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Il lavoratore generativo accanto alle tecnologie: le sfide culturali dello Smart Working e d

5. Il lavoratore generativo nei contesti di innovazione

5.2 Il lavoratore generativo accanto alle tecnologie: le sfide culturali dello Smart Working e d

Le parole di G. Mari (2018) risultano essere un buon punto di partenza per analizzare concretamente cosa significhi, all’interno di un contesto lavorativo, possedere le competenze che permettono al lavoratore di interfacciarsi al mondo tecnologico di Industria 4.0:

La presentazione dell’ambiente in cui si svolge il “lavoro 4.0” sarebbe falsa se dopo aver sottolineato le “tecnologie abilitanti” non si desse uguale rilievo ai “comportamenti umani abilitanti”: la Smart Factory non ha solo bisogno del mix di innovazioni tecnologiche che ho elencato, e dell’intelligenza, della conoscenza e competenza di tutti coloro che interagiscono con queste tecnologie, necessita in particolare del «coinvolgimento» personale di questi ultimi, della loro adesione e concentrazione emotiva nelle attività che svolgono, nei cui confronti non devono sentirsi estranei. (pag.4).

Mari utilizza l’espressione “comportamenti umani abilitanti” creando così un’interessante associazione tra quest’ultimi e le tecnologie abilitanti. Esattamente come le macchine si fanno portatrici di tecnologie smart, così l’uomo che lavora affianco ad esse deve essere portavoce di nuove competenze. Il set di conoscenze che è richiesto a quello che Magone e Mazali (2016) chiamano “lavoratore aumentato” è propedeutico al lavoro a stretto contatto con la macchina. Il nuovo operaio si differenzia da quello del passato perché il suo luogo di lavoro è cambiato a seguito dell’introduzione di macchine che svolgono mansioni prima affidate agli umani. Con questo non si vuole dare seguito a nessuna “tesi disfattista” secondo la quale il futuro riserverà all’uomo un posto in seconda fila perché le macchine saranno così intelligenti da appropriarsi completamente del suo lavoro, ma si vuole sottolineare che se la tecnologia 4.0 è talmente all’avanguardia da riuscire a compiere atti meccanici prima affidati agli umani, sarà inevitabile che quest’ultimi debbano dirigere le proprie forze verso un altro tipo di lavoro. È per questo motivo che la Industria 4.0 conduce il lavoratore verso un nuovo set di competenze. Del resto, non bisogna dimenticarsi che come dice Rullani (2018): «la tecnologia non è un mezzo autoreferente: essa nasce dal lavoro cognitivo degli uomini e ha bisogno di

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ulteriore lavoro cognitivo nel momento in cui deve essere scambiata, condivisa, usata, rinnovata […]» (capitolo 1.).

Al lavoratore “del futuro” sono collegati parecchi aggettivi che non suoneranno nuovi all’orecchio di nessuno. Si tratta di termini come flessibilità, passione, responsabilità, interazione, comunicazione, partecipazione, squadra… parole già sentite che all’interno del paradigma di Industria 4.0 assumono un significato nuovo perché effettivamente realizzabili.14 Infatti, è grazie agli strumenti digitali che il lavoro è reso più flessibile, interagibile, di gruppo. Tutti questi concetti sono completamente assenti nel contesto di fabbrica fordista, all’interno della quale l’uomo-bue compie meccanicamente azioni ripetitive in vista dell’unico scambio per cui effettivamente fa quel che fa: il denaro. Ma, come si è potuto tematizzare all’inizio dell’elaborato, le tecnologie portano le nuove fabbriche ad essere pervase da processi flessibili, processi bottum-up, non top-down. In un contesto simile -in cui vi è un’alta concentrazione di complessità- un lavoratore forgiato su modello fordista è un operaio in totale disarmonia con l’ambiente che lo circonda. I luoghi di lavoro stanno cambiando nella forma e nella sostanza e, a chi ci lavora all’interno, è richiesta prima di tutto adattabilità al nuovo contesto in cui si trova ad agire. Ecco allora che la partecipazione attiva e consapevole è una caratteristica importante del lavoratore aumentato, infatti, come scrive Costa (2017) una direttrice di sviluppo in cui si articola Industria 4.0 è:

l’interazione tra l’uomo e la macchina che, attraverso le interfacce “touch” e la realtà aumentata, accorciano il tempo della scelta del lavoratore e la innestano direttamente nella pratica. L’esito è un’iperconnesione di azioni informazioni - feedback del lavoro e la progressiva scomparsa della reciprocità uomo – macchina basata su routine operative. L’azione lavorativa si organizza maggiormente per il monitoraggio di più fasi, più macchinari, frazioni più ampie del ciclo di produzione. Di conseguenza il fattore chiave diventa la capacità di governare il ciclo, non la singola macchina. Questo si traduce in tre requisiti: livello di conoscenza di base richiesto agli operatori più alto, livelli di partecipazione attiva e vigile alle evoluzioni del ciclo, versatilità. (capitolo 1.).

La citazione appena riporta evidenzia almeno due aspetti piuttosto rilevanti da sottolineare: per prima cosa, essa ricorda che la relazione uomo-macchina non è una novità esclusiva di questa forma di industrializzazione ma ciò che è davvero innovativo è la tipologia di relazione che si è venuta a creare tra i due soggetti: non più una meccanica routine in cui la macchina

14 Le competenze che si sono sommariamente elencate fanno parte delle soft skills. Oggetto di ricerca

della presente tesi, nell’ultima parte dell’elaborato si tematizzerà come nei contesti lavorativi contemporanei e del futuro siano strettamente correlate alla generazione di innovazione.

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esegue compiti al posto di un uomo che si adegua ad essa, bensì – e qui si giunge alla seconda considerazione- una relazione impostata sulla comunicazione. Come si è già detto, il sistema cyber fisico è improntato sulla fusione delle due realtà che lo costituiscono, ed è in virtù di tale collaborazione che diventano fondamentali le capacità di versatilità e di gestione a discapito delle facoltà standard e meccanicamente replicabili. Si è già largamente tematizzato come Industria 4.0 conduca verso una vera e propria rivoluzione delle competenze e al riguardo, Luciano Pero, docente di Organizzazione per il Mip Politecnico di Milano, ha dichiarato che: «Il problema non è solo avere qualche ingegnere e un progettista molto intelligente: sono necessarie nuove forme organizzative in grado di apprendere, di fare sperimentazioni collettive, di sbagliare di correggersi con grande rapidità, di acquisire velocemente nuove competenze». (in Magone A., 2017) Parole del genere riconoscono la necessità della competenza generativa come è stata tematizzata nel capitolo precedente. Il punto focale della questione, che permette di comprendere la portata di Industria 4.0, è che l’innovazione tecnologica richiede necessariamente una rivoluzione anche delle competenze perché per far funzionare una fabbrica forgiata su di un simile modello è di certo necessario ma non sufficiente comprare la tecnologia. Il passo fondamentale lo compie chi ci lavora all’interno: ciò che è richiesto ai lavoratori tutti è di comprendere come interagire con le tecnologie, imparare la maniera con cui esse influiscono sull’intero processo industriale, integrandolo. È per questo che la trasformazione dell’impresa deve essere a tutto tondo, non solo investendo sulle macchine innovative ma anche sui lavoratori, i quali rimangono vero cuore pulsante dell’intera struttura. Prima ancora che tecnologica, la sfida che si prospetta è composta da uno spessore sia culturale che organizzativo. Il modello dello smart working, si colloca proprio in questa direzione e M. Costa (2016) ricorda i suoi aspetti fondamentali:

• valorizzazione dei talenti e dell’innovazione, con particolare focus sulle capacità individuali di contribuire in modo proattivo alla creazione di conoscenza e di innovazione;

• comunicazione e collaborazione interpersonali in un clima aperto e trasparente, per favorire la creazione trasversale di relazioni, indipendentemente da gerarchie predefinite;

• empowerment e responsabilizzazione della persona nell’ambito lavorativo, ai fini di agire e prendere decisioni autonomamente;

• flessibilità e personalizzazione delle condizioni di lavoro in relazione ai tempi e allo spazio fisico e virtuale di lavoro. (pag. 121).

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Come si evince, ciò verso cui tende lo smart working è certamente l’utilizzo delle tecnologie ma tale modello si focalizza anche sul cambiamento che va ad interessare i lavoratori tutti, manager e operai: con Industria 4.0 ciò che è richiesto è un’impresa organizzata in maniera differente. Per questo motivo il “si è sempre fatto così” è un concetto ostile a 4.0 e, come scrivono Magone A. e Mazali T. (2016): «il funzionamento dei media digitali poggia le basi su quattro principi – rappresentazione numerica, modularità, automazione, variabilità- ed essendo il codice digitale definito dalla natura numerica, ciò che comporta il suo contenuto potrà sempre essere descritto in termini matematici, sarà soggetto a manipolazione algoritmica, sarà programmabile e riprogrammabile.» (pag. 109).

Come gli algoritmi che fanno funzionare i devices digitali vengono cambiati, così il lavoro dell’uomo che ha come partner le stesse tecnologie, deve modificarsi di volta in volta. Le parole di Luciano Pero risultano allora molto più significative: di fronte a una tecnologia che evolve è richiesta anche la capacità da parte dell’ingegnere di cambiare a sua volta, di correggersi e di riuscire ad adattarsi di volta in volta alle nuove procedure richieste. Capacità del genere costituiscono un set di competenze molto differente rispetto a quello richiesto all’interno delle fabbriche del novecento. Il tutto si può sintetizzare sostenendo che nelle fabbriche moderne non si parla più di automatismo bensì di automazione. Per riuscire a spiegare al meglio la differenza tra i due concetti risultano utili le parole di Magone e Mazali (2016):

Un processo automatico rimuove (in parte o del tutto) l’intenzionalità umana; l’automazione digitale (rappresentata dall’algoritmo) è differente dall’automatismo meccanico perché non estromette la persona dall’azione, ma sposta la responsabilità del processo decisionale sugli utilizzatori delle tecnologie: i media users. (pag. 110).

I due termini evidenziano uno spaccato non di poco conto rispetto al passato. Parlare di automazione digitale significa infatti dirigersi nella direzione delle competenze nominate sopra: responsabilità, interazione e conoscenza dell’intero processo. Il lavoro di un operaio che si interfaccia con devices digitali è riempito di responsabilità in quanto egli stesso è il diretto utilizzatore di quella tecnologia. Da qui ne deriva anche una forte interazione uomo- macchina che va a creare un cambiamento radicale anche negli spazi di lavoro. Infatti, il modello dello smart working, implicando modificazioni di carattere organizzativo-gestionale, comporta una radicale rivoluzione in merito agli spazi fisici di lavoro. In questo senso, l’indagine del Politecnico di Milano (Osservatorio Smart Working, 2012.) parla sia di innovazione del layout della fabbrica sia di un ampliamento dello spazio dovuto alla sempre

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maggiore disponibilità di luoghi virtuali offerti dalle tecnologie. Enterprise 2.0 è il termine che indica come le tecnologie contribuiscano ad implementare le informazioni in un contesto aziendale. Le piattaforme come i blog o i wiki sono diventate molto comuni e utilizzate per lo scambio di idee. Lo stesso vale per il modello delle Intranet, importante e irrinunciabile zona di lavoro per le organizzazioni moderne. Una simile gestione del flusso di informazioni comporta una rivisitazione totale della gestione aziendale perché attraverso l’uso di queste “tecnologie di condivisione” ciò che viene valorizzato è la «collaborazione emergente, la condivisione della conoscenza e lo sviluppo e valorizzazione di community e reti sociali interne ed esterne all’organizzazione». (Costa M., 2011, pag. 87). Accanto alla trasformazione spaziale, lo smart working annovera anche un cambiamento in termini di behaviour, ovvero di «stili di lavoro, policy organizzative di flessibilità riguardo a luogo e orario di lavoro, cultura del top management e comportamenti delle persone.» (Costa M, 2016, pag. 121) Ciò che emerge è dunque una flessibilità inedita che rivoluziona non solo lo spazio ma anche il tempo del lavoro. Si tratta di orari elastici e modulabili in cui spetta al lavoratore la scelta della durata della prestazione lavorativa. Una chiave di lettura che può essere data alla flessibilità spazio- temporale all’interno di contesti di innovazione è senza dubbio quella che le attribuisce la via d’accesso allo «sviluppo delle potenzialità, risorse, competenze, abilità». (Costa M, 2016, pag. 123). Smart working è allora sinonimo di interazione e partecipazione consapevole e, grazie a queste caratteristiche, l’ulteriore peculiarità del lavoratore aumentato è inerente alla sua visione complessiva e a tutto tondo dell’intero processo a cui partecipa. In tale senso è utile riprendere, integrandola di nuove considerazioni, la citazione di Costa (2017, capitolo 2.): «L’azione lavorativa si organizza maggiormente per il monitoraggio di più fasi, più macchinari, frazioni più ampie del ciclo di produzione. Di conseguenza il fattore chiave diventa la capacità di governare il ciclo, non la singola macchina». Ciò che oggi è chiesto al lavoratore è di essere polivalente di avere una conoscenza a tutto tondo del processo cui partecipa innescando meccanismi di partecipazione consapevole. Solo nel momento in cui il soggetto è in possesso di una visione panoramica può comprendere che il suo lavoro è propedeutico ad un fine ben oltre le azioni stesse. In questo modo, ovvero dando importanza al ruolo assunto da quel lavoratore, si renderà il soggetto consapevole e proattivo rispetto all’intero processo perché di fatto, egli per primo si sente esserne sua parte integrante fondamentale. Tutto ciò denota un approccio al mondo del lavoro che si oppone con forza a qualsiasi tipo di azione inconsapevole, meccanica e ripetitiva. Risulta allora ovvio che sono i lavoratori ad essere posti al centro di un’azione che non è più alienante perché essi sono «partecipi alla costruzione della realtà attraverso il loro contributo lavorativo che è nel

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contempo un lavoro sociale, stimolatore di nuove forme di vita collettiva» (Costa M, 2011, pag. 146).

Magone e Mazali (2016) svolgono un lavoro di intervista in Avio Aereo e l’azienda fornisce la descrizione di un nuovo operaio le cui condizioni di lavoro sono quelle appena descritte, egli infatti non interviene più manualmente nel ciclo e non opera in una relazione di reciprocità con una singola macchina:

nei reparti in cui la presenza umana è più rarefatta, gli operai si dedicano al monitoraggio di più fasi, di più macchinari, di frazioni più ampie del processo produttivo. Per queste ragioni il fattore chiave è essere capaci di usare il ciclo non la singola macchina, perché l’eccessiva focalizzazione non funziona più. (pag. 89)

La figura dell’operaio vive una trasformazione radicale, un’evoluzione che alla Ducati Motor esprimono così:

La nuova organizzazione è partita con uno sviluppo dei blue collar. Fino a cinque anni fa le persone facevano operazioni limitate, oggi abbiamo sollecitato in loro competenze di attrezzaggio, controllo qualità, cambio utensili e gestione processo. Questo ha migliorato la motivazione: utilizzare le capacità e saperle coinvolgere dà un beneficio importante. (pag. 90)

Alla luce di queste considerazioni si può giungere alla conclusione che la fabbrica 4.0 prima di essere luogo in cui la tecnologia è utile per realizzare qualcosa, è luogo in cui la tecnologia è utile per comunicare. Per questo stesso motivo, parlare dei nuovi contesti lavorativi significa descrivere una realtà che è ambiente di comunicazione dove i media digitali sono “intermediari” tra persone e ambienti sociali. In ultima analisi, riprendendo quanto sostenuto da Magone e Mazali (2016), la tecnologia così come la vuole intendere questa rivoluzione digitale ha la capacità di disporre di un’azione che coinvolge le seguenti dimensioni:

1. la processualità e apertura: i media e le tecnologie dell’informazione fanno diventare le azioni di lavoro «percorsi aperti» e conseguentemente, «le azioni e le modalità del lavoro sono caratterizzate da flessibilità e variabilità» (pag. 109);

2. logica delle release: l’aggiornamento costante e la conseguente ricerca di miglioramento è un’agency prevista dall’utilizzo dei media;

3. immanenza dell’azione nel processo: i media permettono un’azione più veloce, accorciando il tempo della scelta;

58 4. connettività always on: la produzione diventa un flusso continuo di dati dando il via ad una «iper

connessione tra azioni-informazioni-feedback nel lavoro» (pag. 109).

La presenza di una tecnologia così strutturata modifica innegabilmente il modo di lavorare e ponendo al centro il media user, ovvero l’utilizzatore diretto del device, crea un ambiente in cui l’utente è centrale, partecipativo e controller in quanto gli è richiesto di saper governare la complessità di un processo che è diventato aperto, veloce e connesso. Il cambiamento che si vuole tematizzare si fa sempre più nitido: non più un lavoratore che si identifica con la resistenza alle logiche di dominio della fabbrica, ma un lavoratore proattivo, resiliente e responsabile.