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L’impresa etica oltre l’homo oeconomicus

4. Innovazione nell’organizzazione: I nuovi modelli organizzativi

4.5 Nuove culture d’impresa

4.5.1 L’impresa etica oltre l’homo oeconomicus

In “Responsabilità nell’Impresa” (Ambrosoli U., Calabrese A., Corbetta G., Vitale M., 2010) -un piccolo volume che raccoglie gli interventi di esperti in materia di cultura d’impresa- si

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legge il contributo di Vittorio Coda il quale ricorda la «missione aberrante» dichiarata dal capo di azienda di General Morotors durante gli anni ’70: «General Motors non era nel business di fare automobili, ma in quello di “fare denaro”» (pag. 70). Coda conclude dicendo che in quel caso General Motors si trovava nel bel mezzo di una crisi di senso. Quanto appena riportato è molto significativo poiché introduce la questione della missione di impresa. L’opinione comune e le tradizionali teorie economiche accostano il termine “impresa” alla generazione di profitto economico operando così una scissione tra sfera economica e sfera morale. Accostare economia ed etica è però fondamentale e tale armonizzazione dovrebbe essere sentita come una necessità, non come un assurdo paradosso. Come si ha avuto modo di approfondire, nella società della conoscenza, l’impresa ha un ruolo decisivo nella società e alla luce di questa profonda correlazione, l’etica deve rientrare nel dominio di azione dell’economia:

del resto, l’impresa è sociale, nel senso che essa ha influenza sulla società e il microcosmo delle relazioni economiche è incluso nel macrocosmo delle relazioni sociali, territoriali, culturali: l’impresa fa cultura, condiziona i comportamenti, studia le preferenze ma anche cerca di indurle, utilizza risorse, entra in relazione con la molteplicità di soggetti e tutto ciò consente di mettere in dubbio la convinzione che essa debba render conto del proprio operato soltanto agli azionisti. (La Torre, 2009, Pag. XVIII).

A proposito è interessante notare quanto scrive Ghosal (2005, pag. 55 in La Torre, 2009, pag. XVIII) in merito al rapporto che lega impresa-azionisti e impresa-dipendenti. Quest’ultimi sono in gran lunga più coinvolti nell’impresa cui partecipano in termini di rischi essenzialmente per due motivi:

1. è molto più semplice vendere le azioni che cambiare lavoro;

2. sono più importanti i contributi dei lavoratori in termini di conoscenza e abilità che il capitale degli azionisti. (pag. 55)

Queste riflessioni conducono verso il lavoro di ricerca di B. Rossi (2012) che all’interno del suo libro spiega la natura delle organizzazioni mettendo in risalto il fatto che la loro componente fondamentale sia determinata dal “fattore umano”. Secondo quanto sostenuto dall’autore infatti, l’organizzazione esiste solo in quanto entità costituita da agenti partecipanti. La questione riporta alla domanda posta nella prima parte di questo elaborato, in cui ci si chiedeva se, nel prossimo futuro, le macchine saranno così intelligenti da

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appropriarsi del lavoro degli umani. La risposta si scopriva essere negativa in virtù del fatto che ciò che si denomina “fabbrica” o “azienda” è prima di tutto un costrutto dell’uomo ed è un’organizzazione che senza di esso perde il suo significato. Di fatti, nei contesti di innovazione e di lavoro del futuro vi è la valorizzazione di tutto quello che è comunicazione, condivisione, lavoro di gruppo. Proprio perché emerge questa tipologia di competenze ed insieme ad esse la dimensione più umana dei lavoratori, risalta con chiarezza la dimensione morale del lavoro e, conseguentemente, il suo contenuto etico.

Attribuire ad un’azienda i caratteri dell’eticità in quanto organizzazione composta da persone che si rivolge alle persone, implica che quest’ultime vengano considerate prima di tutto come agenti morali. Si riconosce allora il punto d’accordo con la filosofia di Kant (1787) secondo la quale ogni individuo umano -in quanto dotato di ragione- trova il principio morale dentro di sé. Qui la legge morale diventa un imperativo categorico indipendente da condizioni esterne e unicamente correlato all’esercizio della volontà. La legge morale è universale ed è costituita dalla volontà di agire nella maniera in cui vorremmo agissero anche gli altri in situazioni simili. In virtù dell’essenza morale degli individui, l’imperativo categorico che sorregge le regole etiche dice a priori ciò che è giusto fare. Le implicazioni di questa teoria sono davvero rilevanti: c’è da notare che secondo Kant il bene deriva dalla legge morale (e non viceversa), ma c’è da chiedersi se un’etica aprioristica, che prescinda dalle variabili ambientali, possa essere adatta al governo di un’impresa. La questione è articolata ed è innegabile la presenza di un’eterogeneità di situazioni. Però, ciò che si deve mettere in risalto è la presenza -nel pensiero di Kant- dell’esistenza di una morale insita nella natura dell’uomo da cui deriva una massima determinante: trattare l’altro sempre come fine e mai come mezzo. Quanto appena enunciato ha importanti implicazioni nella gestione delle risorse umane perché, proprio in virtù dell’essenza morale appartenente ad ogni individuo razionale, non vi è nessun tipo di legittimazione nel trattare gli altri in funzione di qualcos’altro. Dato che ognuno ha un fine in sé, l’ottica di un’impresa atta alla massimizzazione dei profitti si scopre essere un concetto del tutto da rivedere. Si esce quindi dalla logica secondo cui le azioni sono giudicate morali in seguito alle loro conseguenze (utilitarismo) e si entra in un contesto in cui le persone vengono riconosciute come agenti morali, di qui l’enfatizzazione di equità e imparzialità. È in questa direzione che Totaro F. (1998) definisce il nesso tra convenienza economica e convenienza sociale: come già detto i due concetti sono dipendenti e ricorsivi e, facendo capo alla tesi di Totaro, nella loro relazione cresce la solidarietà:

38 prima ancora di essere una parola di ordine morale, la solidarietà è la lettura dell’esistente e la sua valorizzazione. L’economia è sempre solidale con l’intero agire degli uomini. Si tratta di dare qualità a questo nesso ovvero si tratta di fare in modo che l’economia, uscendo dalle secche del produttivismo e da una visione ristretta dei costi e dei benefici, divenga produzione della qualità sociale e sia capace di dare spazio alle risorse di tutti e di ciascuno. Certo, qui l’economia viene forzata ad andare oltre le attuali rigidità. (pag. 287).

Alla luce di queste considerazioni, ciò che si vuole sostenere è l’intrinseca eticità-socialità propria dell’uomo semplicemente in quanto uomo. Non si può lasciare che l’antropologia sia associata all’egoistico auto interesse: per parlare di capacitazioni, libertà e lavoro innovativo diventa indispensabile superare la limitata interpretazione dell’uomo come soggetto che vive meramente di scambi in vista della sola utilità.