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L’interventismo di Trump nell’era della globalizzazione: ritorno al protezionismo?

L’INTERVENTISMO AMERICANO DAL NEW DEAL A

1.11 L’interventismo di Trump nell’era della globalizzazione: ritorno al protezionismo?

Passando, in ultima battuta, all’attuale interventismo statunitense e ai suoi riflessi sulla libertà di iniziativa economica, sembrerebbe che la profezia del federalismo presidenziale in senso stretto trovi la sua emblematicità dietro la figura molto discussa di Donald Trump, il cui piano politico sarebbe orientato a ribaltare la politica dell’Amministrazione uscente ponendosi come obiettivo prioritario la revisione della politica economica e il suo consolidato sistema di alleanze.

Insediatosi alla Casa Bianca ha mostrato fin da subito la tendenza a scavalcare il Congresso, raggiugendo un record nei suoi primi “cento giorni” di presidenza attraverso la sottoscrizione di 28 proposte di legge e 24 ordini esecutivi, l’elaborazione di 22 memorandum presidenziali e 20 proclami213.

L’interventismo di Trump opera a maglie larghe in vari campi, da quelli ideologici (non a caso la coniazione dello slogan

213 In realtà, nonostante il successo iniziale si è affermato un orientamento anti

presidenziale che ha bloccato alcuni progetti quali ad esempio il muro al confine col Messico o l’abolizione dell’assicurazione sanitaria obbligatoria introdotta da Obama

117 elettorale “American first” che oltre a sottolineare l’importanza dell’America in campo internazionale, evidenzia la priorità dei problemi socio-economici nazionali) a quelli ambientali purtroppo in questo caso allentando la rigidità delle norme e riducendo del 30% i fondi dell’EPA (Enviromental Protection Agency), l’Ente governativo per la protezione ambientale.

A tal proposito, bisogna sottolineare come un interventismo non calibrato in alcuni settori delicati come quello per ultimo citato può portare a conseguenze non irrilevanti.

Di fatto, il Presidente in carica ha annunciato di voler recedere dall’Accordo di Parigi214 teso a contrastare le emissioni inquinanti in tutto il mondo per poi fare un passo indietro e richiedere una trattativa sulle condizioni (trattativa negata).

Nell’era della globalizzazione il venir meno ad alcune alleanze fondamentali215 e a degli Accordi importanti come quello appena citato, ha in qualche modo ridotto l’influenza della potenza americana negli equilibri mondiali.

Emerge in questo senso una tendenza isolazionista di fondo che può essere racchiusa in alcune correnti di pensiero

214 L’Accordo, firmato nel 2015 dai delegati di 195 Paesi, prevede quattro principali

impegni per i Paesi firmatari: mantenere l’aumento di temperatura inferiore ai 2 gradi, e compieresforzi per mantenerlo entro 1,5 gradi; smettere di incrementare le emissioni di gas serra il prima possibile e raggiungere nella seconda parte del secolo il momento in cui la produzione di nuovi gas serra sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente; controllare i progressi compiuti ogni cinque anni, tramite nuove Conferenze; versare 100 miliardi di dollari ogni anno ai paesi più poveri per aiutarli a sviluppare fonti di energia meno inquinanti.

118 neoconservatrici secondo le quali «gli Stati Uniti devono preoccuparsi più di quanto avviene vicino a casa che delle sorti del mondo»216. E, così, anche sotto il profilo economico, alleanze come la Trans-Pacific Partnership (TPP) sono da abrogare o accordi internazionali come NAFTA e NATO da rivedere.

Il ritiro dal TTP denuncia uno scacco matto all’imprenditorialità statunitense, dal momento che lo scopo dello stesso è quello di «promuovere gli scambi e gli investimenti tra i paesi partner TPP, per promuovere l'innovazione, la crescita economica e lo sviluppo, e per sostenere la creazione e il mantenimento di posti di lavoro». Infatti, ne è conseguito l’accordo bilaterale Europa-Giappone che ha consacrato la prima come principale partner nipponico, proprio alla luce del ritiro degli Stati Uniti, oltre a prevedere anche dei benefici per l’economia canadese.

Il protezionismo di Trump sembrerebbe lasciare traccia anche nelle trattative in corso per la modifica del NAFTA, ossia un trattato che, firmato nel 1992 ed entrato in vigore due anni dopo, regola il libero scambio commerciale tra Stati Uniti, Canada e Messico ed è modellato sul già esistente accordo di libero commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA).

216 In tal senso, P. MAGLIAVACCA, Un futuro da costruire bene, in XXI Rapporto

sull’economia globale, M. Deaglio (a cura di), 2017, p. 113 ss, ove si cita R. Kaplan

in una sua espressione «sistemare il Messico è più importante che sistemare l’Afghanistan», evidenziando la palese direzione della politica di Trump.

119 Nello specifico, tra gli obiettivi dell’accordo - oltre alla concorrenza leale tra le aziende dei paesi firmatari – emerge la volontà di eliminare le barriere alle importazioni per facilitare la libera circolazione delle merci nell’area interessata.

Ora, rispetto a questo scopo, la politica di Trump sembrerebbe marciare in senso totalmente opposto, minacciando gli interessi dei consumatori e delle imprese che da trent’anni sono protetti dall’accordo.

La revoca della firma al TTP e la richiesta di revisione del NAFTA rappresentano il tentativo dell’Amministrazione in carica di sfaldare quelle istituzioni costruite «per garantire un quadro sicuro per i commerci, per le catene di produzione transnazionali (le global value chains) e gli scambi tecnologici e finanziari che legano le imprese americane ad una ampia rete di subfornitori sparsi per il mondo»217.

Naturalmente ciò avvantaggia l’economia di paesi emergenti come la Cina o riemergenti come la Russia e definisce nuove linee di cooperazione dell’UE che, incurante della perdita del Regno Unito, si appresta ad instaurare il libero scambio con paesi come il Canada, il Vietnam o il già citato Giappone218.

217 G. SACERDOTI, Lo stallo dell’Organizzazione mondiale del Commercio davanti

alla sfida di Trump: difficoltà passeggere o crisi del multilateralismo?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 1/2018, Il Mulino, p. 7.

218 G. SACERDOTI, op. ult. cit., p. 8 il quale sottolinea l’atteggiamento di

120 Quello che si evince, dunque, è un atteggiamento di disimpegno della politica economica trumpiana e il rifiuto di qualsiasi collaborazione internazionale, trascurando gli interessi globali sociali (vedi il clima) ed economici.

A tal proposito, infatti, ciò che colpisce è una chiusura drastica nei confronti delle importazioni asiatiche219 di Corea, Cina e India attraverso l’imposizione di dazi a una percentuale del 30 o 50% rispetto alla previsione di una percentuale massima del 20% (che, tra l’altro, entra in gioco quando è accertata una vendita sotto costo dei prodotti interni).

Si sa, gli Stati Uniti hanno sempre fatto tendenza e qualsiasi cosa fosse successa al loro interno si sarebbe automaticamente riversata sull’intera società globale. E, così, bisogna ammettere che la preoccupante direzione americana verso il protezionismo possa innescare un “ritorno agli Stati” a scapito di organizzazione sovranazionali commerciali come il WTO che ha tra i suoi compiti principali quello di garantire il rispetto delle regole commerciali stabilite a livello multilaterale (e attraverso un suo sistema di risoluzione delle controversie) e che ad ora è messo in crisi dall’Amministrazione di Trump.

È evidente che una politica economica fondata sull’intervento diretto degli Stati e quindi sulla salvaguardia delle

219 Si fa riferimento alle importazioni di pannelli solari e lavatrici di maggiore

121 proprie imprese risulta controcorrente e non prende in considerazione il contesto globale in cui queste operano. Esse richiedono piuttosto forme di cooperazione sovranazionali e la rincorsa della Cina al WFO ne è la testimonianza.

122 CAPITOLO IV

LA LIBERTA’ D’IMPRESA TRA NORMATIVE