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Incertezza variabilità e flessibilità

5. Il lavoratore generativo nei contesti di innovazione

5.3 Incertezza variabilità e flessibilità

Gli aspetti del lavoro contemporaneo sono stati espressi in termini di una positiva flessibilità che testimonia la proattività e l’aumento motivazionale degli agenti al lavoro. Si è più volte sottolineato il tessuto reticolare e complesso in cui prende forma la società della conoscenza e il modello di lavoro che la caratterizza ma, per riuscire a fornire un quadro completo della trasformazione lavorativa che si sta attraversando, è doveroso anche sottolinearne gli aspetti di maggiore preoccupazione. I sentimenti pessimistici o negativi sono più che comprensibili e legittimi accompagnatori in un mondo che abbandona qualcosa di noto per dirigersi verso soluzioni che, fino a poco tempo fa, sembravano essere davvero improbabili. In questo senso la “flessibilità” non è accostata a qualcosa di positivo ma diventa sinonimo di precarietà. Un mondo in cui la “produzione” dell’immateriale acquisisce sempre più importanza, «ci informa sullo scioglimento del solido rapporto che teneva ancorati, l’uno all’altro, fino a poco tempo fa, capitale e lavoro.» (Bauman Z. 2002 in D’aniello F., 2017, capitolo 1). La società della conoscenza privilegia un capitale intellettivo, intangibile che si oppone al rigido capitale del passato il quale, normalizzato da precise delimitazioni spazio-temporali, riusciva a creare un compromesso di stabilità con il lavoro. Proprio in virtù della natura polisemantica e cognitiva della knowledge society si assiste ad una mutazione del rapporto tra il capitale e il lavoro all’interno del quale quest’ultimo appare incerto, deteriorato o, per dirlo con un termine appartenente alla filosofia di Bauman (2002), diventa liquido. Il filosofo polacco definisce il lavoro liquido perché in balia di un’incertezza finanziaria globale. L’operaio come il manager vivono con angoscia e paura un ambiente lavorativo che si muove sulla possibilità di un inaspettato «tracollo finanziario che possa indurre ad un licenziamento improvviso, di un datore di lavoro che paventi una delocalizzazione, di un collega che possa avanzare nelle

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preferenze datoriali, di una novità tecnologica che possa rendere obsoleto l’apporto umano, ecc. E la paura si trasforma ancora una volta in ripiegamento su di sé, in competizione e in solitudine.» (Bauman Z., 2014 in D’aniello F., 2017, capitolo 1).

Lo scenario che prospetta Bauman non è di certo confortevole ma è doveroso esporlo come aspetto facente parte della società contemporanea. Certamente questo non implica nessuna contraddizione con quanto scritto fino ad ora perché, come si tenterà di dimostrare, nonostante sia effettivamente riscontrabile che in seguito alla digitalizzazione delle fabbriche -e al ben più ampio scenario costituito dalla knowledge economy- esistano delle situazioni di precarietà che impressionano perché testimoni tangibili dei cambiamenti in atto, è pur vero che, per saper affrontare a pieno le modificazioni che stanno attraversando il mondo del lavoro contemporaneo, vi è la necessità trovare strategie che possano essere di aiuto per fronteggiare l’instabilità proclamata da Bauman. Per esempio, analizzando la questione dell’occupazione vi sono punti di vista discordanti: studiosi che sottolineano come oggi esistano professioni grazie alla tecnologia che in passato non erano nemmeno immaginabili, e chi attribuisce alla tecnologia la colpa di aver tolto gran parte del lavoro:

Ad esempio, argomenta Mokyr, nel 1914, nessuno avrebbe potuto immaginare occupazioni come i programmatori di videogiochi o gli addetti alla cyber sicurezza, i personal trainers e i fisioterapisti, i consulenti dei social media e i commentatori sportivi televisivi, tutte professioni create dalle nuove tecnologie. Sembra dunque plausibile che anche il futuro crei occupazioni che non si possono nemmeno immaginare. La tecnologia sembra dunque in grado di continuare a creare nuove attività e sembra anche in grado di rispondere ancora alla crescita del tempo libero permesso dalla maggiore produttività nella produzione manifatturiera, con la impressionante crescita della scelta di programmi TV, l'aumento del turismo di massa, la nascita e la diffusione di un gigantesco complesso industriale di spettacolo-sportivo ad alta tecnologia, locale e globale. (Giannetti R., 2018, capitolo “la terza rivoluzione industriale”).

Alcuni impieghi cominciarono invece ad essere del tutto automatizzati già molto prima del programma di Industria 4.0:

Questo processo ebbe inizio con i primi usi commerciali dei computer negli anni ’60 e continuò con lo sviluppo di Internet e dell’e-commerce negli anni '90, fino alle piattaforme social nella prima decade del XXI secolo. Le società dei telefoni furono le prime a sostituire gli operatori con attrezzature fisse; i robot industriali – introdotti dalla General Motors negli anni ’60- sostituirono gli operai non qualificati nella grande impresa di tutti i paesi avanzati negli anni '60 e'70; le tecnologie self-service cominciarono a diffondersi nei servizi a partire dalle aerolinee per espandersi, negli anni ’80, ad altre attività di scrittura e calcolo con i personal computer. Contemporaneamente cominciarono a

60 diffondersi i codici a barre nelle operazioni di archiviazione, nella distribuzione e nella logistica, e il bancomat nelle operazioni di cassa delle banche. (Giannetti R., 2018, capitolo “La terza rivoluzione industriale”).

Alla luce di questi esempi sembra che il pericolo di contraddizione sia in agguato e una volta ammessa la possibilità di avere di fronte due visioni opposte della stessa realtà, l’unica cosa che probabilmente si può considerare come innegabile inerisce al cambiamento che ha invaso il mondo del lavoro. In questo senso le parole di Loiodice sono importanti: «In realtà, quello su cui occorrerebbe riflettere è la necessità di “guardare al lavoro” con moduli interpretativi e con atteggiamenti profondamente diversi rispetto a quelli con i quali abbiamo interpretato e vissuto il lavoro nella società industriale moderna, ridefinirne operativamente senso e significato nella società contemporanea.»” (Loiodice, 2004, p. 39 in Colaci A., 2017, capitolo 3).

In questo scenario la pedagogia del lavoro si deve collocare come possibilità di riflessione in merito alla centralità dell’umano nel farsi lavorativo. Per questo, ciò verso cui essa deve rivolgersi non è una tipologia di apprendimento «finalizzato esclusivamente all’occupabilità, quanto piuttosto quella di formare, per così dire, la persona a vivere nel sociale e lavorare per il bene comune, nel massimo rispetto reciproco e dignità personale.» (Colaci A, 2017, capitolo 3.).

Secondo Rifkin (2014) lo scenario lavorativo contemporaneo e del prossimo futuro è talmente cupo da definire il lavoro “finito” ma alla luce di quanto appena esposto, accostare il termine “fine” al contesto lavorativo è fuorviante perché il lavoro non è finito bensì cambiato. Isidori E., De Santis M. G. (2017) escludono che l’avvento dell’era digitale comporti la fine del lavoro e scrivono:

Non sarà, forse, che nella società e nella cultura contemporanea non è il lavoro (inteso come attività e pratica retribuita rivolta alla produzione di qualcosa che può essere comprato o venduto o scambiato) ad essere finito, ma ciò che è realmente finita e terminata è una certa “ideologia” del lavoro così come si era andata delineando e strutturando nella storia occidentale e al cui sviluppo nella modernità le teorie marxiste e capitaliste hanno dato un notevole contributo. (Isidori E., De Santis M. G. 2017, capitolo 2).

Costa M. (2011) scrive che i cambiamenti più importanti che investono le pratiche lavorative riguardano diversi aspetti, tra i più rilevanti vi è la natura stessa del rapporto di lavoro il quale è costellato da una moltitudine di contratti lavorativi che, a differenza del passato, non sono stabili né in termini di durata contrattuale né per quel che riguarda l’orario e lo spazio di lavoro. Si tratta di prestazioni occasionali e/o collaborative delimitate temporalmente, di

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contratti a progetto, a chiamata. La diretta conseguenza della destrutturazione contrattualistica alla quale si era abituati incide direttamente sul tempo e lo spazio del lavoro. L’aspetto spazio-temporale è portavoce di una profonda modificazione in ambito lavorativo. Per quel che riguarda lo spazio si è già detto come esso cambi in seguito all’introduzione delle tecnologie creatrici di luoghi virtuali (wiki, intranet). Le piattaforme online che permettono il lavoro a distanza si connettono direttamente «alla frammentazione dell’impresa sul territorio e alla riduzione della dimensione aziendale.» (Costa M., 2011, pag. 121.) Viene reso possibile allora il lavoro da casa con il grande pericolo di non riuscire a differenziare la sfera privata e affettiva da quella professionale e lavorativa. La massima flessibilità spaziale incide nettamente sul tempo che si può dedicare all’azione lavorativa e un esempio concreto è quello già citato della domestication. In aggiunta, dentro questa rivoluzione, il tempo di lavoro è sempre di più organizzato su turni che gravano sia sui naturali ritmi circadiani dell’individuo sia sulle relazioni sociali:

Il lavoratore turnista, in particolare se deve lavorare anche di notte, incontra particolari difficoltà nei suoi rapporti con la famiglia, con gli amici, con l’usufruire dei servizi sociali, nel partecipare alla vita sociale. Il tempo della vita extra-lavorativa è, come quello del suo lavoro, atipico e asincronico rispetto al sistema dei tempi dominante. (Basso P., 2011, pag. 92).

Tutti questi cambiamenti, molto incisivi sui ritmi e modelli di vita di qualsiasi lavoratore, sono la diretta conseguenza di quello che può essere considerato il mutamento lavorativo più importante ovvero quello inerente al contenuto e alle modalità di svolgimento del lavoro stesso. In seguito all’espansione e valorizzazione del capitale immateriale e della conoscenza ad esso correlata, si assiste al passaggio da «una divisione taylorista del lavoro ad una divisione cognitiva del lavoro. In questo quadro, l’efficacia produttiva non riposa più sulla riduzione dei tempi operativi necessari a ciascuna mansione, ma si fonda sui saperi e la polivalenza di una forza-lavoro capace di massimizzare la capacità d’apprendimento, d’innovazione e d’adattamento a una dinamica di cambiamento continuo.» (Negri A., Vercellone C., 2007, pag. 50) Gli autori citati sottolineano come l’affermarsi del modello di società della conoscenza comporti cambiamenti profondi a tutta la struttura lavorativa. Si può affermare che i tre cambiamenti analizzati come portatori di un’instabilità inconsueta (modificazioni nel rapporto di lavoro e nella sua gestione spazio-temporale) siano direttamente connessi alla sfida contemporanea che vuole, attraverso l’innovazione, trasformare la rappresentazione e il senso del lavoro. È chiaro che in un contesto in cui il valore è dato dalla conoscenza si parli di capitale immateriale e che quest’ultimo, di natura totalmente differente rispetto a quello fordista, sia regolato da un complesso di norme in divergenza rispetto al citato modello

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passato. A. Negri e C. Vercelli (2007) propongono di leggere la modificazione spazio- temporale del lavoro proprio in quest’ottica:

Nel paradigma energetico del capitalismo industriale, il salario era la controparte dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata, messa a disposizione dell’impresa. Il datore di lavoro, nel quadro di questo tempo di lavoro, doveva occuparsi di trovare le modalità più efficaci per l’uso di quel tempo pagato, al fine di strappare dal valore d’uso della forza- lavoro la più grande quantità possibile di pluslavoro. Evidentemente tutto ciò non avveniva spontaneamente, poiché capitale e lavoro hanno per essenza interessi contraddittori. I principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, attraverso l’espropriazione del sapere operaio e la rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni, costituirono a suo tempo una risposta adeguata a questa questione decisiva. Ma tutto cambia quando il lavoro, diventando sempre più immateriale e cognitivo, non può più essere ridotto ad un semplice consumo di energia effettuato in un tempo dato. Il vecchio dilemma, concernente il controllo del lavoro, riappare in forme nuove. Il capitale non solo è divenuto dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme delle conoscenze e dei tempi di vita dei salariati. (pag. 51)

Il cambio di direzione che la knowledge economy imprime alle pratiche lavorative è di enorme portata e, accanto ai suoi aspetti di flessibilità destabilizzanti, è doveroso enuclearne anche gli aspetti più positivi, portavoce di una valorizzazione del lavoro in termini di libertà e autonomia. In questo scenario sono richieste, come già ampliamente tematizzato, competenze generative custodi al loro interno di una forte valorizzazione antropologica. Il fare macchinoso fordista privo di qualsiasi forma di umanità lascia spazio alle «qualità squisitamente umane» e l’azione lavorativa si fonda sull’investimento «della personalità e dei suoi talenti, sulla disponibilità emotiva, relazionale e comunicativa, sulla conoscenza e sull’apprendimento, sulla riflessività, sulla creatività, sulla sensibilità estetica.» (D’aniello F, 2017, pag. 23). Sono proprio le qualità citate che devono essere messe in pratica per gestire i cambiamenti inerenti allo spazio, al tempo e di modificazione contrattualistica. Lo scenario si fa quindi sempre più complesso ed è difficile incasellarlo dentro regole standardizzate perché il nuovo modello di lavoro risulta correlato al contesto in cui opera l’agente e, conseguentemente, connesso alle persone che lo compongono. Di qui la necessità che i lavoratori tutti abbiano una forte consapevolezza di sé e siano proattivi nei confronti di una società che ha anche i caratteri dell’instabilità. Come risposta agli elementi di precarietà emerge la necessità di una formazione che prevede e insegna l’apprendimento lungo tutta la vita, connettendo quest’ultimo alla capacità di apprendere ad apprendere.

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Conclusione

Essere un lavoratore generativo significa vivere la dimensione lavorativa come una pluralità che accoglie al suo interno anche dimensioni sociali e culturali. Come si ha avuto modo di analizzare, se da un lato è l’azienda che riconosce la sua parte di attiva responsabilità nella società (RSI, welfare aziendale), al lavoratore che ne partecipa è richiesto di non lavorare solo in vista del mezzo di scambio. Dati per assodati i cambiamenti a livello economico e sociale, la rivoluzione lavorativa contemporanea si colloca oltre la rivoluzione tecnologica. È innegabile che l’introduzione di così tanta tecnologia in tempi molto brevi abbia innescato profondi cambiamenti organizzativi all’interno delle filiere, ma ciò che si cerca di dimostrare è che in seguito alla loro introduzione al lavoratore è richiesto qualcosa in più e non in meno. Nel corso della trattazione le attitudini innovative verranno ampliamente tematizzate ma per il momento è utile comprendere che il tratto che contraddistingue il lavoratore generativo è quello di significare le esperienze. Affinché possano sussistere sani e prolifici contesti di innovazione il necessario sfondo nel quale essi si devono muovere è sostenuto da una “formazione allargata” perché volta anche all’inclusione di aspetti sociali e culturali. In accordo con Loiodice I. (2017) si può sostenere che la formazione serve ad:

attrezzare cognitivamente ed emotivamente le persone nella gestione e nel buon governo delle transizioni, a volgerle proficuamente a vantaggio del proprio benessere e delle comunità delle quali si è parte, via via allargate in dimensione mondiale, a sentirsi persone, professionisti e cittadini del mondo capaci di fronteggiare le crisi, termine che nel suo significato etimologico rinvia proprio alla capacità di valutare, di discernere e quindi di assumere decisioni, di scegliere, attivamente e proattivamente. La formazione può e deve “insegnare a vivere”, scrive Morin (2014) o ancora meglio, precisa, a “ben vivere”, esercitando quell’“autonomia e libertà della mente” che, coltivata a scuola fin dai primi gradi scolastici, possa rafforzarsi in tutti i contesti di vita e di esperienza, quindi anche nei contesti di lavoro. (capitolo 2).

Si capisce immediatamente la totale divergenza rispetto ad un operare di tipo meccanico. La competenza del lavoratore aumentato si colloca proprio nella valorizzazione dell’agire inteso come prassi. La padronanza di sé e la conoscenza delle proprie competenze saranno anche la chiave per gestire al meglio i momenti di incertezza, quelli che Bauman (2012) definisce “liquidi”. Comprendere cosa vuol dire essere generativo, significa allora entrare in una dimensione in cui la macchina non potrà prendere il posto dell’uomo perché a quest’ultimo è richiesto una dimensione “calda”, trascendentale, che il media tecnologico non possiede. Per completare quanto sostenuto diventa fondamentale tematizzare la dimensione

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antropologica del lavoro e la sua stretta correlazione con la pedagogia. Il lavoratore generativo si connetterà allora alla teoria delle capacitazioni.