INDICE
Introduzione
Capitolo 1. Relazioni UE-‐‑Cina 1. Premessa
2. Commercio UE-‐‑Cina
2.1 La Cina e l’investimento diretto estero 2.2 Il mercato degli appalti pubblici in Cina e nell’UE
2.3 L’acquisto da parte della Cina dei bonds europei 2.4 La cooperazione sviluppata in materia di tutela dei diritti di proprietà intellettuale tra UE e Cina Capitolo 2. L’atteggiamento dell’Unione Europea nei confronti della Cina prima e dopo la crisi economica
1. La strategia dell’UE nei confronti della Cina: un “impegno incondizionato”
2. Stati Membri e Cina: un dialogo squilibrato figura 1
figura 2
3. L’impatto della crisi economica sui rapporti tra Stati Membri e Cina
4. La reciprocità come auspicabile chiave di volta della politica UE-‐‑Cina
Capitolo 3. L’atteggiamento della Cina nei confronti dell’Unione Europea
1. Dall’ideologia al pragmatismo
2. La “strategia del potere” secondo la Cina: una
3 6 6 8 10 18 22 25 30 30 37 40 40 41 45 48 48
combinazione di strumenti di soft power e cooperazione win-‐‑win
3. La strategia cinese nei Paesi CEE16: 12 misure per entrare in Europa dalla “porta orientale”
figura 3
4. La questione ucraina e la crisi in Crimea: due opportunità per la Cina
Capitolo 4. Il Trattato Bilaterale sugli Investimenti tra Cina e UE
1. La competenza esclusiva dell’Unione in materia di investimenti: gli articoli 3 e 207 del TFUE
2. Investire in Cina e dalla Cina: la situazione attuale 3. L’Agenda Strategica di Cooperazione 2020 e le
negoziazioni per un accordo bilaterale sugli investimenti
4. L’incidenza che l’esigenza di tutelare i diritti umani può avere nello sviluppo del dialogo con la Cina 5. Il reale significato del trattato bilaterale per gli
investimenti Cina-‐‑UE: un’analisi critica Considerazioni conclusive Bibliografia 52 65 76 79 88 88 91 96 101 104 107 111
Introduzione
L’elaborato si propone di ricostruire il panorama delle relazioni tra Cina ed Europa alla luce degli ultimi sviluppi.
Il primo capitolo traccia un quadro generale delle relazioni commerciali tra i due attori internazionali. Si sofferma, poi, sul crescente ricorso della Cina ad alcuni strumenti economici per espandere e affermare la sua presenza in Europa: gli investimenti diretti, gli appalti pubblici e l’acquisto di bonds europei.
Il secondo capitolo analizza le politiche che l’UE ha adottato nei confronti della Cina. In un primo momento esse sono state basate su un rapporto costruttivo, rivelatosi fallimentare poiché sopravvalutava il potere trasformativo dell’Unione e non teneva conto della forza economica e politica della Cina; tanto da portare a quello che Fox e Godement, in “A Power Audit of EU-‐‑ China Relations” (2009), descrivono come un impegno incondizionato, che consente a Pechino di avere accesso ai benefici insiti nella cooperazione con l’Europa in maniera quasi unilaterale.
Viene poi analizzato il Partenariato Strategico Globale tra l’UE e la Cina del 2003.
Il capitolo prosegue con l’esame dei rapporti tra gli Stati Membri dell’Unione Europea e la Cina e l’impatto che su di essi
ha avuto la recente crisi economica. Gli stati membri hanno idee diverse su come rapportarsi con l’ascesa cinese, ma tutti preferiscono un approccio nazionale ad una politica integrata. Ciò crea divisioni sapientemente sfruttate da Pechino, che, invece di contrattare con l’UE nel suo insieme, interagisce tramite accordi bilaterali con i suoi Stati Membri, il cui peso negoziale sulle materie di maggiore importanza è praticamente irrilevante. Si sottolinea, quindi, la necessità di una strategia europea basata sulla reciprocità.
Il terzo capitolo descrive le teorie geopolitiche e i diversi approcci della Cina all’Unione Europea che si sono susseguiti dal 1949, anno di nascita della Repubblica Popolare Cinese, ad oggi (il leaning to one side negli anni Cinquanta, la strategia dei due fronti uniti durante la Guerra Fredda, le teorie maoiste delle zone intermedie e dei tre mondi, l’yichao duoqiang), con un graduale passaggio dall’ideologismo al pragmatismo.
Viene, dunque, fornita un’analisi della strategia del potere della Cina nella sua politica estera quale combinazione di strumenti di soft power e cooperazione win-‐‑win.
Emblematico è l’approccio adottato dalla Cina nei confronti dei Paesi dell’Europa Centro-‐‑Orientale e concretizzato nelle “Dodici Misure”. Diverse considerazioni inducono a pensare che questi accordi si inseriscano in realtà in una più ampia strategia di avvicinamento all’UE, non frontale bensì attraverso la sua “porta orientale”.
Si esaminano i problemi di compatibilità di questi accordi con la normativa europea e le interferenze che potrebbero sorgere con
l’Agenda di cooperazione strategica 2020 e con un eventuale accordo bilaterale sugli investimenti tra Unione Europea e Cina. Il capitolo si conclude soffermandosi sulla questione ucraina e sulle implicazioni che ne scaturiscono per il Paese asiatico. Il quarto e ultimo capitolo verte sulle negoziazioni per la conclusione di un Trattato Bilaterale sugli Investimenti tra Cina e UE, con cenni all’incidenza che l’esigenza di tutelare i diritti umani può avere nella sua formazione.
Sebbene la prospettiva di tale accordo sia vista da molti come una vittoria dell’UE, nell’elaborato si sostiene che esso sia un’ulteriore prova del fatto che al momento sia la Cina, più che l’UE, a dettare le regole del gioco.
Capitolo Primo
Relazioni UE-‐‑Cina
1. Premessa
L’Unione Europea e la Cina sono fortemente interconnesse. L’Unione Europea è il primo partner commerciale della Cina, mentre la Cina è per l’Unione Europea la più ampia fonte di importazioni e il secondo partner commerciale dopo gli Stati Uniti, con un commercio di beni che nel 2012 ammontava a 434 miliardi di euro e un commercio di servizi che nello stesso anno ammontava a 43 miliardi di euro.
Le loro economie congiunte formano un terzo del Prodotto Interno Lordo mondiale.
Le relazioni commerciali e finanziarie rappresentano un’importantissima fonte di ricchezza, occupazione, sviluppo e innovazione per entrambe le parti. Pertanto, le condizioni economiche di Cina e Unione Europea e le loro riforme
economiche, finanziarie e politiche hanno un impatto notevole sui loro territori. 1
Il Partenariato Strategico tra Unione Europea e Cina, basato sull’Accordo di cooperazione economica e commerciale tra le Comunità Europee e la Cina del 1985, si è ingrandito fino a includere materie quali affari esteri, sicurezza, governance dell’economia globale, cambiamenti climatici e scambio accademico, portando benefici a lungo termine ai cittadini sia dell’Unione sia della Cina.
La regolare interazione tra Unione Europea e Cina avviene principalmente tramite gli annuali summit UE-‐‑Cina, i quali si organizzano attorno a tre “pilastri” con più di cinquanta tra dialoghi politici, economici, settoriali e people-‐‑to-‐‑people. I dialoghi settoriali rivestono vari ambiti, tra i quali: politica industriale, istruzione, materia doganale, affari sociali, energia nucleare e tutela dei consumatori.
Anche tra il Parlamento Europeo, il Comitato Economico e Sociale Europeo e le loro controparti cinesi si tengono riunioni annuali, comprese quelle tra i partiti europei e il Partito Comunista Cinese.
Con riferimento allo sviluppo dei rapporti finanziari tra la Cina e l’Unione Europea vi sono quattro date fondamentali.
1 BARNIER Michel, “ China and the EU- Partners in reform” – Comunicato stampa della Commissione Europea, Discorso /14/3 del 7 Gennaio 2014 consultabile all’indirizzo internet http://europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-14-3_en.htm
La prima è il 14 febbraio 2010, quando, al summit UE-‐‑Cina allora in corso, si è raggiunto un accordo per il lancio delle negoziazioni di un trattato sugli investimenti.
Nell’Ottobre 2013 gli stati membri dell’Unione Europea hanno conferito alla Commissione Europea un mandato negoziale. Il 21 novembre 2013, nel corso del sedicesimo Summit UE-‐‑Cina, è stato annunciato il lancio delle negoziazioni per un accordo di investimento omnicomprensivo tra l’Unione Europea e la Cina. L’accordo provvederà alla progressiva liberalizzazione degli investimenti e all’eliminazione delle restrizioni per gli investitori di entrambi i mercati, così come a delineare un quadro giuridico più snello e più certo.
Infine, il 22 Gennaio 2014 si è tenuto il primo round del ciclo delle negoziazioni tra la Commissione Europea e la Cina in materia di investimenti. Il suo valore sta nel fatto che, seppure la Cina abbia già effettuato negoziazioni con i singoli Stati membri dell’Unione, questa volta le trattative si svolgono tra la Cina e l’intera Unione Europea.
2. Commercio UE-‐‑Cina
La Cina è una delle più vaste economie mondiali ed è per l’Unione Europea un importante partner commerciale. Il
commercio tra l’Unione e la Cina, infatti, è cresciuto sensibilmente negli ultimi anni.
Come riportato dalla Commissione UE per il commercio nel factsheet “Facts and figures on EU-‐‑China trade”2 la Cina rappresenta di gran lunga la principale fonte di importazioni all’interno dell’Unione Europea ed è anche diventata uno dei mercati d’esportazione dell’Unione Europea a più rapida crescita. L’Unione Europea è, a sua volta, la principale fonte di importazioni cinesi. Il volume del commercio tra Cina e UE attualmente supera il miliardo di euro al giorno.
In testa alle importazioni europee dalla Cina vi sono prodotti industriali e di consumo: macchinari e attrezzature, calzature e abbigliamento, arredamento, lampade, giocattoli. Le esportazioni dall’UE alla Cina si concentrano su macchinari e attrezzature, automobili, aerei, prodotti chimici.
Il commercio bilaterale di servizi, invece, ammonta solo ad un decimo del commercio totale di beni, e le esportazioni di servizi dell’Unione Europea corrispondono al solo venti per cento delle esportazioni europee di beni.
Di conseguenza, l’Unione Europea registra un deficit significativo nei rapporti commerciali con la Cina. Ciò è in parte un riflesso delle catene del valore globali e asiatiche, ma è anche in parte dovuto alle rimanenti barriere d’accesso al mercato cinese.
2 consultabile all’indirizzo web
I flussi di capitali rivelano un notevole potenziale non sfruttato, specialmente se si tiene conto della dimensione delle rispettive economie. La Cina rappresenta solamente il 2-‐‑3% del totale degli investimenti europei all’estero, mentre la percentuale degli investimenti cinesi in Europa sta salendo, sebbene da un livello base ancora più basso.
L’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001 ha costituito un passo importante; ha richiesto che la Cina adottasse riforme audaci e liberalizzasse parti importanti della propria economia. Tuttavia, sebbene si siano registrati progressi nell’attuazione da parte della Cina degli impegni in ambito WTO, tuttora rimangono problemi irrisolti, alcuni dei quali saranno analizzati nei prossimi paragrafi.
2.1 La Cina e l’investimento diretto estero
L’investimento diretto estero (FDI) è un investimento effettuato da una società o altro soggetto residente in un Paese rivolto a stabilire una relazione di lungo termine e ad acquisire interessi durevoli e di controllo in un’impresa residente in un altro Paese. Può comprendere l’ingresso in una joint venture, la creazione di una società sussidiaria o consociata nel Paese straniero, il trasferimento di tecnologia e di know-‐‑how.
Attualmente, l’Unione Europea rappresenta la principale fonte nonché destinazione di Foreign Direct Investment al mondo in base ai livelli di stock e flussi di capitale. La sua politica finanziaria si incentra sul garantire agli investitori europei e ai loro investimenti accesso al mercato, certezza del diritto e un ambiente nel quale condurre i propri affari che sia stabile, prevedibile, equo e adeguatamente regolamentato3.
Con il Trattato di Lisbona la materia della negoziazione degli accordi di investimento (disciplinata all’art 207 TFUE) è diventata di competenza dell’Unione (art. 3 TFUE); di conseguenza, spetta alla Commissione Europea negoziare accordi internazionali di cooperazione commerciale in nome dell’Unione.
Le linee generali della futura politica d’investimento europea si possono ritrovare nella Comunicazione della Commissione Europea “Verso una politica globale europea degli investimenti internazionali”4, che contribuisce agli obiettivi di “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” posti nella Strategia Europea 2020.
L’Unione Europea è ora la destinazione preferita dagli investitori cinesi, il cui investimento diretto in Europea è aumentato costantemente negli ultimi anni, anche se da un basso punto di partenza. Se questa tendenza persiste, e con ogni probabilità persisterà, questi investimenti, nonostante ora siano
3 http://ec.europa.eu/trade/policy/accessing-‐‑markets/investment/ 4 Bruxelles, 7.7.2010
modesti, potrebbero avere un notevole impatto sull’economia dell’Unione, specialmente nei settori manifatturiero e terziario. Prima del 1978 la Cina era un’economia chiusa che attraeva pochi investimenti transfrontalieri. Dopo le riforme negli anni ’80, gli investimenti diretti esteri passivi della Cina hanno cominciato a crescere nettamente, mentre gli investimenti diretti esteri attivi rimanevano esigui.
Dopo il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001, la Cina è diventata il secondo maggior beneficiario di investimenti diretti esteri; entro il 2010 ha raggiunto uno stock di investimenti stranieri diretti superiore a 1500 miliardi di dollari.
D’altra parte, tuttavia, l’investimento diretto all’estero attivo rimaneva scarso. Anche quando il capitale non risultava più esiguo, la Cina, per paura di una fuga di capitali analoga a quella che aveva severamente danneggiato la Russia post-‐‑ sovietica, ha mantenuto uno stretto controllo sui flussi finanziari in uscita, che, pertanto, durante gli anni ’80 erano praticamente zero. Nel corso degli anni ’90 e fino al 2004 i flussi annuali di investimenti esteri diretti attivi hanno raggiunto una media di 2 miliardi di dollari, fatta eccezione per le impennate del 1993 e del 2002 dovute alle prime company ventures all’estero nel settore petrolifero.
Nella metà degli anni 2000, il punto di svolta: l’investimento diretto estero attivo della Cina ha decollato.
La strategia del going out (Zouchuqu Zhanlue), intrapresa nel 1999 dal governo cinese per promuovere gli investimenti cinesi
all’estero, è stata proposta formalmente nel marzo 2000 durante la terza sessione del nono Congresso Nazionale del Popolo (NPC) e approvata nella quinta sessione plenaria del quindicesimo Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese nell’ottobre del 2000, quando è stato adottato il “ Decimo Piano quinquennale per l’Economia Nazionale e lo Sviluppo Sociale”.
In seguito, la strategia del going out è stata attuata con l’undicesimo piano quinquennale (2006-‐‑2010), al termine del quale, nel 2010, l’allora Premier cinese Wen Jiabao ha sottolineato la necessità di intensificare le misure di attuazione della strategia going out al fine di spronare l’industria a soddisfare le esigenze dei mercati stranieri e rafforzare la cooperazione. Ciò ha portato alla semplificazione di diversi tipi di procedure d'ʹesame e di approvazione, oltre che alla implementazione dell’autonomia delle imprese che investono oltremare e ad altri incentivi.
Dal lancio della strategia going out, gli investimenti Cinesi all’estero hanno registrato una forte ascesa, grazie anche all’enorme capacità produttiva della Cina e la sua cultura fortemente business-‐‑friendly.
La prima ondata ha riguardato principalmente imprese di Stato ed è stata diretta all’acquisizione di risorse naturali e progetti infrastrutturali tra l’Africa, l’Asia e in America Latina.
Motivi diversi hanno sospinto la seconda ondata.
Attualmente la Cina investe soprattutto in settori nei quali vuole incoraggiare la propria economia, per esempio con
l’acquisizione di aziende hi-‐‑tech europee: Geely, una casa produttrice di automobili cinese, ha comprato la svedese Volvo; nel febbraio 2014 Dongfeng, un’altra impresa cinese, ha acquistato una quota di partecipazione nella Peugeot-‐‑Citroën, casa automobilistica francese in crisi. Il 22 ottobre 2013 Alibaba, gigante cinese dell’e-‐‑commerce, ha dichiarato che avrebbe aperto una nuova divisione in America per investire esclusivamente in start-‐‑ups. Lenovo, costruttore di computer, sta preparando un’offerta per la canadese BlackBerry.5 Di recente, la Cina ha investito nell’acquisizione di un’azienda italiana di moda e numerosi Greenfield projects.
Gli investimenti cinesi assumono anche altre forme. Per esempio la città di Prato, nei pressi di Firenze, è diventata una base produzione offshore per 4800 piccole imprese Cinesi con un fatturato stimato sui 2 miliardi di euro e 40mila dipendenti cinesi.
La distribuzione geografica degli investimenti diretti all’estero in Europa segue lo schema dello stock FDI intraeuropeo. Le tre destinazioni principali corrispondono alle tre più vaste economie europee: la Francia, il Regno Unito e la Germania.6 Negli ultimi anni, la Cina ha rivolto la propria attenzione agli Stati membri dell’Unione nell’area del Mediterraneo e
5 “The Second Wave; China'ʹs Outward Investment."ʺ -‐‑ The Economist (US). 26 Ottobre 2013 , pag. 64
6 RONGXING Guo, "ʺUnderstanding the Chinese economies"ʺ, Santiago, CA: Academic Press/ Elsevier, 29 agosto 2012
dell’Europa Sud-‐‑orientale, maggiormente bisognosi di denaro cinese, così stabilendo nuove relazioni con gli Stati membri periferici dell’Unione Europea. “La Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Italia ora rappresentano il 30 % degli investimenti cinesi in Europa, e i Paesi dell’Europa Centro-‐‑orientale un altro 10% -‐‑ un ammontare sproporzionalmente elevato se si tiene conto della grandezza totale delle loro economie.
Il rischio per l’Europa è che si crei una specie di “lobby cinese” di Stati membri più piccoli all’interno dell’UE. Anche dopo il 2014 – quando la maggioranza per l’adozione di decisioni in seno al Consiglio d’Europa richiederà quindici stati membri rappresentanti il 65% della popolazione – la Cina potrebbe fare affidamento su alcuni di essi – in particolare Cipro, Malta e la Grecia-‐‑ per il blocco di alcune decisioni all’unanimità contro i propri interessi”.7
In Europa l’avanzata degli investitori cinesi suscita sia apprensione sia entusiasmo.
In realtà, essendo la Cina solo un finanziatore marginale del totale degli investimenti diretti UE, è improbabile che al momento possa determinare distorsioni del prezzo o dell’efficienza del mercato, ma l’impatto dei suoi investimenti è tuttora poco chiaro. Non si può conoscere con certezza in quale misura le imprese cinesi investano i loro capitali nell’Unione
7 GODEMENT François, PARELLO-‐‑PLESNER Jonas, RICHARD Alice, "ʺThe scramble for Europe"ʺ, European Council on Foreign Relations , 2011
Europea dal momento che il 45% dei loro flussi esterni di capitali avviene attraverso centri offshore come Hong Kong, le Isole Cayman e le Isole Vergini.
Inoltre, le imprese statali cinesi sono oggetto di massicce sovvenzioni di Stato e di conseguenza esercitano una concorrenza sleale nei confronti delle compagnie europee. Nel 2010 l’Unione Europea ha intrapreso la prima procedura anti-‐‑ sovvenzioni nei confronti dei prodotti cinesi. Nel 2013, dopo una serie di indagini, la Commissione Europea ha rilevato che aziende cinesi stavano vendendo pannelli solari in territorio europeo ad un prezzo di gran lunga inferiore il loro normale prezzo di mercato e stavano ricevendo sovvenzioni illegali, così causando un danno considerevole ai produttori europei di pannelli solari.8 A luglio Cina e Unione Europea hanno raggiunto un accordo che stabilisce un prezzo minimo e un volume limite per le importazioni europee di pannelli solari dalla Cina fino alla fine del 2015. Dazi anti-‐‑sovvenzioni e antidumping saranno imposti alle aziende che non rispetteranno tali condizioni.
A peggiorare la situazione vi è, poi, la mancanza di trasparenza delle compagnie cinesi che investono in Europa (in particolare, si presume che alcune imprese formalmente private siano in realtà possedute dallo Stato); ma c’è dell’altro.
8EUROPEAN COMMISSION , “ EU imposes definitive measures on Chinese solar panels, confirms undertaking with Chinese solar panel exporters”, IP/13/1190, 02/12/2013
Il problema posto dagli investimenti diretti cinesi nell’Unione Europa diventa ancora più chiaro se si considera l’accesso limitato, per l’Europa, ad analoghe opportunità in Cina, il cui mercato dei capitali rimane chiuso in settori “strategici”. Queste limitazioni sono possibili sulla base dei termini dell’adesione della Cina al WTO e, con l’approvazione della normativa che favorisce “l’innovazione domestica”, le barriere agli investimenti stranieri sono aumentate. “In poche parole, questo significa che la cinese Geely può comprare la svedese Volvo ma la normativa cinese può impedire il contrario.“9
Al sedicesimo Summit UE-‐‑Cina, tenutosi il 21 Novembre a Pechino, l’UE e la Cina hanno dato il via alle trattative su un accordo bilaterale di investimento.
Un tale accordo permetterebbe di semplificare il sistema di accordi bilaterali di investimento esistenti tra la Cina e ventisei Stati membri dell’UE facendoli confluire in un testo unico coerente10 ed incrementare i flussi di investimento bilaterale
rafforzando la certezza giuridica relativa al trattamento degli investitori UE in Cina e i loro cespiti (incluse le tecnologie chiave e i diritti di proprietà intellettuale), riducendo le barriere al mercato cinese e proteggendo gli investimenti europei in Cina così come gli investimenti cinesi nell’Unione Europea.11
9 GODEMENT François , PARELLO-‐‑PLESNER Jonas, RICHARD Alice, op. cit.
10EUROPEAN COMMISSION, “Commission proposes to open negotiations for an investment agreement with China“, IP/13/458 -‐‑ 23/05/2013
2.2 Il mercato degli appalti pubblici in Cina e nell’UE
Il public procurement è il processo attraverso il quale i governi acquistano beni e servizi per scopi pubblici. I governi che operano discriminazioni negli appalti favoriscono sistematicamente i prodotti domestici rispetto a quelli stranieri quando acquistano beni o servizi altrimenti similari.
Il public procurement fa spesso da sfondo a offuscamento e mancanza di chiarezza delle regole; la discriminazione negli appalti pubblici, in particolare, costituisce una forma di protezione del commercio piuttosto opaca.
Mentre il mercato europeo degli appalti è uno dei più aperti al mondo, le aziende europee non sempre hanno uguale accesso ai mercati d’appalto fuori dall’UE. Questo crea un terreno di gioco ancora più impari per le imprese UE e limita le opportunità imprenditoriali all’interno di questi mercati.
Sin dal 2006 la Cina ha utilizzato l’appalto pubblico come strumento di politica interna per promuovere lo sviluppo industriale, la salvaguardia energetica e la protezione ambientale. Inoltre, la Cina sta ora usando l’aperto mercato degli appalti pubblici europeo per espandere e affermare la sua presenza in Europa.
Nell’ultima decade le compagnie cinesi hanno costruito con successo infrastrutture a livello internazionale e ora si stanno spostando in Europa. La loro attenzione è rivolta ai Paesi della periferia europea a corto di risorse e con la necessità di
riqualificare strade, ferrovie ed edifici pubblici, ma lo stesso potrebbe ben presto accadere in Europa centrale.
Non è difficile comprendere che, in un tempo di austerità, gli Stati europei siano attratti delle economie di scala che hanno reso i beni di consumo cinesi a basso prezzo.
Le compagnie cinesi offrono prezzi convenienti -‐‑ dovuti all’utilizzo di dipendenti cinesi che lavorano secondo standard lavorativi e ambientali europei – e attraenti condizioni che non sarebbero ottenibili dalle imprese europee con gli stipendi e le condizioni finanziarie locali.
Per non attrarre l’attenzione, le aziende cinesi spesso fanno offerte tramite compagnie locali. “Laddove vi siano finanziamenti europei, i cinesi sono molto interessati, ma non vogliono apparire in prima linea”, dice un ufficiale europeo. "ʺFa parte del nostro prezzo”, ribatte un ufficiale cinese. “Noi possiamo realizzare un progetto in un anno alle nostre condizioni; altrimenti, lo stesso richiede alle imprese locali dieci anni”.12
Nel frattempo, così come per l’investimento diretto, le imprese europee vengono escluse dal corrispondente mercato in Cina. In un recente rapporto sugli appalti pubblici, la Camera di Commercio UE in Cina ha evidenziato la contorta logica secondo la quale la Repubblica Popolare Cinese respinge le offerte provenienti da Paesi esteri sebbene permetta loro di formularle.
12 Come riportato da GODEMENT François e PARELLO PLESNER Jonas con RICHARDS Alice, op. cit., pagina 6
Le imprese europee sono particolarmente adeguate alle necessità della Cina poiché combinano competenze di soft management e integrazione progettuale e di hard edge tecnologico; tuttavia, è raro che si aggiudichino contratti, dato che la Cina deve ancora aderire all’Accordo dell’OMC sugli Appalti Pubblici (GPA) che regola la materia del public procurement.
Tale accordo garantisce al settore privato l’accesso ad appalti pubblici di valore superiore a 202mila dollari tra i Paesi che hanno aderito all’accordo. Alcuni servizi sono esclusi dalla copertura del GPA, compresi i servizi di supporto alle forze armate, il dragaggio, i centri di ricerca finanziati a livello federale e la riparazione delle imbarcazioni; l’OMC lascia anche esclusi dall’ambito di copertura dell’accordo gli appalti in materia di sicurezza nazionale. Al momento il GPA comprende solo 42 dei 157 membri dell’OMC. L’ammissione al GPA dipende dall’accettazione da parte dei membri delle condizioni d’offerta cinesi.
La Cina non è entrata formalmente nelle trattative per l’adesione al GPA fino al 2007 e la sua offerta iniziale è stata considerata inaccettabile dagli altri membri dell’accordo.
Nel 2010 ha riveduto la sua offerta ma questa, pur costituendo un miglioramento, non è stata accolta poiché escludeva gli acquisti da parte dei governi locali e provinciali. Un’altra offerta nel Dicembre 2011 copriva solamente entità pubbliche in tre città e due province.
Infine, nel dicembre 2013, all’annuale sessione dell’ U.S.-‐‑China Joint Commission on Commerce and Trade, la China ha acconsentito a presentare nel 2014 un’offerta che sia in linea con quelle degli altri membri del GPA.
Un recente studio13 condotto su un campione di 112 Paesi mostra che “gli accordi internazionali sugli appalti pubblici non hanno effetti sul comportamento dei governi al momento del consumo: i Paesi firmatari non sono più inclini dei non firmatari a spendere fondi pubblici per le importazioni”. Se le preoccupazioni per la propria reputazione internazionale possono talvolta assicurare che i governi si attengano ai patti internazionali, essi hanno però efficacia limitata nel dissuadere da inadempienze in aree politiche opache nelle quali il mancato rispetto dei trattati è difficile da individuare e da provare.
Assicurare la concorrenza leale nel public procurement dovrebbe essere una priorità della politica commerciale dell’UE. Le imprese cinesi che formulano offerte contrattuali rivolte all’Europa traggono sovente benefici da prestiti agevolati e fattori di costo supportati da banche pubbliche e altri providers. Che l’Unione Europea impedisca agli Stati membri di accettare tali offerte è una soluzione impraticabile, ma è stato suggerito che l’UE neghi finanziamenti ai progetti pubblici che coinvolgano imprese dei Paesi i quali non garantiscono l’accesso al proprio mercato degli appalti pubblici. Un’altra possibilità
13 RICKARD Stephanie J. , KONO Daniel Y. -‐‑ "ʺPolicy Transparency and Preferential Trade Agreements"ʺ, 2011, American Political Science Association 2011 Annual Meeting
sarebbe quella di creare un indice quantitativo delle quote straniere di pubblico mercato sia nelle economie sviluppate sia in quelle emergenti. “Questa misura aiuterebbe ad aprire altri mercati chiusi come quello giapponese e porterebbe benefici anche ai terzi fornitori in Europa così come in Cina. Un primo passo sarebbe incorporare tale misura nelle negoziazioni attualmente in corso per un accordo di libero scambio tra Europa e Giappone. Il Giappone, con il suo public procurement chiuso, è spesso stato un modello per i cinesi negoziatori con l’estero, cosicché una tale misura potrebbe scatenare un effetto a catena.
Questi passi potrebbero anche incoraggiare la Cina a proporre un’offerta di apertura del proprio public procurement che vada oltre l’ambito del GPA.”14
2.3 L’acquisto da parte della Cina dei bonds Europei
La Cina sta rafforzando la propria presenza all’interno dell’Unione Europa anche acquistando (e creando l’apparenza che stia acquistando) bonds governativi europei.
La sua attenzione si è focalizzata sugli Stati membri UE dell’area del mediterraneo e dell’Europa Sud-‐‑orientale più bisognosi di
14 GODEMENT François , PARELLO-‐‑PLESNER Jonas, RICHARD Alice -‐‑ "ʺThe scramble for Europe"ʺ, European Council on Foreign Relations , 2011
denaro cinese, stabilendo in questo modo nuove relazioni con i Paesi della periferia dell’Unione.
Nel giugno 2010 la Cina ha comprato bonds greci in cambio di una gestione del porto del Pireo e un accordo per il finanziamento della vendita di imbarcazioni cinesi. Nel luglio 2010 ha annunciato l’acquisto di un miliardo di euro di bonds spagnoli, instillando così fiducia nel mercato in Spagna. La Cina ha anche fatto promesse al Portogallo, all’Irlanda, all’Ungheria, all’Italia, ecc.
Ad Agosto 2012, dopo un meeting con il cancelliere tedesco Angela Merkel a Pechino, l’ex premier cinese Wen Jiabao ha dichiarato che la Cina prendeva in considerazione l’acquisto di altri bonds europei nel mezzo della crisi del debito sovrano europeo per supportare il proprio partner commerciale principale.
Le reali dimensioni dell’acquisto di bonds da parte della Cina non possono essere conosciute con certezza. Nonostante la Cina renda pubbliche le sue riserve valutarie complessive, la loro composizione per Paese è coperta dal segreto di stato. Per quel che riguarda l’Unione, essa non divulga dati aggregati o coordinati sugli acquirenti stranieri del debito pubblico degli Stati membri.
L’opacità di queste operazioni finanziarie è raddoppiata dal fatto che è nell’interesse dei governi dell’Europa con grandi esigenze di rifinanziamento pubblico far intendere che la Cina stia acquistando una parte dei bonds al fine di sorreggere la propria affidabilità creditizia. Ad esempio, nel giugno 2011, in
occasione di una visita ufficiale di Wen Jiabao in Ungheria, il primo ministro cinese ha manifestato l’impegno per la Cina di acquistare un “certo ammontare” di bonds governativi ungheresi. Questa asserzione ha indotto il premier ungherese Viktor Orbàn a dirsi fiducioso riguardo la capacità dell’Ungheria di finanziarsi nel medio termine.15
Ovviamente è anche utile alla diplomazia pubblica cinese presentare la Cina come un potenziale benefattore. Qualunque sia l’esatto ammontare del suo acquisto di bonds governativi europei, gli effetti dell’opacità dei mercati finanziari cinesi e del loro avvalersi di terzi sono peggiorati dall’incapacità dell’Europa di rendere conto degli acquisti del proprio debito pubblico ad opera di Stati esteri.
“Ciò ha a che fare con le limitazioni dell’unione monetaria: sono gli Stati membri ad avere i dati degli acquisti del debito e la Banca Centrale Europea fornisce solo le cifre relative agli acquirenti non domestici del debito pubblico sovrano, i quali includono gli acquisti intraeuropei. In breve, l’Europa è in una straordinaria posizione di ignoranza con riferimento a chi possiede il proprio debito pubblico e in che misura”.16
15 XIAOKUN Li and JING Fu, “China willing to buy Hungarian bonds”, China Daily, 26 giugno 2011, disponibile all’indirizzo
http://www.chinadaily.com.cn/china/2011weneurope/2011-‐‑ 06/26/content_12777603.htm
16 GODEMENT François , PARELLO-‐‑PLESNER Jonas, RICHARD Alice "ʺThe scramble for Europe"ʺ, op. cit.
Non c’è modo di verificare l’ammontare concreto di riserve valutarie in euro possedute dalla Cina. Per di più, questa doppia opacità sull’acquisto dei bond determina per alcuni Stati membri una dipendenza dannosa dalla Cina invece che una situazione di interdipendenza tra quest’ultima e l’intera Unione Europea.
La mancanza di un sistema coordinato per gli acquisti del debito pubblico comporta che gli Stati competano gli uni con gli altri nell’assicurarsi creditori stranieri.
La combinazione della mancanza di un rendiconto attendibile da parte dell’Europa e della mancanza di trasparenza delle operazioni sui bonds da parte della Cina determina alcuni rischi: la Cina potrebbe “fare acquisti in pompa magna, sfruttandone il risultato a fini di diplomazia pubblica, e vendere senza alcuna pubblicità, tenendo così sotto minaccia i Paesi con i quali essa ha un disaccordo. Questa situazione minaccia l’unità dell’Europa sia nella politica estera che nelle politiche commerciali e finanziarie.”17
2.4 La cooperazione sviluppata in materia di tutela
dei diritti di proprietà intellettuale tra UE e Cina
17 GODEMENT François , PARELLO-‐‑PLESNER Jonas, RICHARD Alice "ʺThe scramble for Europe"ʺ, op. cit.
Secondo la definizione dell’OMC, i diritti di proprietà intellettuale sono i diritti attribuiti ai soggetti sulle creazioni delle loro menti. Di solito conferiscono al creatore un diritto di esclusiva sull’uso della propria creazione per un dato periodo di tempo.
I diritti di proprietà intellettuale (IPRs) includono patenti, marchi registrati, progettazioni, copyrights o indicazioni geografiche. Consentono agli inventori, creatori e imprese di ricevere un compenso per il loro investimento e impediscono lo sfruttamento non autorizzato delle loro creazioni. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale offrono anche garanzie agli utenti (per esempio, i marchi registrati e le indicazioni geografiche identificano l’origine dei beni in questione). La salvaguardia della proprietà intellettuale è cruciale a che l’Unione Europea stimoli l’innovazione e sia competitiva nell’economia globale. In particolare, la concretizzazione dei Diritti di Proprietà Intellettuale fuori dall’Unione è fondamentale dal momento che le vendite di prodotti contraffatti e/o difettosi erodono le vendite degli esportatori europei e il brand value. I prodotti contraffatti possono anche mettere a rischio la salute e la sicurezza del consumatore.
Molte imprese europee subiscono danni a causa della contraffazione e della pirateria di larga scala ad opera di produttori della Cina, per la quale l’attuazione effettiva dei diritti di Proprietà Intellettuale rimane ancora una sfida.
Secondo le statistiche sui consumi del 2011, il 73% dei beni sospettati di violare i diritti di Proprietà Intellettuale era di origine cinese.
Per integrarsi pienamente nel sistema di commercio mondiale, continuare ad attrarre investitori stranieri e diventare una economia knowledge-‐‑based, la Cina deve adempiere tutte le sue obbligazioni internazionali, specialmente quelle in materia di diritti di Proprietà Intellettuale.18
La Cina appare riluttante a rimuovere o allentare le restrizioni in tali aree poiché questo implicherebbe che essa non sia più un Paese in via di sviluppo secondo la normativa OMC. Il suo status di Paese in via di sviluppo comporta che la Cina abbia molti meno obblighi dei Paesi sviluppati, e ciò pone i veri Paesi in via di sviluppo (i quali, in realtà, cercano di colmare la distanza e portarsi alla pari) in una condizione di svantaggio. Esso, poi, permette che la Cina mantenga norme protezioniste che restringono le opportunità per le imprese europee e americane.
19Dal 2004, l’Unione Europea e la Cina hanno gradualmente instaurato una proficua cooperazione in materia di diritti di proprietà intellettuale nella forma di un dialogo strutturato e un gruppo di lavoro che coinvolge l’industria.
18 EUROPEAN COMMISSION, “Bilateral interactions with China”, aggiornato al 28/06/2013
Dei colloqui a cadenza annuale tra l’UE e la Cina hanno avuto luogo alternativamente a Bruxelles e Pechino con lo scopo di condividere informazioni, individuare carenze e formulare proposte.
Nel 2005 è stato stabilito un gruppo di lavoro in materia di diritti di proprietà intellettuale tra l’UE e la Cina.
Nel 2007 la Commissione Europea e il Governo della Repubblica Popolare Cinese hanno varato il Progetto Cina-‐‑UE di Protezione dei Diritti di Proprietà Intellettuale (IPR2).
Il 16 gennaio 2014 è stata lanciata la Nuova Cooperazione Cina-‐‑ UE sulla proprietà intellettuale.
Carmen Cano, vicepresidente della Delegazione UE ha affermato: “Lo scorso anno l’Unione Europea e la Cina hanno celebrato 10 anni di dialogo strutturato sulle tematiche relative alla proprietà intellettuale (…). Il lancio oggi del Progetto Chiave per la Proprietà Intellettuale testimonia l’impegno di entrambe le parti all’ulteriore rafforzamento della loro cooperazione in materia di proprietà intellettuale allo scopo di contribuire in maniera fondamentale all’innovazione delle loro rispettive economie”.
Zhang Xiangchen, assistente ministro del Ministero del Commercio della Repubblica Popolare Cinese, ha dichiarato: “La Cina e l’UE condividono estesi comuni interessi alla protezione dei diritti di proprietà intellettuale e alla cooperazione in materia. La Cina attribuisce grande importanza allo scambio, al dialogo e alla cooperazione con l’UE e si augura che le autorità competenti di entrambe le parti possano
discutere ed esplorare soluzioni appropriate per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale nel riquadro della nuova situazione di età digitale e di economia dell’informazione, così da sospingere lo sviluppo economico e industriale, promuovere la diffusione e la condivisione delle conoscenze e dare nuovi contributi al nuovo ordine economico mondiale e al benessere dei cittadini della Cina e dell’UE”.
La differenza principale tra l’IP Key program e l’IPR2 è lo strumento finanziario: mentre i programmi precedenti erano soprattutto focalizzati sullo sviluppo, l’IP Key program è finanziato dallo Strumento per la Cooperazione con i Paesi Industrializzati e da altri Paesi ad alto reddito e il suo scopo principe è il partenariato.
L’azione di cooperazione dovrà essere realizzata in un periodo di tre anni ad opera dell’OHIM (Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno), in collaborazione con l’Ufficio Patenti Europeo (EPO). Il contributo della Cina all’azione di cooperazione sarà coordinato dal Department of Treaty and Law of China’s Ministry of commerce.
Capitolo Secondo
L’atteggiamento dell’Unione Europea nei
confronti della Cina prima e dopo la crisi
economica
1. La strategia dell’UE nei confronti della Cina: un
“impegno incondizionato”
Sin dalla metà degli anni ’90, la politica dell’Unione (prima Comunità) Europea nei confronti della Cina è stata una politica di “rapporto costruttivo”, orientata a “promuovere il più pieno coinvolgimento possibile della Cina nell’arena internazionale, nelle dimensioni economiche, sociali, politiche, militari e di sicurezza”.20
Questo rapporto costruttivo si basava sulla concezione che l’Unione Europea ha di sé come “potere normativo” ed è stato portato avanti come un progetto volto a trasformare la politica cinese secondo il modello europeo, ma il suo presupposto si è rivelato fallace.
20 Communication from the Commission “A long term policy for China-‐‑
Europe relations” COM (95) 279 final, 5 July 1995, available at < http://eeas.europa.eu/china/docs/com95_279_en.pdf>.
L’Unione Europea era anacronisticamente convinta che la propria influenza potesse avere sulla Cina un impatto tale da indurre Pechino a liberalizzare il proprio sistema economico, rendere più democratiche le proprie politiche e migliorare lo stato di diritto. Questo atteggiamento è sfociato in una rete di accordi bilaterali , summits e visite ministeriali, nei quali l’idea di fondo era che l’impegno con la Cina fosse vantaggioso di per sé e che, con riferimento a specifici comportamenti cinesi, la conditionality non fosse un requisito necessario.
La costruzione dell’identità dell’Unione Europea come potere normativo non trovava base in alcuna iniziativa politica tangibile, ma traspariva dal modo in cui molti Paesi europei si figuravano e gestivano le proprie relazioni con la Cina. Se ne potevano poi trovare riscontri nella “Dichiarazione di Laeken relativa al futuro dell’Unione” (2001), che definiva l’Europa come il “continente dei valori umani (…) di libertà, solidarietà, e soprattutto diversità”, e in “The European Union: Furthering Human Rights and Democracy across the Globe“21, brochure pubblicata dalla Commissione Europea che identificava in “libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani, libertà fondamentali e stato di diritto” i principi fondanti dell’Unione. L’idea che l’UE rivestisse nell’ambito delle relazioni internazionali un ruolo di “forza tendente al bene” dotata di potere trasformativo era condivisa anche dagli Stati Membri. Un esempio a conferma di ciò: Germania, Regno Unito e Francia
21Luxembourg, Office for official publications of the European Communities, 2007:5
alla fine degli anni ’90 erano concordi nel ritenere che l’Unione Europea dovesse essere un “attore etico” nelle relazioni internazionali.
Enfatizzando la propria natura di potere normativo impegnato nella promozione di democrazia, libertà, stato di diritto, diritti umani e buon governo, l’UE implicitamente relegava la Cina al rango di attore “meno etico” che aveva bisogno dell’impegno dell’UE per imparare dall’esperienza di quest’ultima.
Questo approccio presentava molti punti deboli: da un lato sopravvalutava il potere trasformativo dell’Unione; dall’altro non teneva conto della forza economica e politica della Cina e ne sottovalutava l’abilità ad utilizzare il rapporto con l’Unione Europea per i propri fini.
L’ambizione di catalizzare il cambiamento in Cina (persuadendo le autorità cinesi che fosse nel loro interesse fare ciò che l’Unione chiedeva) non regge, infatti, allo scontro con la realtà: difatti la Cina non sembra aver tenuto finora in considerazione i valori europei nella sua politica estera e interna. Le speranze europee che l’ingresso della Cina nell’OMC nel 2001 costituisse l’inizio di un processo di riforma che sarebbe terminato nella liberalizzazione del suo sistema economico sono state ripetutamente frustrate; il controllo statale sulle imprese cinesi è aumentato; le barriere informali di accesso al mercato sono state rafforzate; nel contesto delle Nazioni Unite, la Cina ha formato una coalizione e può contare su un numero di voti all’interno dell’Assemblea Generale che spesso usa in opposizione a valori e obiettivi politici europei (tutela dei
diritti umani in primis); le politiche cinesi verso Zimbabwe e Darfur e l’esercizio del proprio veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per contrastare l’irrogazione di sanzioni a Sudan e Zimbabwe sono stati discordanti con le politiche europee.
La Cina è ormai diventata un potere globale. La sua crescita economica non conosce pari nel mondo moderno; la sua politica industriale e commerciale, assertiva e talvolta aggressiva, insieme alla sua propensione al risparmio piuttosto che alla spesa, ha fatto uscire i cinesi dalla povertà e ha messo ampi fondi a disposizione del governo. Su uno sfondo di crisi economica globale, è ora chiaro che il futuro dell’economia mondiale dipende dalle decisioni della Cina tanto quanto dipende da quelle dell’Europa; nondimeno, l’Unione Europea sembra non vedere tutto ciò e tratta la Cina come se questa fosse ancora una potenza emergente.
Il risultato è una politica dell’UE nei confronti della Cina che Fox e Godement descrivono come un “impegno incondizionato”22: sarebbe a dire, una politica che consente a Pechino di avere accesso ai benefici insiti nella cooperazione con l’Europa in maniera quasi unilaterale.
Tuttavia, l’UE si rende conto che il grado di reciprocità è, soprattutto in ambito commerciale, insufficiente: le imprese europee intenzionate ad accedere al mercato cinese devono
22 FOX John, GODEMENT François, “A Power Audit of EU-‐‑China Relations”, ECFR publications, 2009, p. 2
avere a che fare con procedure eccessivamente complesse e ostacoli e restrizioni di gran lunga più grandi di quelli che le compagnie cinesi fronteggiano nel mercato europeo. Anche la non condizionalità della politica estera cinese è stata aspramente criticata.
Talvolta la Cina ha modificato le proprie posizioni in senso gradito all’Occidente, ad esempio appoggiando la forza di peacekeeping dell’ONU in Darfur o disponendo un controllo navale antipirateria lungo la costa somala; ma nella maggior parte dei casi questi cambiamenti sono stati frutto di diretti interessi cinesi. Inoltre, la Cina aderisce al principio di non-‐‑ interferenza negli affari interni degli altri Paesi e questo atteggiamento, specialmente per quel che riguarda l’Africa, risulta antitetico rispetto all’interventismo caratteristico dell’UE. La crisi economica mondiale richiede che la Cina adotti misure di sostegno della stabilità finanziaria internazionale; ma rivela anche la misura in cui molti Stati membri UE sono diventati dipendenti dal mercato cinese, offrendo alla Cina un’opportunità di rafforzare la propria posizione pur dando un contributo modesto ai piani di salvataggio internazionali.
Nel Settembre 2003 è stato varato il Partenariato Strategico Globale tra l’UE e la Cina. Si tratta, per usare la definizione fornita da Wen Jiabao, di una “prospettiva condivisa” dalle due parti per stabilire una relazione strategica globale.
L’attributo “globale” significa che la cooperazione è onnicomprensiva, abbraccia vasti campi e si articola su più livelli: infatti, copre i campi scientifico, economico, politico,
culturale e tecnologico, comprende sia il livello bilaterale che quello multilaterale ed è attuata sia dai governi o che da gruppi non governativi. L’aggettivo “strategico” sta a indicare la stabilità della cooperazione e il suo inserimento in un sistema più ampio di relazioni tra le parti coinvolte, che contribuisce a rafforzare. Per “partenariato”, invece, si intende una cooperazione paritaria, reciprocamente vantaggiosa e win-‐‑win. Scopo della partnership non è solo far convergere e tutelare gli interessi delle due parti contraenti ma contribuire alla pace, alla stabilità e allo sviluppo.
Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2004 il partenariato strategico tra Cina e Ue ha conosciuto una fase di “luna di miele”. Anche gli scambi di visite tra i leader delle due parti sono diventati più frequenti, fino a raggiungere le 206 visite in un anno (considerando soltanto quelle prestate da ufficiali dell’UE ai colleghi cinesi); tanto che, al Business Forum sinoeuropeo del maggio 2004, l’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi si è espresso in merito dicendo che le relazioni tra Cina ed Unione Europea fossero, se non proprio un matrimonio, quantomeno un fidanzamento ufficiale.23
Tuttavia, un numero sempre maggiore di studiosi europei appare scettico sul partenariato in questione. Questo scetticismo
23 PRODI Romano,”Relations between EU and China: more than just business”, 6 maggio 2004, consultabile all’indirizzo
si è diffuso a partire dalla pubblicazione ad opera di John Fox e François Godement della relazione “A Power Audit of EU-‐‑ China Relations” nel 2009. Stanley Crossick, senior fellow del Brussels Institute of Contemporary China Studies e membro fondatore dell’European Policy Centre, ha affermato: “Dobbiamo essere realisti. L’attuale rapporto Sino-‐‑Europeo non è né strategico né un partenariato, e la firma di un Accordo di partenariato e cooperazione non cambierà le cose. Un partenariato strategico richiede un impegno a lungo termine per stabilire una stretta relazione in un numero significativo di aree politiche”.24 Il Prof. Eberhard Sandschneider, Otto Wolff-‐‑ Director of the Research Institute, German Council on Foreign Relations, nel suo discorso nel Forum on China-‐‑EU Strategic Partnership tenutosi a Pechino nel Novembre 2009 ha osservato: “la maggior parte dei cosiddetti partenariati strategici non sono “strategici” in senso stretto. In un’accezione più restrittiva i partenariati strategici dovrebbero essere basati su una prospettiva condivisa sui valori essenziali, gli interessi e le azioni da intraprendere in situazioni specifiche”.
Al contrario, i politici europei sembrano inclini ad affermare che il partenariato strategico tra l’UE e la Cina non solo esista e sia effettivamente tale, ma continuerà anche a svilupparsi.
24 CROSSICK Stanley, “China-‐‑EU strategic partnership: a state of play”, paper for the FUDAN CES/IFRI/SIES/CSEUS tavola rotonda del 24 Settembre 2009 a Shanghai
Una ragione di tale affermazione può essere ritrovata nel fatto che le difficoltà economiche che l’Europa si trova ad affrontare in conseguenza della crisi economica mondiale richiedono un supporto finanziario per il quale Cina riveste un ruolo primario: è chiaro che, in una situazione così critica, i politici europei non vogliano buttar via un partenariato che pone le basi per un intervento Cinese a favore dell’Europa nel momento del bisogno.
2. Stati Membri e Cina: un dialogo squilibrato
La già scarsa influenza che l’UE esercita sulla Cina è ulteriormente indebolita dalla mancanza di coordinazione negli approcci individuali dei suoi Stati membri.
La maggior parte di essi è consapevole che la strategia di impegno incondizionato dell’UE, incorporata in un accordo di commercio e cooperazione che risale al 1985 (quando la Cina era ancora un Paese in via di sviluppo) è ora inefficace. Pertanto, pur rispettandola a livello formale, nei fatti la ignorano largamente e perseguono piuttosto i propri approcci nazionali, spesso contrastanti, nei confronti di Pechino25.
25 FOX John, GODEMENT François, “A Power Audit of EU-‐‑China Relations”, ECFR publications, 2009, p. 2
Gli Stati Membri hanno idee diverse su come rapportarsi con l’ascesa cinese, ma un tratto comune è la convinzione di poter ottenere di più da un approccio nazionale che da una politica integrata. Ciò crea divisioni tra gli Stati Membri e queste divisioni vengono sapientemente sfruttate dai negoziatori cinesi che, invece di contrattare con l’UE nel suo insieme, preferiscono interagire tramite accordi bilaterali con i suoi Stati membri singolarmente considerati, dato che il loro peso negoziale sulle materie di maggiore importanza è praticamente irrilevante. Di conseguenza, all’UE rimangono materie simboliche che difficilmente registrano risultati concreti, quali la questione tibetana o la questione di Taiwan.
Nel 2009 François Godement and John Fox, del think tank europeo European Council on Foreign Relations (ECFR), hanno condotto un’analisi sugli allora 27 Stati Membri (la Croazia non aveva ancora aderito all’UE) in cui esaminavano l’atteggiamento di ogni Stato Membro verso la Cina. In questo “audit” è stato assegnato un punteggio alle singole politiche e iniziative degli Stati Membri nei confronti della Cina; un grafico (riprodotto a pagina 40) riportava queste valutazioni sull’asse orizzontale per quel che riguarda la dimensione politica e su quello verticale per l’economia (i due punti principali su cui gli Stati Membri erano divisi). Il dibattito europeo si incentrava allora sulle misure anti-‐‑dumping e sul riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato; tuttavia, la crescente dipendenza dalla Cina della periferia europea ha cambiato la classificazione e i suoi criteri di riferimento. Considerato ciò, nel 2011 François