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3.2.1 Design: un driver dell’economia italiana74

Il design rappresenta un modus operandi non solo legato alla risoluzione di problemi estetici, ma alla capacità di gestire e risolvere problemi complessi: dall’ideazione di nuovi prodotti, all’individuazione di nuovi mercati, fino alla ricerca di nuovi significati. Questa accezione è particolarmente adeguata al design italiano, capace di dare vita ad oggetti quotidiani che incorporano un valore culturale prima che economico.

Il premio Nobel Paul Krugman sostiene che dopo più di due secoli la spinta economica della seconda rivo- luzione industriale si è esaurita, e con essa è finita anche l’idea dello sviluppo permanente, sia economico sia sociale75. Krugman, e prima di lui Larry Summers Ministro dell’economia USA, giunge alla conclusione

che da parecchi decenni la crescita reale dell’economia americana (e quindi dell’Occidente) è prossima allo zero, e che è molto probabile che dovremo riabituarci a una condizione di sviluppo molto lento e molto simile ai secoli pre seconda rivoluzione industriale. Le diverse ragioni per cui si è determinata que- sta crisi storica esulano dal tema di questo scritto, però almeno una che ha effetti diretti sul design, vale la pena citarla: la sempre maggiore disuguaglianza che ha inflitto un ridimensionamento drammatico della classe media in Occidente. Basta pensare che i benefici della crescita americana degli ultimi decenni è andata nelle mani dell’1% più ricco della popolazione che, per sua natura, accumula molto e spende molto meno di quanto ha sottratto alla ricchezza collettiva prodotta, per cui quella stessa abbondante ricchezza non viene impiegata in altrettanti investimenti produttivi. La sempre maggiore polarizzazione dell’economia in Occidente ha certamente influito, ad esempio, sulla percezione generale del design

74 Realizzato in collaborazione con Carlo Forcolini - Direttorescientifico IED.

75 Di fatto, le bolle speculative che hanno fatto implodere l’economia mondiale (l’ultima delle quali la crisi dei subprime) hanno avuto l’effetto paradossale di ri-vitalizzare solo apparentemente (nelsenso di un sostegno drogato dei consumi) l’economia america- na edi conseguenza quella mondiale, per poi condurla al tracollogenerale.

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come lusso, allontanandolo sempre più dalla sua ragione storica di cultura propria della classe media.

Verso l’alto abbiamo il lusso dell’alto artigianato e dei grandi brand, verso il basso abbiamo Ikea. Il design, che con la produzione industriale prometteva innovazione creativa e funzionalità, unitamente a innova- zione tecnologica nei materiali e nei processi, che fine farà se la platea dei suoi consumatori si riduce sempre più? Ma se questa idea di design, nata in un preciso momento storico e tarata sulle caratteristi- che della classe media della società in cui si è sviluppata, sta oggi assumendo nuove connotazioni, altre classe medie stanno emergendo in altri Paesi del mondo. È proprio in questi nuovi mercati che il design come produzione culturale della classe media ha ancora possibilità di crescita.

Oggi si fa un gran parlare di design e tutti i giorni appaiono innovazioni che ci proiettano in un mondo tecnologico sempre oltre, che sottende un’idea ottimistica di prosperità futura per tutti. Alcuni econo- misti che analizzano la questione dell’offerta e non della domanda, come Krugman, sostengono che la produzione riferita al digitale ha grandi effetti sociali, ma che la sua spinta reale sulla produttività si è fermata a un paio di decenni fa e che certamente non produce gli effetti straordinari della seconda rivo- luzione industriale. Queste considerazioni, di stretta osservanza economica, non colgono la portata rivo- luzionaria sul piano sociale delle innovazioni tecnologiche. Di fatto queste tecnologie sono un supporto

per i ricercatori che favoriranno certamente, come già sta avvenendo, le invenzioni di nuovi materiali e

l’apertura di scenari del tutto inediti dovuti alle nano-tecnologie. Fattori questi ultimi che avranno un impatto in tutti gli ambiti industriali e che costringeranno i designer (come in parte stanno già facendo) a ridisegnare il mondo secondo parametri più complessi quali: Forma estetica e sensoriale, Funzione/i

arricchite, Comunicazione (entrata ormai di prepotenza in ogni ambito del progetto) e Sostenibilità am- bientale/Recycle life e riuso.

In un mondo abitato da 7 miliardi e mezzo di persone che, ogni giorno in misura crescente è chiamato a trovare soluzioni innovative di fronte alla scarsità delle risorse e alla crescita dei rifiuti, la sfida posta dalla sostenibilità ha aperto un campo d’azione enorme per il design. In questo ambito, il concetto chiave che si sta facendo strada è quello del life cycle assessment o valutazione del ciclo di vita, ossia un metodo che fornisce indicazioni su come progettare un oggetto verificando i processi di produzione, d’uso e di dismis- sione. Indispensabile in questo senso è la funzione dell’eco-design, grazie al quale è possibile concepire prodotti che durino nel tempo, che siano costituiti da componenti identificabili e separabili, in modo da poter essere facilmente disassemblati e riciclati, e la cui realizzazione richieda meno energia e materie prime. In questo campo l’Italia ha saputo accreditarsi a livello mondiale per la capacità dimostrata di

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incorporare queste istanze ambientali nel sistema produttivo nazionale, che fa perno sul settore manifat- turiero. La green economy è diventata infatti uno dei punto di forza dell’innovazione made in Italy. È così che le lampade che hanno fatto la storia del design trovano nuova vita grazie alle bioplastiche prodotte con gli scarti di lavorazione dell’industria alimentare. L’azienda altoatesima FLOS, ad esempio, ha lanciato sul mercato il primo prodotto al mondo realizzato con la bio plastica PHAs, biodegradabile in acqua al 100%. Miss Sissi, la lampada disegnata nel 1991 da Philippe Starck e diventata un’icona nel design dell’il- luminazione, finora realizzata in policarbonato, oggi è disponibile in bio-plastica, ottenuta dai residui di produzione dello zucchero da barbabietola e canna. Materiali e strutture innovativi, che permettono di dare vita a forme inedite – ora esilissime e minimali, ora morbide e fiabesche – e a sorprendenti effetti luminosi e cromatici. Ricorre all’uso di materiali ecosostenibili anche la serie di lampade In-Ei, realizzata per Artemide dal fashion designer Issey Miyake con una fibra riciclata (ricavata da bottiglie di Pet), che al risparmio energetico unisce la capacità di creare atmosfere rarefatte e sognanti, oltre alla possibilità di essere trattata come il tessuto di un abito, ottenendo effetti che ricordano gli origami. Ma anche sor- genti luminose sempre più efficienti: Artemide vanta infatti collaborazioni con il Politecnico di Milano in progetti tesi a migliorare l’efficienza dei prodotti. Ne è un esempio Solar Tree, la lampada solare a Led progettata da Ross Lovegrove, scelta per illuminare la piazza progettata da Gae Aulenti nel complesso di Porta Nuova a Milano. Il progetto è un tentativo riuscito di far convergere le tecnologie più avanzate con le esigenze estetiche dello spazio urbano, attraverso l’uso di energie rinnovabili. Si tratta di un albero sinuoso con “frutti” ecologicamente intelligenti: le bolle con i Led si illuminano di notte grazie alla luce solare accumulata durante il giorno dai pannelli solari.

Oltre all’illuminotecnica, all’interno del manifatturiero, anche l’industria del legno-arredo è sempre più impegnata nell’eco-design. Pioniere di questo approccio in Italia è Valcucine: fin dagli anni Ottanta, l’a- zienda di Pordenone ha puntato su alta gamma e ecocompatibilità, mettendo a punto innovazioni che poi si sono diffuse in tutto il comparto. È sua la cucina in alluminio e vetro temprato, totalmente ricicla- bile e a zero emissioni. Mutuando una tecnologia dal settore automobilistico, Valcucine ha lanciato Mec-

canica, un sistema rivoluzionario di cucina dematerializzata, progettata utilizzando soli ripiani e cestoni.

Anche le innovative ante in tessuto e in metallo sono dematerializzate grazie ai minimi spessori e utilizzi di materiale: un telaio rivestito nelle prime e uno spessore di 2mm per le seconde. Nessun utilizzo di colle e, dunque, nessuna traccia di formaldeide. Meccanica viene proposta inoltre con un particolare piano in

RE-Y-STONE, un materiale biocomposito di carta riciclata post-consumo e resina naturale, residuo fibroso

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al 90% e riciclabile al 100%.

Anche nel comparto degli accessori c’è chi ha focalizzato l’attenzione sul fine vita dei prodotti, come Car-

mina Campus, marchio creato alla fine del 2006 da Ilaria Venturini Fendi per realizzare borse, accessori

e mobili, per i quali vengono utilizzate materie prime di riuso. Il know-how di Ilaria, come designer di accessori di alta gamma, viene impiegato per la realizzazione di pezzi unici ed originali.

I campi di applicazione dell’eco-design sono numerosi e abbracciano tutti i settori che hanno fatto il suc- cesso del made in Italy, compreso quello della ceramica. È possibile, ad esempio, sfruttare i rivestimenti ceramici come superfici per la produzione di energia rinnovabile: è questo il caso dell’integrazione del fotovoltaico nella piastrelle. Si tratta di un settore di applicazione in grande fermento: l’effetto viene ottenuto incapsulando nella superficie della piastrella uno strato fotovoltaico attivo, costituito da silicio amorfo. In questo modo, il pannello fotovoltaico diventa un componente del design architettonico dell’e- dificio e può essere utilizzato persino nelle aree di interesse storico. Una casa interamente rivestita con simili piastrelle è in grado di produrre almeno il 30% dell’energia necessaria agli appartamenti in essa ospitati. Fra le prime lastre ceramiche fotovoltaiche, lanciate già da un paio di anni, ci sono Laminam

Energia del Gruppo System e Kerlite KW dell’azienda Cotto DEste.

Queste innovazioni in progress e questa nuova progettualità non sono ancora l’invenzione della lampadi- na ma il metodo della loro ricerca e gli stessi esiti sono un aspetto peculiare della nuova era industriale, che ha modalità scientifiche, artistiche, sociali e comunicazionali mai viste prima, e i cui esiti è difficile prevedere con i criteri del passato. Era in cui il manifatturiero è tornato a rivestire un ruolo assolutamen- te centrale, poiché universalmente riconosciuto come fonte inesauribile di conoscenza. Sia perché dalle imprese manifatturiere viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata. Sia perché lo stesso fare, cioè il produrre, propone miglioramenti e avanza soluzioni nei processi e nei prodotti. Per questa ragione, troppo trascurata in passato, i maggiori governi dei Paesi avanzati, a cominciare dagli Sta- ti Uniti, si stanno impegnando al rilancio del proprio manifatturiero e a cercare di rimpatriare parte delle produzioni delocalizzate per trarre vantaggio da minori costi del lavoro e ambientali. In questo scenario l’Italia gioca un ruolo di primo piano nel mondo: grazie al suo tessuto di piccole imprese artigiane, capaci di performance uniche dal punto di vista tecnologico ed innovativo, è uno dei soli cinque Paesi al mondo a poter vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari e ad essere tra i Paesi più competitivi per quasi mille prodotti. Il quid che fa la differenza del nostro modello imprenditoriale è la capacità di far cooperare artigianato, industria e designer in una modalità che per ora non ha rivali nel mondo. Ecco perché è diventato un fattore ineludibile conferire un ruolo strategico al design e all’insie-

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me della attività creative nella politica industriale del Paese. Non solo per la sua popolarità e incidenza economica (2,7% del PIL76), ma soprattutto per la sua capacità di diffondere conoscenza ed innovazione

nell’intero sistema economico. Un’assunzione di ruolo della politica importantissima per alcune ragioni. La prima è che, malgrado il design italiano sia celebrato in tutto il mondo, in Italia è ancora una cultura minoritaria ed elitaria. La seconda è che nei Paesi avanzati lo Stato è il primo cliente delle imprese design oriented, contribuendo al loro sviluppo a all’implementazione della cultura del design a livello naziona- le. La terza è che questo tipo di imprese mantengono un indotto artigianale di piccole e micro imprese importantissimo per l’economia e la sopravvivenza economica di interi territori. La quarta è che queste aziende vendono dal 50% all’80% dei loro prodotti all’estero. Infine, in Italia quello che viene chiamato

Sistema Design non è per nulla un sistema, bensì un insieme di attività e iniziative, a volte davvero straor-

dinarie, che si muovono motu proprio. Università, imprese, progettisti, distributori, editori, associazioni ecc. operano fuori da un quadro di riferimento strategico in grado di coordinare le varie forze in campo. Enrico Moretti, docente all’Università della California a Berkeley, sostiene che “il modo più efficace per creare posti per i lavoratori meno qualificati è attrarre imprese hi-tech con dipendenti altamente qualifi- cati”77 perché per ognuno di questi dipendenti, si creano cinque posti di lavoro non qualificati. Barbieri,

camerieri, fattorini, parcheggiatori e anche designer, sono al traino, secondo l’economista italiano, di ingegneri specializzati nelle alte tecnologie informatiche. Sostiene sempre Moretti, che per aver perso l’Italia due industrie fondamentali come quelle del computer e della farmaceutica, il nostro Paese rischia di diventare un insieme di città e distretti industriali in lento declino rispetto ai più avanzati Paesi euro- pei. Previsioni infauste che però non tengono conto di alcuni fattori chiave. Infatti, se è vero che l’Italia ha perso alcune industrie strategiche, è pur vero che è ancora tra le prime dieci potenze industriali del mondo. Inoltre, Moretti non valuta un fattore importantissimo: la Storia di un Paese che, unito soltanto da un secolo e mezzo, ha generato saperi multiformi in un contesto geografico lungo e stretto dove le prossimità delle diversità territoriali e culturali costituiscono un caso unico al mondo, a differenza degli Usa che hanno una storia recente e che si sviluppano orizzontalmente su un territorio che è circa 32 volte l’Italia. Un terzo fattore è l’abilità di un Paese abituato a importare materiali per trasformarli con intelligenza e bellezza per rivenderli agli stessi fornitori d’origine. La sottovalutazione di questi fattori im-

76 Il dato non tiene conto solo del design come produzione di stile, maanche dell’architettura, della comunicazione e branding e dell’artigianato.

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pedisce al nostro autore, di considerare il design (e in genere la creatività non necessariamente hi-tech) come un vero e proprio asset economico in sé, a differenza degli Stati Uniti dove il design è considerato gregario ai grandi asset industriali, artigianato a parte. L’accordo stretto quest’anno per la realizzazione dei Google Glass tra il gigante americano e Luxottica, leader mondiale nella produzione e distribuzione di occhiali sportivi e di lusso, è emblematico da questo punto di vista. Se è vero che abbiamo perso il treno dell’innovazione tecnologica nello sviluppo della maggior parte dei dispositivi protagonisti della nostra vita quotidiana (pc, smartphone e tablet), quando la tecnologia si fa indossabile, ricerca lo stile italiano. Google ha scelto di affidarsi a Luxottica perché convincere le persone ad indossare un computer sul viso è un problema di moda, più che di innovazione tecnologica. Le due aziende formeranno così una squadra multidisciplinare dedicata a design, sviluppo, strumentazione e ingegneria dei prodotti Glass, per unire moda e lifestyle all'innovazione tecnologica.

Inoltre, a differenza degli USA, per ogni dipendente delle fabbriche design oriented italiane si valutano

altrettanti sette lavoratori nelle piccole imprese del territorio. Certo, i distretti italiani sono in una diffi-

cile transizione: tra il “non più e il non ancora”78. Progettare e saper fare un buon prodotto non basta più,

se il territorio non si contamina con le metropoli, i saperi analogici dei maestri artigiani con le tecnologie digitali. Il motore di questa fase transitoria è lo stesso di sempre: la cultura del progetto. Una cultura che ha dilatato enormemente i suoi confini. E se la prossimità territoriale e l’estensione globale della rete sono la condizione operativa anche dei maker (il fenomeno più visibile della metaformosi in atto, in quanto rivoluziona i modi della produzione e della vendita), esistono altresì una quantità di nuove

professioni, dal Digital Media Manager all’Interaction Designer, dal Trans Media Producer all’Hospitality

Designer, solo per citarne alcune, di cui solo recentemente si è iniziato a parlare e i cui protagonisti sono

i giovanissimi nativi digitali. Professionisti in grado di passare da una piattaforma all’altra, dalle immagini ai testi, dalla musica ai video, figure dalle competenze poliedriche che devono gestire forme di progetto complesse. Queste nuove professioni saranno sempre più richieste dall’enorme mercato dei Media. Per questo, il loro inserimento nel mondo del lavoro sarà del tutto lineare. Si tratta infatti di competenze utili a migliorare un sistema forte nella produzione, ma tradizionalmente debole nella distribuzione. Ecco che l’Italia avanza anche su un fronte in cui, fino ad oggi, era rimasto indietro: il design dei servizi. Negli ulti- mi anni si sono moltiplicate le realtà e i soggetti che sviluppano modelli più convincenti per le vendite al

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dettaglio (retail) e sperimentano le vie dell’e-commerce. La vendita attraverso lo smart market è, infatti, l’altra metà del cielo per coloro che fino ad oggi hanno considerato la questione solo dal punto di vista del progetto e della produzione. Per questo tipo di mercato servono competenze nuove, perchè la ven- dita via Internet, se non è riferita a brand famosi, non risponde né ai criteri né alle strutture tradizionali del marketing. È davvero semplicistico pensare che basta fare un sito e poco più per essere sulla Rete e inseguire il miraggio della drastica riduzione del prezzo di vendita finale. Quello che non va scordato sono le tre regole d’oro del marketing online: essere presenti online, coinvolgere gli utenti e creare comunità. Non dimenticando mai che Twitter, Facebook e tutti i social sono portatori di emozioni (positive o negati- ve) e che la promozione negli smart market avviene attraverso la pubblicità generata dagli utenti. Quello che offrono le nuove piattaforme non è solo una vetrina dove acquistare i prodotti, ma anche luoghi dove creare inedite relazioni (tra consumatori, tra produttori e consumatori, tra produttori e fornitori, etc.), dove ci si sente parte di una comunità che dialoga e si riunisce online per discutere di prodotti e servizi e magari suggerire di svilupparne di nuovi. Se è vero che in Italia le vendite online hanno percentuali più basse che negli altri Paesi occidentali, è altrettanto vero che, nell’ambito del Furniture Design, dal 2011 al 2013, si è registrato un salto dall’1% al 3%. Dato che fa ben sperare, considerando che in Italia solo il 34% di chi naviga in rete acquista online, contro Germania e Inghilterra dove la percentuale sale al 90%79.

Queste comunità trovano nei siti e nei social media quanto può soddisfare i loro bisogni, e Internet fun- ziona come una sorta di “sistema limbico”, in grado di trasferire informazioni ed emozioni, superando qualsiasi barriera sociale, geografica e ideologica. Un esempio su tutti è l’inglese Not just a Label, una piattaforma digitale globale che sostiene e diffonde il linguaggio e i prodotti dei nuovi fashion designer. Il suo fondatore italiano, Stefan Siegel, ha capito prima di altri che il solo brand non basta più, ma a fare la differenza è l’energia e la creatività di una community di oltre 13.000 designer. In pochi anni Njal è diventata la sorgente di riferimento per ogni ufficio stile nel mondo, dal punto di vista ispirazionale su prodotto e styling, oltre che luogo preferito da star globali, fashion victims e consumatori evoluti, dove acquistare vestiti e accessori. È qui che industria e talento s’incontrano, dove i consumatori trovano pro- dotti senza distribuzione, showroom o rappresentazione globale. Ma non è solo un enorme market place della creatività con e-shop collegato. La tensione del fondatore è sociale e più ampia: Njal cerca storie vere, fatte da artigiani che incontrano talenti creativi per dare vita ad un’eccellenza culturale e produttiva

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basata su un mix di locale, ispirazione contemporanea, tradizioni e artigianato. Il tutto con una fortissima