni come General Electric precipitò, crebbe il panico fra gli investitori e si ebbe così il vero e proprio crollo.

La Grande Depressione, detta anche crollo di Wall Street, fu una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale provocando ripercussioni anche nei primi anni del decennio successivo.

In realtà però il crollo della borsa, più che la causa della crisi, fu il segnale di una situazione già in atto e con origini lontane.

La vera e propria causa della crisi andava ricercata nella prima guerra mondiale e nello sconvolgimento che questa aveva portato nelle relazioni economiche, monetarie e finanziarie.

La fine della guerra aveva cambiato di tanto lo scenario mondiale con il collasso dell’impero asburgico e il nascere al suo posto di altri numerosi stati (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia) i quali avevano adottato politiche protezionistiche27 e di conseguenza limitatrici degli scambi internazionali.

27

Le politiche protezionistiche, se da un lato agevolano il mercato interno grazie all’utilizzo di dazi all’importazione tali da rendere non più vantaggiosi i prodotti esteri, hanno però come contropartita quella di provocare un forte decremento nelle esportazioni perché chiaramente deteriorano le relazioni economiche con gli altri stati.

(28)

La rivoluzione russa aveva comportato l’esclusione dell’economia sovietica dai liberi traffici mondiali, nonché la nascita di altri stati, come la Finlandia e le repubbliche baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia.

Aveva inoltre portato al collasso economico della Germania, a cui il Trattato di Versailles28 aveva imposto il fardello dei debiti di guerra e del pagamento delle riparazioni.

La guerra inoltre aveva frantumato l’equilibrio monetario raggiunto negli anni precedenti.

Prima del conflitto le monete della maggior parte degli stati occidentali erano molto vicine alla loro parità legale e i valori interni delle singole valute erano solidamente legati all’oro che rappresentava l’unità di misura internazionale.

Nel periodo della guerra tutti gli stati avevano ecceduto nell’emissione di carta moneta, ad eccezione degli Stati Uniti che erano riusciti a mantenere inalterata la convertibilità del dollaro in oro (Gold Standard)29.

Per misurare il danno subito invece dalle altre monete bastava guardare il loro cambio con il dollaro.

Prima della guerra la Gran Bretagna aveva rappresentato il banchiere del mondo e la sua moneta, la sterlina, era il pilastro del sistema monetario internazionale tant’è che tutti i prodotti erano prezzati in sterline.

La Gran Bretagna rappresentava anche il principale polo assicurativo del mondo con i famosissimi Lloyd’s30 di Londra e costituiva inoltre il principale centro del mercato dei noli per via dell’imponente flotta mercantile di cui disponeva.

Impegnata però a supportare le necessità legate alla guerra, trascurò l’aggiornamento tecnologico dell’apparato produttivo facendolo così divenire meno concorrenziale. Nello stesso tempo il Paese, impegnato nelle operazioni belliche, aveva trascurato anche parte dei mercati mondiali, lasciando maggiore spazio sia ad alcuni dei suoi domini come l’India, sia ad altre nazioni come gli Stati Uniti e il Giappone.

28

Il Trattato di Versailles impose alla Germania oltre alla perdita delle colonie e di parte del territorio anche al pagamento di 132 miliardi di marchi.

29

Il sistema aureo (Gold Standard in inglese) è un sistema monetario nel quale la parità è data da una quantità fissata d’oro. La conseguenza di fissare il valore della moneta su una quantità d’oro è la presenza di cambi fissi tra monete. Il cambio tra le monete dipende dal rapporto fra la quantità d’oro sottostante a ciascuna di esse.

30

I Lloyd’s noti anche come Lloyd’s di Londra, costituiscono un mercato di assicurazioni del Regno Unito che riesce a gestire il rischio ed in parte ad annullarlo ripartendolo su un grande numero di operatori. Si fanno da promotori di accordi fra persone (Names) e aziende che riunite in pool riescono a suddividersi grandi rischi altrimenti troppo onerosi per una sola società di assicurazione.

(29)

L’Inghilterra alla fine della guerra appariva quindi visibilmente indebolita dal punto di vista finanziario, produttivo e monetario e il terreno perso dal Paese era stato invece acquistato dagli Stati Uniti, i quali erano cresciuti economicamente e finanziariamente trasformandosi da debitori in creditori dell’Europa.

Mentre quindi il mercato finanziario di New York procedeva a vele spiegate, quello di Londra perdeva sempre più forza con conseguenti sempre maggiori difficoltà di accesso al credito, tanto da arrivare ad indebolire le sue riserve auree.

Nel 1920 la sterlina venne svalutata del 22% rispetto al dollaro ma per evitare di affievolire il prestigio dell’Inghilterra non si riconobbe il mutamento di tale rapporto, furono quindi adottate delle politiche deflazionistiche volte a stabilizzare la valuta alla nuova parità.

Si riuscì così a ripristinare il rapporto con il dollaro alla parità prebellica nel 1925, con un ritorno alla convertibilità aurea sia pur integrata dall’apporto di monete forti (Gold Exchange Standard31).

L’attuazione di questa politica deflazionistica portò ad una caduta dei prezzi interni, dei tassi di profitto e di quelli di interesse rispetto a quelli esteri e indebolì le esportazioni favorendo largamente le importazioni.

L’economia britannica scivolò così in una grave crisi dai forti risvolti sociali quali l’estenuante sciopero dei minatori del 1926.

Gli Stati Uniti vissero invece una situazione profondamente diversa perché attraversarono un periodo di boom ininterrotto fino al 1929, con due sole eccezioni nel 1924 e nel 1927.

Il grande sviluppo dell’economia americana fu stimolato da vari fattori, l’espansione dell’industria edilizia e di quelle ad essa collegate, una serie di innovazioni basate sullo sfruttamento di nuovi prodotti, come ad esempio l’automobile e delle industrie ad essa collegate, lo sviluppo dell’industria elettrica la cui produzione raddoppiò tra il 1923 e il 1929 e il notevole impulso alla razionalizzazione dei processi produttivi grazie all’adozione di produzioni di massa nelle industrie e di un’organizzazione scientifica del lavoro detta anche taylorismo32 mirante ad eliminare i tempi morti e a ridurre al minimo

31

Gold Exchange Standard è una locuzione inglese largamente usata per indicare il sistema monetario in cui la valuta con corso legale è convertibile ad un prezzo stabilito in divise estere a loro volta convertibili in oro.

32

Il taylorismo è una teoria riguardante il management esposta da Frederick Winslow Taylor nella sua monografia del 1911 The Principles of Scientific Management (L’organizzazione scientifica del lavoro). Taylor organizzava il modello lavorativo in tre fasi, nella prima analizzava le caratteristiche della mansione da svolgere, nella seconda creava il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione e

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