L’atteggiamento della Cina nei confronti dell’Unione Europea
2. La “strategia del potere” secondo la Cina: una combinazione di strumenti di soft power e
cooperazione win-‐‑win
Il concetto di potere è un concetto complesso, con riguardo al quale si sono succedute diverse elaborazioni teoriche. Nel dibattito sulla definizione e classificazione del potere, le due correnti principali identificavano rispettivamente il potere come risorsa e come applicazione delle risorse. La prima teoria faceva
capo alla corrente detta “teoria realista internazionale”, per i cui teorici il potere di una nazione si misurava in base alla misura del suo accesso a determinate risorse. Per Morgenthau, nel suo “Politics among Nations”, tali strutture erano costituite da nove elementi: ambiente geografico, risorse naturali, capacità industriale, popolazione, grado di preparazione militare, spirito nazionale, morale nazionale, qualità di diplomazia e di governo. Per Waltz l’elemento chiave era invece rapporto di distribuzione delle varie capacità per le singole unità, la cui combinazione efficiente determinava il grado di potere statale.
Queste teorie, però, non riuscivano a dar conto del fatto che Paesi dotati delle migliori risorse non riuscissero per ciò solo ad ottenere sempre i risultati desiderati. Un esempio lampante era il caso degli Stati Uniti d’America, che, pur disponendo di un potere forte secondo tutti i criteri elencati sopra, non avevano comunque vinto la guerra del Vietnam.
Alcuni studiosi passarono così ad una concezione dinamica del potere, inteso come applicazione delle risorse materiali. “Potere e società” di Lasswell e Kaplan fece da spartiacque tra la “vecchia” teoria del potere come insieme di risorse e la “nuova” teoria del potere come applicazione delle risorse o, in altre parole, del potere considerato nel suo momento relazionale. Dahl definì il potere in questo modo: “A ha potere su B nella misura in cui può ottenere che B faccia qualcosa che altrimenti non farebbe”31; era una definizione che inquadrava il concetto
del potere in un momento relazionale, di applicazione, nel quale le risorse di una nazione si combinavano al processo di esercizio di un’influenza su un altro soggetto.
Tali teorie influenzarono il pensiero di numerosi studiosi e costituirono il punto di partenza dell’elaborazione teorica di Joseph S. Nye, Jr., della Harvard Kennedy School of Government.
Nye coniò il termine soft power, che apparve per la prima volta in un articolo del 1990 “The misleading metaphor of decline” su The Atlantic Monthly e che venne poi ripreso in “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power” dello stesso anno, in “The paradox of American power” (2002) e trattato separatamente in “Soft Power” (2004). Pur non esente da contestazioni, da allora il termine soft power è entrato a far parte del lessico delle relazioni internazionali.
Nella prima versione della sua teoria, per soft power Nye intendeva “l’altra faccia del potere”, cioè l’abilità di un potere politico di attrarre, convincere, persuadere e cooptare, attraverso l’utilizzo di risorse intangibili quali “cultura, valori e istituzioni della politica”. Esso si contrapponeva all’hard power che invece era un potere coattivo basato sulla minaccia e l’induzione e si ricollegava a risorse tangibili militari ed economiche. In questo modo, però, Nye finiva per mettere semplicemente in relazione soft power e risorse intangibili da
1957, pp.202-‐‑203
un lato e hard power e risorse tangibili dall’altro, omettendo di considerare la ben più complessa interazione tra le risorse e la loro applicazione. Inoltre, collocava l’induzione e la minaccia in una medesima categoria, quando sarebbe sembrato più opportuno tenerle separate.
In seguito rivide queste posizioni, perfezionando la sua teoria sotto diversi aspetti. Separò i due concetti di minaccia e induzione; in “Soft Power” modificò le risorse da “cultura, ideologia e istituzioni internazionali” a “cultura, valori politici e politica estera”; infine, adottò una prospettiva applicativa, in base alla quale hard power e soft power si combinavano con due differenti modalità di applicazione: coercizione ed attrazione.
La coercizione implicava il ricorso a sanzioni e all’antagonismo, intendendo per quest’ultimo le azioni intraprese dagli Stati per contrastare o delegittimare governi stranieri che ostacolano il loro interesse o il raggiungimento dei loro obiettivi.
L’attrazione ricomprendeva invece la reciprocità e il beneficio. La reciprocità si realizzava con la cooperazione in vista di un interesse comune: se si fosse formata un’interdipendenza tra i diversi attori internazionali, questi sarebbero stati dissuasi dal danneggiarsi. I benefici, invece, che potevano ad esempio assumere la forma di aiuti, creavano una dipendenza economica dal soggetto che li aveva prestati.
Combinando soft power e hard power con le due modalità di applicazione si ottengono:
Risultato della combinazione tra risorse intangibili e metodo dell’attrazione (generalmente di influenza).
Ne sono esempio: l’utilizzo dei mass media per promuovere la comprensione reciproca e la comunicazione tra realtà diverse; il supporto diplomatico offerto ad altri Paesi; la promozione di una cultura mainstream e di istituzioni riconosciute e legittimate a livello internazionale (le ultime due ipotesi sono, per la verità, poco frequenti, perché richiedono che la cultura e le istituzioni del Paese presentino una forza di attrazione intrinseca bastevole di per sé a legare altre nazioni ed altri popoli senza fattori ulteriori).
• Soft hard power, o “soft use of hard power”. In questa ipotesi l’utilizzo di risorse materiali dà vita a un fenomeno di attrazione.
L’uso dell’hard power, infatti, non necessariamente sfocia in coercizione: può anche generare attrazione, come nel caso della cooperazione economica, del commercio e delle industrie militari, delle missioni di pace (basti pensare al fatto che la partecipazione ad azioni di peacekeeping delle Nazioni Unite ha di frequente risollevato la reputazione internazionale di uno Stato).
• Hard power, o “hard use of hard power” ovvero l’uso coercitivo di risorse materiali per esercitare influenza su altri soggetti del panorama internazionale. Ne sono esempio la guerra, la guerra economica e il ricorso a sanzioni militari ed economiche.
Risorse immateriali vengono utilizzate per esercitare influenza in maniera coercitiva.
Può trattarsi di coercizione diplomatica (sanzioni, politica del containment), istituzionale (cambio di regime), culturale (diffamazione e demonizzazione della cultura di un Paese attraverso propaganda negativa).
Un recente studio ha utilizzato le predette categorie per operare un raffronto tra le strategie del potere di Cina, USA e Unione Europea. Con la locuzione strategia del potere ci si riferisce alla combinazione di risorse di potere (che possono essere materiali, cioè militari ed economiche, o non materiali, cioè istituzioni, cultura, politica estera) adottando una determinata modalità di applicazione (coercizione / attrazione) per fini specifici (difesa / shaping).
Ai fini di tale raffronto è stata adottata un’accezione ampia di Unione Europea, che include gli Stati Membri e le istituzioni europee.
Per le risorse materiali, gli USA detengono il primo posto con un notevole stacco dall’UE (seconda) e dalla Cina (terza). Il budget di difesa nel 2010 è stato rispettivamente di 661, 386 e 100 miliardi di dollari.
Le risorse immateriali sono più difficili da quantificare, perché spesso intangibili e astratte. Lo stesso Nye sosteneva che in questo campo fossero possibili solo giudizi qualitativi. In ogni caso, pur in mancanza di uno standard condiviso, tutte le diverse forme di misurazione adottate negli anni hanno portato
allo stesso risultato, e cioè che in questo ambito la Cina è fortemente indietro rispetto agli USA e all’UE.
Con riferimento all’applicazione delle risorse, possiamo vedere che gli USA hanno un livello molto alto di attrazione militare, mentre l’UE si trova al livello intermedio. Anche qui, data la sua posizione di non allineamento, la Cina occupa il terzo posto, seppure la sua attrazione militare sia quantificabile come “media”. Nell’attrazione economica primeggia l’UE, che è pari agli USA nel mercato di importazione ma superiore nella fornitura di aiuti per lo sviluppo. Pur essendo anche qui terza, il mercato delle importazioni della Cina si sta espandendo rapidamente, così come la sua popolarità tra i Paesi in via sviluppo in virtù del fatto che non impone condizioni politiche per la conclusione di contratti: possiamo dunque affermare che la sua forza di attrazione economiche sia medio-‐‑alta.
Nella politica estera, l’immagine internazionale degli USA ha subito un miglioramento dopo l’elezione del Presidente Obama e l’abbandono di un approccio unilaterale a favore del multilateralismo; tuttavia, il frequente ricorso all’uso coercitivo del potere militare per mantenere la propria posizione di leadership nel panorama mondiale fa sì che il suo grado di attrazione diplomatica sia medio. Sia UE che Cina hanno, invece, un livello alto di attrazione diplomatica: la prima per il valore che attribuisce al multilateralismo, la seconda per il rispetto della sovranità degli altri Stati e il perseguimento di un ideale di armonia tra i popoli.
In termini di attrazione istituzionale, il podio è conteso da UE e USA, che hanno entrambi sviluppato istituzioni internazionali globalmente riconosciute che fungono da modello per gli altri Paesi. La Cina risulta invece più un rule-‐‑taker che un rule-‐‑maker, anche se la sua membership permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le attribuisce un ruolo nel policy making.
Lo stesso ragionamento può essere applicato con riferimento all’attrazione culturale.
Nella coercizione il primo posto spetta agli USA; ad un livello intermedio si pone l’UE, mentre la Cina si trova ad un livello decisamente basso nella coercizione militare ed economica e un livello medio nella coercizione diplomatica.
Passando agli scopi dell’applicazione delle risorse, utilizziamo come criterio per identificare il grado di difesa di un Paese la sua riluttanza a ratificare trattati internazionali che possano in qualche modo eroderne la sovranità. Secondo l’indagine statistica condotta da Ian Manners32 l’UE è, tra i tre, la più incline alle ratifiche e dunque la meno “difensiva”; la Cina è seconda e gli USA terzi.
Per quantificare la tendenza di uno Stato a “modellare” gli altri (shaping) utilizziamo invece come indicatore la partecipazione a
32 MANNERS Ian, “The Constitutive Nature of Values, Images and Principles in the European Union,”, in Sonia Lucarelli and Ian Manners, eds., Values and Principles in European Union Foreign Policy, London and New York, Routledge, 2006, p.31
operazioni militari internazionali dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali: maggiore è la partecipazione, maggiore è la tendenza dello stato a modellare il mondo esterno. Anche qui abbiamo USA al primo posto, UE al secondo, Cina al terzo.
Volendo combinare gli aspetti sopra enucleati in una visione globale della strategia del potere di ciascuno dei tre attori internazionali, vediamo che gli USA esercitano in maniera piena sia il metodo della coercizione sia dell’attrazione (quest’ultimo solo di poco inferiore a quello dell’UE) e, pur non lesinando l’utilizzo di hard power, dispongono di un soft power non indifferente; la loro resistenza a limitazioni di sovranità è la più forte, così come la loro capacità di dar forma al mondo esterno. Ciò pone gli USA in una posizione di supremazia.
L’UE ha il potere di attrazione maggiore e una forte tendenza ad esportare il proprio modello e influenzare lo sviluppo di Paesi terzi, ma è anche la più incline ad accettare limitazioni ad opera di norme internazionali.
La strategia del potere della Cina si articola invece su due poli: l’attrazione e la difesa.
L’attrazione come modalità di esercizio del potere fa parte del patrimonio culturale cinese. Fu Confucio per primo a proporre l’idea del soft power alle elites del potere, sostenendo che non fosse necessario ricorrere a misure violente per raggiungere i loro scopi. Con Mao Tse-‐‑Tung, invece, il soft power venne in parte accantonato a favore dell’hard power.
Verso la fine degli anni Settanta Deng Xiaoping cominciò un’opera di riforma e apertura politica, in seguito alla quale la Cina passò dall’essere uno Stato rivoluzionario ad una economia di mercato. Deng era però consapevole che gli altri Paesi accoglievano l’ascesa cinese e consideravano la Cina come una minaccia alla pace regionale. Da allora, sconfessare la “minaccia cinese” è diventata una priorità per il governo di Pechino, tanto da venire istituzionalizzata nel 2007 con il lancio della soft power agenda da parte di Hu Jintao, quarto Segretario Generale del PCC, al suo discorso al 17mo Congresso Nazionale del Partito Comunista cinese.
La Cina vuole essere considerata un partner amichevole e trattata come una grande potenza emergente che merita rispetto e non sospetto; vuole condurre i propri affari senza interferenze; vuole meno bad press e libero accesso ai mercati esteri per i propri prodotti; soprattutto, vuole dimostrare all’intero panorama mondiale che il Dragone non morde.
Il soft power sembra essere lo strumento adatto allo scopo. Per raggiungerlo, la Cina può contare sulla promozione di una cultura millenaria e affascinante, sul proprio patrimonio artistico e archeologico, sulla mobilitazione della propria diaspora migratoria. Ha investito nei mass media (il China Daily ha cominciato a stampare un’edizione europea e la CCTV ha esteso il suo broadcasting internazionale), sfruttato ogni evento mediatico utile ad apparire sotto una luce positiva e risollevare la propria immagine internazionale (è il caso dei Giochi Olimpici di Pechino del 2008 e dello Shanghai Expo del 2010),
coltivato le relazioni diplomatiche con l’Occidente, intrapreso politiche di aiuto e assistenza nei Paesi meno sviluppati (Filippine, Laos, Indonesia, gli Stati africani); si è impegnata nella promozione della propria cultura all’estero (ne è espressione il numero sempre crescente di borse di studio e all’apertura di oltre 280 istituti Confucio nel mondo, che sono il risultato di accordi di collaborazione tra le università cinesi e le università locali e offrono corsi di lingua cinese, manifestazioni culturali, eventi, rassegne, conferenze, scambi tra docenti, ricercatori e studenti).
Tuttavia, migliorare la propria reputazione si sta rivelando non così facile. Su di essa pesano molto le continue violazioni dei diritti umani, il numero crescente di proteste, le persistenti repressioni delle rivolte delle minoranze etniche.
E’ interessante notare che il primo a essere scettico riguardo all’effettività del soft power cinese sia proprio chi ne ha coniato il termine, Joseph Nye. Egli ha criticato33 gli sforzi operati da Pechino per acquisire soft power utilizzando schemi centralizzati perché, nonostante abbia speso milioni di dollari, ha raggiunto risultati limitati.
Per Nye la ragione di ciò risiede nel fatto che i grandi poteri provano a creare soft power e promuovere i propri interessi nazionali sfruttando la propria cultura e narrando la propria versione degli eventi, ma difficilmente il messaggio trasmesso viene accolto se non corrisponde alla realtà dei fatti: l’immagine
di sé che la Cina vuole comunicare si scontra con l’arresto di attivisti e di avvocati per i diritti umani, la censura e la limitazione all’accesso delle informazioni: non è reale comunicazione ma propaganda, e questo le fa perdere credibilità e compromette il suo soft power.
L’osservazione di Nye è condivisibile, ma solo in parte. Se il soft power del Gigante asiatico non ha ancora vinto tutte le resistenze dell’occidente non si può dire sia accaduto lo stesso con i Paesi Africani.
Secondo le statistiche di Aid data34, negli ultimi dieci anni la Cina ha destinato 75 miliardi di dollari alla realizzazione di progetti di cooperazione e sviluppo in 54 stati africani in settori quali costruzione di infrastrutture, assistenza medica, istruzione. Per la Cina l’Africa rappresenta il partner perfetto: ricca di materie prime, non le solleva accuse in materia di diritti umani e accoglie favorevolmente la sua presenza.
Per anni i Paesi occidentali hanno interpretato l’interesse della Cina in Africa come dettato esclusivamente dalla volontà di metter mano sulle risorse naturali. I governi africani ne hanno invece una percezione diversa. Essi valutano con favore l’interesse della Cina nei propri territori perché essa ha con loro un approccio meno paternalistico e più rispettoso di quello dei
34STRANGE, PARKS, TIERNEY, FUCHS, DREHER, RAMACHANDRAN, “China'ʹs Development Finance to Africa: A Media-‐‑Based Approach to Data Collection”, Centre for Global Development, Working Paper 322, April 29, 2013
Paesi d’Occidente35; anche dal punto di vista concreto delle modalità di conduzione dei progetti, la Cina “non dice agli africani come devono fare le cose, ma mostra loro come i cinesi le fanno”.36
Possiamo dunque concludere dicendo che in realtà la Cina esercita attrazione, seppur in maniera non omogenea. All’elemento dell’attrazione si combina, come anticipato, quello della difesa. Pur partecipando ad accordi internazionali, la Cina tiene in gran conto la propria sovranità e molto difficilmente è disposta a cederne parte. Non è particolarmente attiva nell’imporre il proprio modello ed è decisamente riluttante a ricorrere alla coercizione nelle sue relazioni internazionali. Questo non deve stupire: storicamente, l’atteggiamento sinico non è mai stato quello dello scontro diretto, bensì quello basato sulla creazione delle condizioni idonee al conseguimento naturale del proprio interesse.
Si potrebbe dire che la cooperazione win-‐‑win costituisca il cuore della strategia cinese. Nella risoluzione dei conflitti, è win-‐‑win una strategia che rifiuta l’idea che ad un vincitore debba necessariamente corrispondere uno sconfitto e sostiene la possibilità di giungere a una soluzione del conflitto tale che tutti i soggetti che vi partecipano ne traggano benefici.
La logica win-‐‑win è valida in qualsiasi ambito di trattativa ed è alla base di uno dei più classici esempi di applicazione della
35 BRAUTIGAM Deborah, “The Dragon’s Gift: the real story of China in Africa”, Oxford University Press, November 19, 2009
“Teoria dei giochi”, il ben noto “dilemma del prigioniero”, nonché dei giochi cooperativi in generale.
E’ chiaro che un gioco cooperativo si può avere solo quando gli interessi dei giocatori non sono in opposizione tra loro, ma esiste una comunanza di interessi. La chiave del successo cinese sta proprio in questo: nell’abilità a stabilire relazioni amichevoli e durature con le controparti e combinare il proprio interesse e il loro in una prospettiva comune. Utilizzando le parole del portavoce del Ministero degli Esteri cinese Qin Gang si può dire che “l’essere leale in ciò che dice e ciò che fa, il non perseguire un egemonismo e il favorire lo sviluppo pacifico e la cooperazione win-‐‑win nel mondo costituiscono il più grande soft power della Cina.37”