Il Trattato Bilaterale sugli Investimenti tra Cina e UE
2. Investire in Cina e dalla Cina: la situazione attuale
In Cina, gli investimenti esteri sono soggetti ad una disciplina che varia secondo il settore interessato o dell’attività svolta. In alcuni casi essi sono incoraggiati, quindi non sono previste particolari limitazioni; in altri vi sono delle restrizioni e, dunque, la possibilità di investire è subordinata al rispetto di talune condizioni; in altri casi ancora gli investimenti sono proibiti.
Gli investimenti diretti esteri in Cina possono essere gestiti in collaborazione con un partner locale (e in tal caso assumono la forma della Joint Venture), oppure con la costituzione di una società a responsabilità limitata con capitale interamente controllato da un investitore straniero (Wholly Foreign Owned Enterprise, “WFOE”).
Prima di decidere la forma dell’investimento da adottare, il soggetto che investe deve verificare nel “Catalogue for the Guidance of Foreign Investment Industries” se il settore industriale del progetto di investimento ricada tra quelli nei quali gli investimenti stranieri sono incoraggiati, ristretti o proibiti.
I progetti incoraggiati beneficiano di procedure d’approvazione più semplici, d’incentivi per i dazi doganali e per l’IVA sulle importazioni.
I progetti in settori ristretti sono subordinati al rilascio di un’autorizzazione. La restrizione riguarda settori che utilizzano tecnologie obsolete o dannose per l'ʹambiente o settori ritenuti strategici e di particolare rilevanza economica e finanziaria, tanto da richiedere una regolazione della presenza straniera negli stessi.
I settori proibiti agli investimenti stranieri sono invece quelli che pongono a rischio la sicurezza nazionale, pregiudicano l'ʹinteresse pubblico, causano inquinamento, danneggiano le risorse naturali, utilizzano terreni agricoli per fini non agricoli o rappresentano una minaccia per le installazioni militari.
Dal 2000 si è registrata una tendenza degli investitori a preferire l’utilizzo di Wholly Foreign Owned Enterprises, per non incorrere nelle difficoltà e nei potenziali conflitti collegati alla presenza di un partner locale.
Per favorire tale forma di investimento, sono stati eliminati alcuni vincoli alla sua operatività, quali, ad esempio, il vincolo che obbligava all’esportazione della maggior parte dei prodotti,
le limitazioni all’acquisto delle materie prime (ora concesso sia sul mercato interno sia su quello internazionale) e le autorizzazioni governative che erano richieste per effettuare transazioni internazionali.
Tuttavia, il ricorso a una joint venture può essere una scelta obbligata qualora l’investimento ricada in uno dei settori per i quali il governo cinese impone la presenza di un partner locale. Può anche rappresentare una buona soluzione per gli investitori che desiderino beneficiare di strutture esistenti, forza lavoro e canali di distribuzione commerciale già attivi. La joint venture può poi godere di un trattamento di riduzione o di esenzione fiscale, in conformità con le leggi tributarie ed i regolamenti amministrativi.
La joint venture è stata uno dei principali punti oggetto della riforma del diritto del commercio internazionale iniziata in Cina alla fine degli anni Settanta (la “open door policy"ʺ) ed è oggi disciplinata dalla “Legge della Repubblica Popolare Cinese sulle Joint-‐‑Ventures Sino-‐‑Straniere” del 13 Aprile 1988.
Dal punto di vista giuridico, una joint venture in Cina assume la forma di società a responsabilità limitata di diritto societario cinese. L'ʹaccordo di joint venture, il contratto e lo statuto sottoscritto dalle parti per l'ʹimpresa devono essere presentati agli uffici di Stato competenti per l'ʹesame e approvazione; l'ʹorgano responsabile ha tre mesi di tempo per decidere se approvare o meno tali documenti. In caso di approvazione, la joint venture deve registrarsi presso il dipartimento amministrativo competente per l'ʹindustria e il commercio,
ottenendo così la licenza di business per iniziare la propria attività.
La normativa cinese distingue tra "ʺEquity Joint Venture” (EJV) e "ʺCo-‐‑operative Joint Venture"ʺ (CJV). Le prime sono le più diffuse: si tratta di società a responsabilità limitata in cui la partecipazione dell’investitore straniero non deve essere inferiore al 25% del capitale sociale e i profitti e le perdite sono ripartiti tra i soci proporzionalmente alle loro quote. Le seconde offrono maggiore flessibilità di accordi tra le parti; possono essere strutturate come società a responsabilità limitata o illimitata e, a differenza delle Equity Joint Venture, i profitti e le perdite possono essere ripartiti in base ad accordi discrezionali tra le parti e non devono necessariamente essere proporzionali alla quota di capitale sociale detenuto.
Gli investitori stranieri spesso ritengono, errando, che detenere almeno il 51% delle quote e avere il controllo del consiglio d'ʹamministrazione equivalga ad avere il controllo della compagnia. In realtà, in molti casi la parte straniera, in cambio della quota di maggioranza della proprietà, cede al partner cinese il controllo sul “timbro d’azienda”, il potere di nominare il representative director e di revocare la sua nomina, il potere di nominare e revocare il general manager. Il controllo del timbro d’azienda concede a chi lo detiene la facoltà di firmare contratti in nome della ditta e di gestire i contatti con le banche e con i fornitori; pertanto, anche se l’investitore straniero detenesse la maggioranza del consiglio d'ʹamministrazione, del
potere sulle operazioni potrebbe ugualmente disporre la controparte cinese.
L’affidabilità del partner non è, d’altronde, facile da accertare, poiché manca un registro pubblico che accerti la pendenza di giudizi a carico del soggetto.
Nei capitoli precedenti abbiamo evidenziato come, dopo un periodo piuttosto lungo che ha visto molte imprese occidentali dislocare la propria produzione e/o investire in Cina, questa tendenza si stia ora invertendo ed è la Cina ad espandere sempre più la propria presenza economica ad ovest, specialmente nell’Europa dell’est e nei Paesi europei dell’area mediterranea maggiormente colpiti dalla crisi.
Soprattutto se paragonato a quello cinese, il mercato europeo è catalogabile come tendenzialmente aperto. Tuttavia, ciò non vuol dire che gli investitori cinesi non incontrino, nell’investire in Europa, ostacoli che un accordo sugli investimenti potrebbe rimuovere. Secondo un sondaggio della European Union Chamber of Commerce in China (EUCCC), il 78% delle imprese cinesi intervistate ha riscontrato difficoltà nel gestire operazioni di business in Europa ed hanno indicato come principali cause l’ottenimento del visto e del permesso di lavoro per i dipendenti cinesi, la riscossione delle imposte indirette e gli appesantimenti burocratici (“red tape”). Inoltre alcuni settori quali energia, infrastrutture, terzo settore e telecomunicazioni presentano restrizioni in termini di accesso degli investitori stranieri.
Gli investimenti cinesi in Europa sono destinati ad aumentare considerevolmente nel prossimo futuro e gli investitori cinesi
richiedono protezione da eventuali azioni arbitrarie e
discriminatorie da parte dei governi europei.