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Non si conosce il momento esatto in cui Giovanni da Bissone iniziò ad operare in Genova. Come già evidenziato altrove, similmente al caso del soggiorno genovese di Domenico Gagini59,

è ancora una volta il 1448 che si pone come data cardine intorno alla quale far ruotare le possibili considerazioni sulla formazione di Giovanni.

I dati a disposizione inducono a credere che il magister, a questa data, fosse artefice già affermato nel panorama locale. L’importanza dell’ingaggio ottenuto da parte dei membri della Confraternita del Battista è significativo in questo senso. I confratelli, per niente sprovveduti in materia di committenza artistica, e pertanto consci della qualità degli esecutori selezionati per l’impresa, Giovanni e Domenico, cui affidarono l’intera progettazione della cappella del Precursore, dall’approvvigionamento dei marmi all’esecuzione, lasciano dedurre, con la loro scelta, che i modi scultorei dei due artefici dovessero essere noti e apprezzati, nella cerchia dei nobili signori locali.

La critica ha già evidenziato, specie per il caso gaginiano, come il cantiere per la facciata del Palazzo di Giacomo Spinola di Luccoli, in piazza Fontane Marose (FIG. 234), denominato ‘dei

59 Cfr. capitolo precedente, paragrafo 1.4.2.

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marmi’ proprio per la serie di cinque statue che lo ornano, sia stato proprio uno dei luoghi in cui vennero saggiate le abilità dei due bissonesi60.

Utilizzando i dati documentari disponibili Clario Di Fabio ha infatti circoscritto i limiti cronologici per l’edificazione del palazzo tra il 1445 e il 1459, chiarendo sia il significato storico e iconografico della serie di uomini illustri, vere e proprie glorie di famiglia tradotte con un medium inusuale per questo genere di soggetti, che contribuisce a farne un unicum in tutto il nord Italia, sia la presenza di almeno tre differenti mani nell’esecuzione delle sculture61. Tra le «figure

gentilizie che Iacopo Spinola alzò sul palazzo di Luccoli, che ancor vive non so per quale miracolo»62, a Domenico Gagini si ascrivono gli pseudo-ritratti di Corrado, Oberto e Galeotto

Spinola, comparabili con alcune figure di coronamento della cappella del Battista, mentre diversa nella foggia appare la più recente effigie di Giacomo Spinola stesso, l’ultima ad essere eseguita, per cui lo studioso propone il nome dell’Amadeo63. Diversa da tutte queste appare, infine,

l’immagine scolpita di Opizzino Spinola (FIG. 239), che Di Fabio propone di attribuire proprio a Giovanni da Bissone64. Sembrano confermare la proposta avanzata il confronto con la scultura

di Angelo posta sulla fronte della cappella Fieschi, in cattedrale, che presenta la medesima postura e la stessa controllata gestualità, nonostante le manomissioni; così come colpisce il parallelo con il volto di uno degli Armigeri del sovrapporta di piazza San Matteo, ugualmente contratto in un’espressione corrucciata, a cui le profonde arcate sopraccigliari conferiscono un marcato tono emotivo, estraneo alle fisionomie degli altri membri della casata. I volti gaginiani, poco pronunciati e colti nella consueta espressione di ritrosia cui si accompagnano le piccole labbra strette quasi in una smorfia, stonano con la composta distribuzione degli attributi facciali del volto di Opizzino, dal forte mento pronunciato, come evidenzia il confronto con l’effigie di Galeotto. Laddove si fosse tuttavia scettici verso la proclamazione del nome di Giovanni per la scultura, che, facente parte di un ciclo, doveva comunque rassomigliare alle altre nella composizione, per coerenza del progetto d’insieme, un coinvolgimento dello scultore nell’allestimento della serie statuaria sembra essere comunque verificabile. Che Giacomo Spinola fosse in affari con Giovanni da Bissone è infatti testimoniato dal contratto rogato nella chiesa di Santa Maria di Castello nel 145265, con cui lo scultore assegna a Leonardo Riccomanni la

responsabilità di alcuni lavori per la sagrestia e, appunto, la realizzazione di un “crinerium”, richiesto proprio dallo Spinola: si tratta di uno stemma con elmo chiomato simile a uno già eseguito per il medesimo committente dal toscano, ed entrambi identificati dall’Alizeri con i due

60 Cfr. DI FABIO 2011c, pp. 629-630, 632-633. 61 Su questi aspetti si veda il paragrafo 3.1. 62 Cfr. ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, p. 96.

63 Cfr. DI FABIO 2011c, p. 624;DI FABIO 2017d, pp. 391-400. 64 Cfr. DI FABIO 2011c, pp. 626, 630.

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esemplari murati sul prospetto dell’edificio di Fontane Marose66. A prescindere

dall’accoglimento dell’attribuzione giovannea per il ritratto di Opizzino67, si può pertanto

dedurre che di fronte al riuscito progetto delle sculture per la galleria di ritratti di famiglia, impresa ragionevolmente condotta in solido tra Domenico e Giovanni, Giacomo, soddisfatto, non ebbe motivo di indugiare nel fare richiesta a quest’ultimo di procacciargli, negli anni a seguire, altri marmi intagliati.

La collaborazione tra i due artefici per la realizzazione del ciclo, sia a livello pratico sia a livello gestionale, vista con il filtro del legame che unirà di lì a poco i due bissonesi nell’ambito delle più importanti fabbriche cittadine, riproposero uno di quei casi di società tra artefici, rispondenti alle articolate dinamiche corporative in voga, che si sono delineate nei primi paragrafi di questo lavoro. La vocazione di Domenico per lo scalpello sembra permettergli di ricoprire con più efficacia il ruolo di scultore all’interno del sodalizio, attività davanti alla quale non si tira indietro nemmeno Giovanni, laddove ve ne sia necessità, per quanto sembri preferire, specie in queste prime imprese genovesi, un ruolo gestionale e direzionale. Lo conferma la lettera del 1448 con cui il doge Giano Campofregoso chiede al cugino Spinetta, governatore della Spezia68, di agevolare il viaggio dei due soci verso Carrara per il reperimento dei marmi per la

cappella del Battista; un atto in cui, peraltro, lo si è detto, il nome di Giovanni precede quello di Domenico, forse per anzianità o forse proprio per via del ruolo di imprenditore che egli ricopriva.

Ulteriori prove sembrano avvalorare questa serie di ipotesi. Da un lato vi è il rapporto intrattenuto dall’artefice con Carrara e con le maestranze legate al commercio del marmo, già robusto intorno agli anni Cinquanta69, e mai abbandonato, tanto da essere privilegiato in un

momento in cui l’anzianità del maestro ben si accorderà a ruoli meno gravosi fisicamente, come quelli legati alla gestione delle cave di marmo e dei fabulati. Dall’altro, si può pensare che l’assolvimento di un ruolo prettamente gestionale da parte di Giovanni giustifichi l’assenza della

66 I due rilievi sono citati da Alizeri (1870-1880, IV, 1876, p. 145-148) e anche Gabriele Donati propone

l’identificazione con la coppia di elmi chiomati murati nella facciata del palazzo di Giacomo Spinola (DONATI

2016).

67 Di diverso avviso, sia per l’attribuzione all’Amadeo della statua di Giacomo Spinola, che pure assegna a

una simile cronologia, sia per l’assegnazione a Giovanni da Bissone di quella di Opizzo, che giudica assimilabile a quelle portate a termine da Domenico, come ad esempio il San Lorenzo della fronte del sacello Battista, è Michela Zurla (2015, pp. 21, nota 63; 47).

68 Cfr. SALVI 1931, p. 1002, nota 82.

69 A testimoniare il rapporto con la città del marmo sono due documenti. Il primo, rogato dal notaio

Nicolò Iofredi nell’agosto 1451, purtroppo non è più conservato presso il fondo pietrasantino trasferito a Firenze (ZURLA 2015, p. 122, nota 15). Il contratto è noto perché menzionato nel documento per il subappalto a Leonardo Riccomanni del portale della sagrestia in Santa Maria di Castello del 1452, in cui si segnala come il nuovo contratto andasse a sostituire il precedente, firmato forse in occasione di qualche visita alle cave per l’approvvigionamento di marmi. Il secondo, per il momento inedito, in cui Giovanni di Andrea da Bissone è coinvolto in affari con Matteo di Vivolo e Maffioli (ASG, Notai antichi 724, doc. 56; 25 febbraio 1455). Su questi aspetti della produzione giovannea si veda il paragrafo precedente.

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sua mano tra gli intagli della fronte della cappella70, in cui risultano pervasive invece l’operato e

la direzione di Domenico, sia per quello che doveva essere il primitivo sacello, accanto all’altar maggiore, sia per la quello poi realizzato, nonostante entrambi fossero presenti alla scelta dei materiali lapidei. Poco convincente infatti appare il parallelo attributivo avanzato in merito: i due Santi Pietro e Giovanni Evangelista, entro nicchia (FIG. 83, 259 a, b), in cui si è supposto di poter ravvisare la mano giovannea, paiono troppo asciutti e incolori per ammetterne l’autografia, specie se paragonati alle altre opere del catalogo dello scultore. Sommate al contenuto della lettera sopracitata, si capisce come queste considerazioni avvalorino l’ipotesi avanzata circa il ruolo prevalentemente imprenditoriale e gestionale giocato da Giovanni. In questo senso può essere letto anche un rogito del 146571, in cui egli riscuote oltre 500 lire proprio da Domenico,

ormai trasferito in Sicilia: una cifra cospicua, che, non riferendosi ad un’impresa in particolare, sembra di poter leggere come una sorta di liquidazione, consegnata dal socio al collega per chiudere i conti dei lavori condotti insieme negli anni di collaborazione nel capoluogo ligure.

Se da questa interpretazione dei rogiti emerge definito il ruolo di impresario di Giovanni, resta comunque legittimo interrogarsi circa il motivo per cui il nostro artefice non fosse stato coinvolto nella decorazione della fronte gaginiana, alla quale - è indubbio - lavorò un nutrito numero di collaboratori, in linea con le vigenti dinamiche di bottega72.

La risposta a tale quesito è in realtà deducibile dall’analisi del contesto cittadino, sviluppata in parte nelle pagine precedenti. Proprio dalla seconda metà degli anni Quaranta si avvia il rinnovamento della sede convenutale dei Domenicani, di recente installatisi sulla collina di Castello per tentare di rimediare alle malversazioni perpetrate dai canonici, che prima la officiavano, nei confronti della comunità locale. Il compito gravoso spettò al priore Gerolamo Panissari, noto come Hieronimus de Janua73, appositamente fatto rimpatriare da Firenze, dove era

di stanza nel convento di San Marco, per gestire la complessa situazione scatenatasi nella sua città natale. Indiscutibile è il fil rouge, dalla critica74 messo in luce, che lega il rientro in città del

70 Si è già discusso il riconoscimento avanzato da Linda Pisani (in La cattedrale di San Lorenzo 2012, I, p.

285) circa due (San Giovanni Evangelista e San Pietro) dei ventiquattro ritratti di Santi e Profeti stanti in nicchie a conchiglia posti a cornice delle scene figurate, per cui si esclude l’intervento da parte di Giovanni per mancanza di affinità con gli intagli del suo repertorio. Anche Hanno-Walter Kruft (1970b, p. 40) si esprime evidenziando l’impossibilità di individuare nelle sculture della Fronte della cappella del Precursore la mano di Giovanni da Bissone, mentre Michela Zurla invita alla prudenza di fronte alle posizioni della Pisani e, non trovando analogie con le altre opere del bissonese, sospetta un suo intervento in «aspetti più propriamente architettonici». Per l’analisi stilistica della cappella del Battista cfr. paragrafo 1.4.2.

71 ASG, Notai Antichi, 871/I, doc. 111, 2 maggio 1456, cfr. ALIZERI 1870-1880, IV, 1876, pp. 135-136 e

Cervetto 1903, p. 248, doc. VI.

72 Si veda paragrafo 1.4.2.

73 Sulla figura del priore cfr. GILARDI 2006, pp. 55-59 (con bibliografia precedente); DI FABIO 2011c, pp.

630-631.

74 DI FABIO 2004a, p. 55; DI FABIO 2010b, pp. 84-85; DI FABIO 2011c, pp. 630-631; DI FABIO 2012, p.

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Panissari e l’approdo di Domenico Gagini in città. Questi, partito da Firenze intorno al 1446, doveva aver peregrinato per luoghi che tuttora sono solo presumibili, prima di trovare nel Panissari un accorto committente, nutrito di aggiornata cultura fiorentina, interessato alle sue capacità. Sono, infatti, le testimonianze artistiche a confermare la presenza di Domenico all’interno del convento domenicano, circoscritta tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo, mentre nulle sono le notizie documentarie circa un suo coinvolgimento nell’impresa75. Dai rogiti

emerge tuttavia una notizia non trascurabile: nel 1452, come s’è visto, Giovanni Gagini ha il potere di subappaltare al pietrasantino Leonardo Riccomanno il portale della sagrestia, un tempo varco d’accesso alla cappella Grimaldi-Oliva. Non sembra casuale che i riferimenti a disposizione, documentali e stilistici, riscontrino la presenza dei due bissonesi presso il convento domenicano. Ancora una volta, il ruolo gestionale di Giovanni, inconfutabilmente provato dal documento citato, appare determinante, è fa pensare che egli abbia avuto la direzione dei lavori anche negli anni subito precedenti il munifico donativo per l’arricchimento dei locali siglato dalla famiglia Grimaldi-Oliva: anni segnati perlopiù dall’intervento di un altro mecenate, Paride Giustiniani Longo (avviato tra il 1448 e il 1449), e sempre supervisionati dall’occhio attento del Panissari, che rimase priore dal 1446 al 145276. Alla luce di queste osservazioni, si può assai

meglio comprendere le ragioni da parte di Giovanni della rinuncia a collaborare come scultore alla decorazione della fronte del sacello giovanneo in Duomo, considerato che era impegnato a gestire simultaneamente la responsabilità, se non l’intera direzione, di ben tre cantieri77. Che la

partenza di Domenico, e il conseguente scioglimento del sodalizio, porti Giovanni a incrementare i propri interessi, prima verso l’ambito scultoreo e poi verso il contesto imprenditoriale carrarese, che verrà infine privilegiato, pare essere un ulteriore elemento a favore delle considerazioni fin qui condotte.

Se si pensa di aver fatta chiarezza sul rapporto intercorso tra i due conterranei, ancora misterioso rimane il contesto in cui si formò Giovanni, generalmente identificato in un non meglio precisato “ambito lombardo-ligure”. Come tentare dunque di ricostruire il percorso di formazione del Bissonese prima dell’incontro con Domenico? D’aiuto resta l’accostamento alla più studiata storia giovanile di quest’ultimo, che ancora una volta può essere consultata come cartina tornasole per chiarire l’attività del nostro bissonese, evidenziando lo stretto legame che unì le loro carriere.

75 Sulle vicende legate al convento domenicano ci si dilungherà al paragrafo 3.2. 76 Per la scansione precisa di questi interventi vedi paragrafo 3.2.

77 Per ricapitolare Giovanni sarebbe impegnato dunque in un ruolo gestionale e scultoreo per la facciata

del palazzo di Giacomo Spinola, in veste di caput magister per i lavori di ammodernamento per il complesso di Santa Maria di Castello e come imprenditore per la compravendita dei marmi per la cappella del Battista, in un periodo compreso verosimilmente tra il 1447 e il 1448.

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Nato intorno alla seconda metà degli anni venti e formatosi nella Firenze del primo Rinascimento, presso la bottega brunelleschiana, da cui si allontana nel 1446, Domenico compare nei documenti genovesi un paio di anni dopo, ingaggiato per la decorazione della cappella del Battista78. Le vie intraprese dal Gagini prima di questa data per il capoluogo ligure

sono ignote, sebbene la critica abbia speso diverse ipotesi, tutte verosimili e per niente in contrasto fra loro, per tentare di individuarle. Nella prima metà del secolo molti artefici fiorentini si mossero verso il nord Italia alla ricerca di importanti committenze: così fecero, ad esempio, Donatello, Nicolò Lamberti, Lorenzo Ghiberti, Paolo Uccello. Non è escluso, pertanto, che anche Domenico seguisse questi canali di spostamento politico-culturali. Gli elementi che spingono la critica ad ammettere una parentesi veneta dello scultore sono di duplice natura: in primo luogo stilistica, per cui dal punto di vista formale il Gagini avrebbe tratto giovamento dalla visione dei lavori che Donatello stava conducendo a Padova, cui, in effetti, attingono a piene mani i marmi genovesi; oggettuale, in secondo luogo, visto che resta da spiegare la presenza sull’isolotto di Torcello di una statua della Vergine di piccolo formato, ricondotta per vie stilistiche e un generale consenso al maestro lombardo79. Se entrambi questi argomenti non

paiono inconfutabili, dal momento che l’influenza di Donatello su Domenico poteva aver avuto luogo anche a Firenze e che la Vergine, datata quasi univocamente dalla critica intorno ai primi anni del soggiorno genovese, poteva essere stata inviata a Torcello da un altro luogo, in virtù delle sue contenute proporzioni, non si può escludere che una serie di contatti, nel percorso che condurrà l’artefice nel Genovesato, avessero effettivamente avuto luogo.

Non si deve inoltre dimenticare che a Venezia in quel momento vi era una fiorente colonia di artefici lombardi che si guadagnava con determinazione e combattività un posto all’interno dell’organizzazione corporativa della Serenissima, e che di lì a poco avrebbe detenuto il monopolio del mercato locale80. Un contesto culturale e produttivo assai dinamico, che aveva

visto sorgere botteghe importanti come quella dei maestri caronesi, non a caso ben inseriti nel circuito che legava l’Adriatico al mar Ligure, passando per le pianure lombarde.

Se l’idea di un breve soggiorno veneto del Gagini non mette d’accordo la critica, si potrebbe allora ipotizzare che, una volta lasciata Firenze, Domenico facesse ritorno in quelle terre d’origine da cui era migrato molti anni prima, per ingaggiare seguaci e allestire una bottega. Ipotesi plausibile, essendo consueto il rimpatrio sporadico delle maestranze impegnate presso i vari centri di lavoro; l’assenza di documenti, tuttavia, non la rende né più credibile dell’ipotesi veneziana, né necessariamente in contrasto con essa. Da Bissone Domenico sarebbe

78 Su questi aspetti vedi paragrafo 1.4.2 Domenico Gagini.

79 Cfr. BURGER 1908; KRUFT 1972, p. 257, n. 86; CAGLIOTI 1999, p. 78; DI FABIO 2004a, p. 53; DI FABIO

2011c, p. 630. Si veda inoltre il paragrafo 1.4.2.

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agevolmente disceso verso Genova, passando per Milano e seguendo uno dei consueti percorsi di migrazione battuti storicamente dagli artefici delle regioni dei laghi. Inoltre, lasciatosi alle spalle Firenze, il bissonese avrebbe potuto, all’inizio del suo tragitto, sfiorando la costa toscana, approfittarne per compiere una sosta nel più grande carrefour di marmo, altro luogo di facile frequentazione per chi lavorava la candida materia.

Questa apparente digressione sulle possibili strade intraprese da Domenico una volta lasciata Firenze è in realtà strettamente connessa al problema della formazione di Giovanni da Bissone, in quanto dovette essere presso uno di questi poli che i due conterranei si incontrarono e decisero di costituire una società. Lo stile che connota le opere di Giovanni, infatti, non ostacola la possibilità che egli, nel 1448 pressappoco coetaneo di Domenico, se non appena più anziano, avesse svolto un periodo formazione presso un ambito diverso da quello genovese, come d’altronde era successo a Domenico stesso.

Un argomento a favore di questa ipotesi è la stretta dipendenza che le sculture di Giovanni da Bissone palesano con la cultura dei maestri caronesi, verso i quali si è perciò creduto opportuno dover indirizzare la ricerca per individuare il momento formativo della sua personalità di scultore.

Se si considera che ogni centro che si ipotizza toccato da Domenico prima del trasferimento genovese vede attivi anche i maestri facenti capo a Filippo Solari e Andrea da Carona, Giovanni sembra gravitare proprio verso queste personalità, che avevano bottega a Venezia, erano impegnati nella realizzazione della tomba Borromeo a Milano (1445-57) e lavorarono a Genova, dove, negli anni Quaranta, portarono a compimento varie commesse81.

Se il linguaggio di Giovanni, nella sua peculiarità, si discosta dalle soluzioni elaborate da Domenico, che paiono scorrere parallelamente alle sue, trovando solo di rado alcuni punti di tangenza, il legame con l’unica altra bottega notoriamente attiva in città viene spontaneo, rivelandosi congeniale in termini di stile. Sembra infatti grande il debito del bissonese verso la grammatica formale, intrisa di suggestioni archeologiche, espressioni transalpine e inflessioni tardogotiche, che i caronesi, suoi conterranei, avevano con successo esportato in tutto il nord Italia, a prescindere dal fatto che la sua formazione fosse avvenuta in qualche raffinato cantiere veneto, presso il borgo di Castiglione Olona, nella cosmopolita Milano o, più economicamente, in Genova stessa. Qui, tra l’altro, i caronesi dovettero distinguersi grazie ad importanti imprese che valsero loro la commissione del monumentale tabernacolo da erigersi in cattedrale. La personale declinazione dello stile che costoro promuovevano, arricchita da Giovanni con una carica espressiva tutta propria, che trasforma i volti trasognati degli angeli reggi-cortina del sepolcro Spinola nei due concentrati guerrieri del portale Doria di piazza san Matteo (non a caso

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spesso definiti mantegneschi), non tradisce il gusto per vesti elegantemente panneggiate, la particolarizzazione naturalistica, le fiabesche composizioni e le citazioni classiche, tipiche del lessico caronese82.

Tra le ipotesi presentate, sembra più probabile che la formazione di Giovanni avesse avuto luogo tra Genova e Milano, dove i modelli offerti dal tradizionale ambiente cosmopolita della cultura tardogotica lombarda costituivano un indispensabile punto di partenza, come si evince