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Solo a partire dalla metà del secolo si può ricostruire, grazie alle carte d’archivio e alle opere superstiti, quel vivace affresco cittadino in cui la polvere di marmo si alza copiosamente dalle botteghe di scalpellini attivi e rumorosi affollate lungo la Ripa, così ben descritto dall’immaginazione dell’Alizeri53. Fra le identità tramandate dalle fonti e dai rogiti si riscontrano

vere e proprie ‘turbe di scalpellini’, schiatte di artefici spesso provenienti dalla stessa area e accomunati da relazioni di parentela, che si garantivano, con la gestione familiare dei cantieri, una condizione di monopolio, succedendosi «a modo quasi di tribù»54 e seguendo una prassi

che, come si è cercato di dimostrare, è in continuità con quella del Medioevo55. Emerge così il

profilo di una città popolata da una gran quantità di lombardi, appartenenti ormai ad una vera e propria Arte, regolamentata da precise norme, i cui artefici operano indistintamente in materia

53 Cfr. ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, pp. 121 ss. 54 Ibidem, p. 120.

55 Condizione non molto dissimile dallo scenario tratteggiato da Saverio Lomartire per i cantieri medievali

di Modena o Trento, nei quali la conduzione familiare garantisce continuità al cantiere, permette di portare a termine i lavori in maniera continuativa e offre vantaggi imprenditoriali alla taglia lombarda, come una vera e propria ditta, cfr. LOMARTIRE 2010, pp. 9-31.

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edile e scultorea, progettuale e imprenditoriale, individuando nella stessa persona competenze e qualifiche differenti in risposta alle diverse esigenze da soddisfare.

A fronte di queste testimonianze, straordinarie per ricchezza e varietà, bisogna tenere tuttavia presente che al cospicuo numero di carte consultabili corrisponde una diversa consistenza di opere d’arte, le quali, sebbene in parte sopravvissute all’inesorabilità dello scorrere del tempo, a dispetto soprattutto di ciò che accadde nei primi decenni del secolo56, non appaiono sufficienti

a far luce sull’incredibile quantità di maestri annoverata dagli stessi rogiti. Decine di nomi, privi di un proprio catalogo di opere, sono destinati a rimanere fisionomie imperfette, tanto quanto quei marmi che, riemergendo solitari tra le trame del tessuto cittadino, è sovente impossibile ricondurre con certezza a un ben preciso artefice. Se questo aspetto ha indubbiamente disincentivato lo studio della scultura del Quattrocento a Genova, intralciando la stesura della sua storia, si ritiene che solo addentrandosi nella disamina delle diverse tipologie contrattuali si possano trarre interessanti informazioni sulle abitudini sociali dei maestri lombardi, sulla gestione delle attività svolte e sul loro inserimento nella vita cittadina. D’altronde, se la storia della scultura è anche la storia di prodotti fabbricati da uomini, da artigiani che rispondono alla sensibilità del loro tempo con gli strumenti che hanno a loro disposizione, avere la possibilità di conoscerne l’attività lavorativa può fornire indizi per nulla marginali per meglio definirne la produzione scultorea: più che altrove, come si dimostrerà, in risposta a precise esigenze pratiche e a una capillare organizzazione del lavoro, le peculiarità della scultura genovese del Quattrocento, la sua ‘diversità’ e la sua stessa grammatica formale dipendono strettamente dalle peculiari dinamiche sociali in cui si mossero gli artefici.

Vale la pena allora riesaminare i citati statuti del 1439, una vera e propria raccolta di pratiche corporative non dissimile da quelle in vigore per tutto il mondo artigiano, analoghe, ad esempio, a quelle che dovevano normalizzare l’Arte dei setaioli o dei facchini del porto57. Nel testo, che

traduceva norme fino ad allora trasmesse oralmente e che verrà mantenuto, con qualche modifica, nelle stesure dei capitolati successivi58, si annovera ogni aspetto che connota il

mestiere, dai momenti propriamente riferibili all’organizzazione professionale dell’Arte a una vera e propria scansione dei ritmi del quotidiano. Si specificano le modalità per le elezioni dei consoli, due da eleggersi ogni anno «per voce di tutti quanti gli iscritti»59, insieme a un Massaio

«che attendesse alle comuni ragioni» e a due operai «col solo carico di mantenere nel debito lustro la cappella dell'arte»; si esplicitano le norme di accesso all’Arte; e, ancora, non troppo

56 Vedi paragrafo 1.1.

57 Per una panoramica generale sui fenomeni di migrazione in Genova da parte di maestranze straniere si

segnalano i contributi di CASARINO 1999, pp. 85-122; PETTI BALBI 1989, pp. 121-135; PICCINNO 2002, pp.

3-15.

58 Cfr. nota 31.

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rigide e permissive anche verso i forestieri, che potevano accedervi dietro pagamento di una somma in denaro di sei lire, indirizzata alle casse del Comune e dell’Arte; e, ancora, si forniscono indicazioni sull’approvvigionamento dei marmi in città, da distribuire equamente tra i magistri presenti, a conferma di come questo compito fosse da secoli pertinenza esclusiva della maestranza, oltre che sull’illegale comportamento dei falsificantes petras, vale a dire di chi inganna l’acquirente circa la loro qualità, per il quale era previsto il pesante risarcimento del loro valore pecuniario. Diversi capitoli sanciscono poi l’insieme delle prassi devozionali volte a scandire la vita di ogni giorno. Si prevede l’obbligo di presenziare a Messa nei giorni festivi60, così come si

impongono la partecipazione alle più importanti celebrazioni cittadine, quali le consegne del pallio nel giorno dei santi Simone e Giuda e la processione del Corpus Domini: cerimonie alle quali ognuno dava il proprio contributo per non incorrere in severe pene, e l’osservanza rispettosa della chiusura delle botteghe nelle festività di san Giorgio, san Lorenzo, san Sebastiano, santa Lucia, sant’Antonio, dei Santi Apostoli e dei patroni dell’Arte, ossia i Quattro Santi Coronati. Persino la sepoltura era regolata da prassi comuni, che concernevano non solo il capo famiglia, ma anche sua moglie, i suoi figli e persino i suoi famuli, qualora avessero più di dodici anni61. Altre voci miravano poi a «fermare la concordia e la benevolenza negli animi»: per

garantire la corretta gestione delle diatribe pubbliche, affinché non interferissero con lo svolgersi del lavoro, si obbligavano i contendenti a trovare pacificazione entro otto giorni, pena il pagamento di una multa di quaranta soldi. Si trattava, insomma, di una vera è propria “società nella società”, i cui membri non solo erano accomunati da valori professionali affini, ma anche da un bagaglio etnico di provenienza che da sempre contraddistingueva la loro attività, accrescendone, di fatto, lo spirito di solidarietà.

In un simile contesto di grande coesione etnica non stupisce come dai documenti sia possibile scorgere il saldo legame che i magistri continuarono a intrattenere nel tempo con la terra natia, nonostante spesso ottenessero la qualifica di habitatores Janue62. Tra gli esempi più significativi

riscontriamo una serie di attestazioni stipulate tra lo scadere del secolo e l’inizio del successivo,

60 Diverse sono nel corso dei secoli le sedi devozionali della corporazione degli Antelami. Come esaminato

nel precedente paragrafo un documento del 1414 informa sull’antica presenza di una cappella presso la quale si celebravano le messe per i membri della corporazione e vi era la possibilità di ricevere sepoltura nella chiesa medievale di San Siro. In seguito si identificano luoghi di culto deputati alla maestranza anche un altare collocato in San Giovanni di Pre’ e dedicato al Crocifisso e ai Santi Quattro Coronati, cfr. DI RAIMONDO

1976, pp. 13-17, e, posteriormente alle diatribe tra muratori e scultori, i secenteschi sacelli speculari siti in Santa Sabina, riservati rispettivamente all’una e all’altra categoria. Un riassunto delle varie vicende corporative, con la creazione dei vari luoghi di culto è in SANTAMARIA 2003, p. 60-63. Per una serie di documenti in cui si danno disposizioni circa la sepoltura comune in San Siro, tra il 1464 e il 1509 si veda ZURLA 2015, p. 17 nota 42.

61 Sulla possibilità dei membri dell’arte di trovare riposo presso uno spazio comune si ricorda il caso di

Taddeo da Beregno, che allestisce in San Siro alcune sepolture per sé, la sua famiglia e i membri della corporazione che desiderassero essere là sepolti, cfr. paragrafo 1.1.

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in cui grande attenzione è rivolta alle dotazioni d’arredi sacri e artistici delle chiese del luganese. Giovanni Gagini, ad esempio, rimpatriato ai primi del Cinquecento, si assicura che la chiesa di San Giovanni Battista a Mendrisio sia adeguatamente dotata di opere di scultura, finanziando l’esecuzione di due pale d’altare provviste di iscrizione commemorativa63; così come Antonio da

Gandria, il quale, al momento di dettare le proprie ultime volontà, pur indicando Genova come luogo di sepoltura, si assicurava che la cappella di cui deteneva il patronato a Gandria fosse arricchita da un dipinto ad opera di un artefice locale64. Più antico è invece l’esempio pertinente

a Filippo Solari e Andrea da Carona, che confezionarono per la chiesa di San Giorgio, presso il paese di origine, una preziosa ancona marmorea (FIG. 41)65. E per i caronesi frequente e proficua

risulta inoltre essere la compravendita di terreni, come dimostra l’atto del 23 settembre 152166,

per cui Giorgio Solari da Carona, scultore, vende al collega Alessandro della Scala, suo compaesano attivo a Genova nella realizzazione della statua di Eliano Spinola per palazzo San Giorgio (13 maggio 1511)67, una sua casa, sita in contrada di Solaro-Macone, vicino a Carona.

Se ne deduce, dunque, che le condizioni finanziarie raggiunte dai maestri grazie al lavoro svolto a Genova fossero più che apprezzabili e ben spendibili una volta tornati nelle vallate d’origine. In questa prospettiva non pare gesto privo di vanteria quello con cui Giovanni Gagini, nelle iscrizioni suddette, decide di apporre accanto al proprio nome la specifica “ianuensis”, precisando persino la data di rientro in patria dalla città ligure (1507)68.

La frequenza con cui promissiones, famulati e fideiussioni emergono tra la selva di documenti del notarile genovese, è un chiaro segnale dell’evidente espansione che l’Arte dei Maestri Antelami raggiunse nel corso della seconda metà del secolo. Essi appaiono in veste di testimoni

63 L’iscrizione, nella sua totalità, è così riportata: «MAG(iste)R IOAN(n)ESGAZIUS DE BISSO(n)OIANUE(n)SIS NU(n)CUPATUS ET KATHARI(n)A LOPIA IUGALES QUI IANUA IN PARTIB(us) REDIERU(n)T AN(n)O 1507 HOC OPUS CONSTRUZERU(n)T ANNO 1514 DEVOTIONIS OPERE». L’oggetto, scolpito in una pietra locale e ornato con scene figurate, era stato donato alla chiesa di san Giovanni Battista di Mendrisio dallo scultore insieme alla moglie, Caterina Lopia, e consacrato alla santa omonima. La scultura è attualmente conservata nel chiostro del convento per cui era stata fatta eseguire, oggi convertito a museo. Alla presente lapide doveva seguire l’esecuzione di una seconda arricchita da dorature (1517), destinata all’ornamento dell’altare di San Rocco e San Sebastiano nella stessa chiesa, che è, purtroppo, andata perduta. Secondo i documenti ne fu autore un Tommaso abitante a Como, la cui identità resta discussa dalla critica, che propone un’identificazione con Tommaso Rodari o Tommaso Lopia Barasino, attestato a Genova nel 1511 e imparentato con il Gagini (cfr. ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, pp. 302-303 nota 1). Sull’argomento cfr. RAHN 1894, I, pp. 205-206; MARTINOLA 1975, I, pp. 261, 277 e II, p. 195 fig. 459; MOLLISI 2006, p. 117; DAMIANI CABRINI 2013, pp.

30-32; ZURLA 2015, pp. 42-43. Cfr. inoltre paragrafo 1.4.2 Giovanni Gagini da Bissone. 64 ASG, Notai Antichi, 1075, n. 26 (12 febbraio 1509), citato in ZURLA 2015, p. 9. 65 Sull’opera cfr. WOLTERS 1976, p. 257 n. 198; GENTILINI 1997, p. 70.

66 Il documento, del 23 settembre 1521, è pubblicato da ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, p. 332 nota 1. 67 Cfr. ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, p. 330 nota 1. Lo scultore è inoltre coinvolto in un contratto di

subappalto per la scultura di un vescovo giacente per conto di Cristoforo Solaro, in cui dichiara a Pace Gagini di ritenersi soddisfatto per il compenso ricevuto in relazione alle giornate di lavoro spese, cfr. Infra.

68 Michela Zurla (2015 p. 10) segnala che simile esito avrà anche la carriera di Giovanni d’Aria, il cui rientro

in patria si può datare intorno al 1508, quando compare in un atto di procura a rappresentare gli interessi di Battista di Pietro Carlone presso la diocesi di Como, ASG, Notai Antichi, 1506/I, n. 548 (26 agosto 1508). Per la trascrizione parziale dell’atto: ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, pp. 278-279 nota 1.

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in atti di tipo privato, quali accordi tra parenti, dispute, riscossioni di debiti della più varia natura; altri sono chiamati a valutare l’operato di magistri loro colleghi, secondo una prassi comune al mondo delle arti, al fine di garantirne al committente la buona qualità, attraverso la designazione di un arbitro o perito; altri ancora mettono i propri figli a bottega da colleghi - se non parenti – per un numero circoscritto di anni, solitamente sei, affinché apprendano i rudimenti del mestiere69. Simili accordi e contratti sono frequentemente stipulati nel corso di tutta la seconda

metà del secolo, dove troviamo protagonisti, per quantità di testimonianze, i magistri appartenenti alla schiatta famigliare dei Gagini, al consorzio dei fratelli D’Aria e, più in generale alla cornice comasca, come Giovanni da Bissone, Matteo da Bissone e Antonio della Porta70.

A esemplificare queste circostanze corporative si possono citare, tra i molti esempi possibili, le vicende in cui è coinvolto nel corso della sua attività Elia Gagini da Bissone71, nipote di

Domenico Gagini e figura di scultore attiva in Genova tra il 1457 e il 1480. In questi anni le questioni finanziarie dello zio Domenico vedono più volte protagonista il magister marmororum, tanto in qualità di procuratore, nella riscossione di pagamenti, come nel 1475, quando riceve da Stefano Lomellini 150 lire per conto dello zio in virtù di alcuni lavori eseguiti insieme e attestati

69 Gli atti di accartatio in particolare, detti anche acordaciones famuli, regolano il rapporto tra maestro e allievo

e trovano nella carta il nome dello strumento stesso. Il loro utilizzo si estende a tutti i tipi di attività manifatturiera e costituiscono la parte più cospicua della documentazione rinvenuta dagli studi di settore. Sull’argomento e una prima raccolta di migliaia di contratti di apprendistato reperiti e schedati per il periodo in esame, cfr. CASARINO 1988. Molti rogiti sono inoltre consultabili on line presso il data base ARTIGEN

(1451-1530).

70 Tra le procure si segnala l’atto che associa Domenico Gagini all’orefice Antonio de Platono, incaricato

di riscuotere per lui alcune somme per i lavori eseguiti per la Confraternita del Battista, ASG, Notai Antichi, 871/I, doc. 108 (2 maggio 1465), trascritto in ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, pp. 133-134 nota 1; CERVETTO

1903, pp. 247-248, doc. V. Interessante è il caso di perizia per cui nel 1506 Pace Gagini viene incaricato da Antonio della Porta di nominare gli arbitri che avrebbero giudicato i lavori portati a termine in Savona per una cappella di patronato Della Rovere nella chiesa di Santa Chiara, oggi non più esistente. Una clausola contrattuale informa che qualora eventuali impegni avessero determinato un allontanamento di Pace da Savona prima del verdetto atteso avrebbero agito a suo nome altri magistri, ASG, Notai antichi, 1315, n. 106, pubblicato da: ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, pp. 319-320 nota 1; CERVETTO 1903, pp. 262-263, doc. XXV.

Per la vicenda della cappella savonese e per una panoramica sull’operato del Della Porta cfr. ALIZERI 1870-

1880, IV, 1876, pp. 308-325; KRUFT 1970a, pp. 401-414; BARBERO, 1974, pp. 11-17; FADDA 2000, pp. 69- 79; ZURLA 2015, pp. 77-102. Tuttavia formulare perizie non era pertinenza esclusiva dei magistri antelami, come dimostra l’atto rogato nel 1452 da Bartolomeo Risso per cui, a valutare i lavori eseguiti da Leonardo Riccomanni per la cappella di san Sebastiano da collocare presso la chiesa di Santa Maria delle Vigne a Genova, venne chiamato dalla Confraternita della Devozione del Santo l’orafo e confratello Simone Caldera, cui è anche affidato il compito di fornire le indicazioni necessarie all’esecuzione allo scultore pietrasantino, ASG, Notai Antichi, 716/II (12 giugno 1452): ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, pp. 163-165 nota 1. Sulla storia della

cappella vedi paragrafo 1.4.4. Alcuni esempi di contratti di apprendistato vedono infine coinvolti gli scultori Michele d’Aria e Romerio da Campione, scultori, che prendono rispettivamente a bottega Giovanni Donato de Malacrini da Dongo figlio di Antonio, intaliator marmarorum, ASG, Notai Antichi, 1028B, n. 985 (15 maggio 1484) e Pietro d’Arosio di Lugano, figlio di Giacomo, magister antelami (12 dicembre 1497), cfr. ALIZERI 1870-

1880,IV, 1876, pp. 218-219 nota 1; 337-338 nota 1. Per la collocazione di altri rogiti dal simile contenuto cfr. ZURLA 2015, p. 12 nota 17. Si consulti, inoltre, l’appendice documentaria.

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da un atto rogato nel 145672, quanto nella gestione di proprietà immobiliari, come accade nel

1465, quando la casa di proprietà di Domenico presso il Molo viene, contemporaneamente, ceduta in locazione per sei anni al nipote, che la abita, e concessa in ipoteca a Giovanni da Bissone, in garanzia di un debito insoluto73. Per la seconda situazione professionale citata, nel

1480, Elia, intaliator[i] marmarorum in Janua, accetta di prendere a bottega il figlio di Corrado Garvo, Giacomo, per avviarlo alla professione74. Infine, nel 1511, in una circostanza insolita, i

marmi lavorati dall’artefice circa un trentennio prima in qualità di sculptor lapidum et marmorum e riconducibili all’ornamento di un altare in Santa Maria di Castello75, vengono descritti e periziati

da Romerio da Campione, allievo di Jacopo da Maroggia, che ne valuta lo stato esecutivo e la qualità76.

Tra le prassi corporative caratteristiche della professione si possono individuare almeno due aspetti ricorrenti, che forniscono, sebbene parzialmente, preziose indicazioni, da un lato, sull’organizzazione del lavoro interno alla bottega, dall’altro, sulle logiche di giudizio della committenza. Un primo caso è quello in cui il committente individua un modello cui lo scultore deve attenersi nella realizzazione della nuova opera. La consuetudine dell'imitazione si riscontra nei diversi aspetti della pratica costruttiva sin dal XII secolo, dove strutture esistenti vengono

72 Per il documento in questione, rogato l’8 marzo 1457, edito in ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, pp. 132-

133 nota 1; CERVETTO 1903, pp. 247, doc. III;KRUFT 1972a, p. 264, doc. V. Luigi Augusto Cervetto (e,

basandosi sulla sua opera, la bibliografia successiva) crede di riconoscere nei lavori eseguiti per Stefano Lomellini elementi di pertinenza della Cappella del Battista, ipotesi che il documento tuttavia non avvalla, dal momento in cui l’impresa dedicata al Precursore non è menzionata nel testo. A venire citato è invece un altro documento, pervenutaci solo tramite questa indiretta testimonianza, che portando data 12 giugno 1456 informa sul momento in cui vennero stipulati gli accordi per i misteriosi lavori saldati nel 1457, per cui i contraenti si affidarono sempre al notaio Lazzaro Raggio.

73 Cfr. ASG., Notai Antichi, 871/I, doc. 107, 111 (2 maggio 1456), pubblicati in ALIZERI 1870-1880,IV,

1876, pp. 134-135 nota 1, 135-136 nota 1; CERVETTO 1903, pp. 247-249, doc IV, VI. La questione si risolverà

soltanto tra il marzo e il luglio del 1475 quando, estinta un’ulteriore ipoteca sulla casa che era stata stipulata da Giovanni a garanzia di copertura di un debito irrisolto con Angelo Lercari, fideiussore del bissonese in un affare di compravendita di alcuni pellami da Bernardo Lercari, si saldano i debiti intercorsi, permettendo ad Elia di usufruire liberamente dell’abitazione, in cui ancora risiede, cfr. ASG, Notai antichi, 871, n. 73 (24 marzo 1475); ASG, Notai Antichi, 1023, doc. 659 (29 luglio 1475), segnalati in ZURLA 2015, pp. 18 nota 48, 346.

74 Il documento, riportato sia da Alizeri sia da Cervetto, presenta un errore di lettura circa il cognome dei

contraenti, Giacomo e Corrado, che non appartengono alla schiatta dei Gagini (trascritto Garini dal primo studioso e Gazino dal secondo), bensì a quella dei ‘Garvo’, famiglia lombarda che si riscontra nei documenti per diversi secoli a venire, cfr. ASG, Notai Antichi, 910/1, doc. 114, pubblicato in ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, p. 138 nota 1; CERVETTO 1903, p. 248, doc. VII. Un altro Garvo, questa volta un Giacomo figlio di

Giovanni, è protagonista di un atto in cui Elia fa da testimone: la famiglia doveva dunque essere in buoni rapporti con il bissonese, cfr. ASG, 1030, n. 471 (24 maggio 1488).

75 Sull’opera, probabilmente eseguita a più mani a quanto lascia intendere il rogito, ha cercato di fare

chiarezza Clario Di Fabio, identificando nelle tre cuspidi figurate e ornate da gattoni, sorrette da colonnine tortili, collocate al secondo piano del secondo chiostro di Santa Maria di Castello, frammenti dell’altare dedicato in origine alla Vergine delle Rose. Per approfondimenti cfr. DI FABIO 2004a, pp. 65-68. Circa i documenti cfr. ALIZERI 1870-1880,IV, 1876, p. 138-140 nota 2; CERVETTO 1903, pp. 249-250, doc. IX (25

aprile 1511). Per approfondire vedi paragrafo 1.4.2 Elia Gagini da Bissone.

76 Si evidenzia come in tutte queste circostanze, di natura differente tra loro, la qualifica di magister non

venga mai negata all’artefice lombardo, e sia affiancata da ulteriori specifiche, sulle quali a breve si rifletterà, vedi Infra.

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indicate come esempi per realizzare nuove opere di muratura77. Dalla metà del XV secolo il

ricorso a un modello si estende anche alla fabbrica di apparati decorativi o elementi architettonici, quali portali, cancellate marmoree, cornicioni, colonne. Sia per i committenti sia per i maestri il ricorso a soluzioni consolidate non significa ipso facto riprodurre tale e quale il modello preso ad esempio: l'imitazione tout court, sebbene non sia mai riproduzione esatta e