L’equilibrio socio politico raggiunto tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. dalle popolazioni medio-adriatiche verrà totalmente destrutturato nel secolo successivo da quelli che possono essere considerati eventi portanti nella storia della penisola italica, ovvero l’invasione celtica, l’intervento siracusano in Adriatico con la fondazione (o ri-fondazione) di Ancona, ed infine la conquista romana del territorio gallico e piceno, che determineranno il definitivo tramonto della civiltà picena.
205 NASO 2000, pp. 233-234; COLONNA 1985, pp. 52-57.
206 Cfr. COLONNA 1985, pp. 52-57.
207 Plin., Nat. Hist., III, 18, 110.
Le fonti, soprattutto di natura letteraria sono più abbondanti per il periodo che va fino all’inizio del IV secolo a.C., e restano quindi ampie zone d’ombra, solo in alcuni casi emendate dalla documentazione archeologica.
Trattandosi di un periodo cronologicamente ridotto ma caratterizzato da episodi cruciali si tenterà di focalizzare l’attenzione sulle varie tappe che lo contraddistinguono, a cominciare dalle ultime manifestazioni della cultura picena.
Con il IV secolo a.C. si entra, infatti, nella fase finale della civiltà picena (si tratta della fase VI della periodizzazione elaborata da D. Lollini)209 che ha restituito solo scarsissime testimonianze archeologiche di natura, al solito, funeraria, concentrate prevalentemente in abitati occupati già nei secoli precedenti: Camerano, Numana, Pievetorina, Cessapalombo, Tolentino.
La visibilità sul terreno è fortemente condizionata dalla presenza sempre più massiccia di tribù celtiche stanziate in territorio piceno, le quali, sovrapponendosi alle locali necropoli e assimilando gran parte della cultura materiale locale, hanno monopolizzato l’evidenza archeologica del territorio nel periodo compreso tra fine IV e metà III secolo a.C.. Pare che le tombe picene di questo periodo siano caratterizzate dalla deposizione di poco materiale importato, di vasellame fittile (in prevalenza ceramica attica documentata da forme di piccole dimensioni e modesta qualità) e fibule simili nelle fogge all’età precedente, fibule che non compaiono affatto nelle contemporanee tombe celtiche, note alla tradizione degli studi per la grande concentrazione di oreficerie e di vasellame bronzeo210. A Numana e in quelle località dell’entroterra dove erano insediati i Senoni (Montefortino di Arcevia, San Filippo d’Osimo, Santa Paolina di Filottrano, Moscano di Fabriano) sono concentrati gli esemplari di maggior pregio della ceramica attica: Moscano di Fabriano, in particolare, è la conferma che il ricercato vasellame greco veniva smistato lungo gli itinerari delle vallate fluviali. È molto interessante il riscontro tra tombe picene e tombe celtiche effettuato nei siti di Camerano e di Numana: all’interno di corredi funerari piceni si trovano elementi di pura tradizione celtica (armi piegate, fibule a balestra e rari oggetti di ornamento) che documentano sia l’integrazione di elementi celti nelle comunità picene che la diffusione di mode celtiche
209 Fase tradizionalmente datata tra 385-295 a.C., prendendo come termine cronologico inferiore per la fine della civiltà picena la battaglia del Sentino. In base ai risultati dello studio di alcuni corredi funerari di Camerano la studiosa ha preferito abbassare questo termine al 268 a.C., data della definitiva sottomissione del Piceno a Roma. Cfr. LOLLINI-CIANFARANI-ZUFFA 1976.
tra le popolazioni italiche, in parallelo con la presenza di oggetti e costumi celtici in necropoli picene come a Camerano e a Montefortino di Arcevia, a conferma della profondità dei contatti e della reciprocità degli scambi211.
La sovrapposizione di gruppi celtici al sostrato locale fu determinante per le reciproche interazioni che produssero inevitabilmente fenomeni di integrazione anche su larga scala, situazione che si manifesta con particolare evidenza nelle Marche e che ha suscitato l’interesse di gran parte della critica, suggerendo il confronto tra i complessi marchigiani più noti e alcuni contesti di località dell’Italia centrale e settentrionale che hanno restituito materiali celtici di carattere sia funerario che domestico (necropoli di Monte Bibele, sull’Appennino emiliano; necropoli di Campovalano di Campli nell’ager
praetuttianus) nei quali appare pratica comune di vivere in insediamenti misti,
all’interno dei quali i Celti convivevano pacificamente con le comunità locali, ipotesi che Naso avanza anche per le comunità a S dell’Esino, dove lo studioso prospetta convivenze tra Celti e Piceni in insediamenti misti, e tra Celti e Umbri a N dell’Esino212. Mentre per lo scalo di Ancona le importazioni dall’Attica inizieranno a scarseggiare già da prima della fondazione siracusana, a Numana si registra una certa continuità anche nel IV secolo a.C. con l’avvento pressochè ininterrotto di prodotti di un certo prestigio paragonabili a pezzi rinvenuti nelle necropoli di Spina e Adria attribuiti alla stessa bottega artigianale e databili alla metà del IV secolo a.C., a dimostrazione dell’esistenza di ampie correnti commerciali che risalivano l’Adriatico.
Se si considera che nelle necropoli di Spina il flusso delle importazioni greche sembra esaurirsi intorno al 325 a.C ca. si può ipotizzare che dopo questa data anche a Numana e forse ad Adria siano cessate le importazioni di materiale greco. A. Naso tuttavia, basandosi sulle ricerche di Landolfi, ipotizza che l’importazione prolungata di artigianato greco, apulo e lucano negli empori adriatici abbia dato luogo alla formazione
211 Intorno ad alcuni di questi preziosi oggetti si sono aperte lunghe disquisizioni tra gli studiosi onde individuare la diffusione di correnti tra le varie botteghe artigianali italiche e non: nelle sepolture di Numana, ed esempio, sono documentate armi di probabile produzione celtica, come l’elmo bronzeo della tomba 506 Davanzali, che rappresenta la forma più comune di elmo diffusa in territorio italico adottato anche dall’esercito romano. Secondo Schaaff questa tipologia sarebbe un derivato da prototipi celtici in ferro rielaborati da artigiani italici, mentre Coarelli e Ridella ritengono questa forma di elaborazione puramente italica; in effetti, la grande tradizione metallurigca del piceno che elaborò forma proprie fino a tutto il V secolo a.C. lascia tranquillamente ritenere che elmi di questa foggia venissero prodotti in loco.
Cfr. bibliografia in NASO 2000, pp. 298-299 e in R. RIDELLA, Alcune note su un elmo
preromano atipico da Cuneo, in QuadAPiem 12, 1994, pp. 43-52.
di artigiani locali, e abbia favorito l’ingresso di ceramografi di altre origini, sia greci che italioti, che imitarono i prodotti figurati di questa tradizione. Tali imitazioni sono stati poi rinvenute principalmente tra le foci del Po e il Piceno, con alcune presenze sulla sponda orientale, soprattutto in Dalmazia, sull’isola di Issa, a Durazzo e a Belshi, in Albania, località che lasciano ipotizzare l’influenza dell’intensa politica trans-asdriatica di Dionigi213.
M. Landolfi, dal confronto con il vasellame dei principali corredi funerari di Numana, Spina e Adria, ha messo in luce i reciproci contatti e le caratteristiche salienti, notando che mentre negli emporia di Numana e Spina le prime botteghe furono avviate fin dalla metà del IV secolo a.C., ad Adria i pittori iniziarono la loro attività nella seconda metà e negli anni finali del IV secolo a.C.214.
Ricerche di questo tipo sono state determinanti per l’individuazione dei canali commerciali che andavano a distribuire nelle regioni orientali della penisola le ceramiche prodotte in diversi centri: a Numana e nella fascia costiera compaiono le ceramiche etrusche a vernice nera prodotte a Volterra assieme alle ceramiche apule sovradipinte nello stile di Gnathia, mentre nelle aree appenniniche, come Tolentino e Pievetorina, troviamo importazioni dall’area falisco-capenate e dall’Etruria meridionale, situazione che riflette l’esistenza di numerosi circuiti di scambio attivati non solo attraverso le rotte di cabotaggio, ma anche lungo gli itinerari terrestri che favorivano le relazioni con i centri del versante tirrenico attraverso i valichi appenninici. D’altronde vasellame bronzeo di produzione etrusca è stato rinvenuto nelle tombe senoniche marchigiane, con ogni probabilità smistato sul versante adriatico lungo quegli itinerari commerciali seguiti da tutti gli altri più dozzinali prodotti ceramici215.
Anche se le invasioni celtiche innescarono un ampio processo di destrutturazione della civiltà picena, dalla documentazione archeologica disponibile per questa fase emerge una certa contiuità dei rapporti di natura prevalentemente commerciale tra il Piceno e altre regioni della penisola italica. In particolare continuano le proficue relazioni stabilite già dal VII-VI secolo a.C. con il centro di Praeneste, sede di officine specializzate nella lavorazione del bronzo, dedite alla produzione di vasellame e utensili, anche riccamente decorati, i cui prodotti, seppur in numero ridotto, sono stati
213 LANDOLFI 1997,pp. 111-130; NASO 2000, pp. 264-265.
214 LANDOLFI 1987,pp. 450-53;LANDOLFI 1997,pp. 111-130.
rinvenuti in particolare nell’Ascolano (Offida, Servigliano, Monsampietro Morico) in contesti funerari muliebri. Sarebbe eccessivo parlare di un attivo flusso commerciale vista la mancanza di importazioni picene a Praeneste e il numero esiguo di pezzi prenestini nelle Marche; come giustamente sottolinea Naso, potrebbe trattarsi della presenza diretta di personaggi femminili di origine prenestina in territorio piceno in seguito alle intense relazioni di natura commerciale stabilite da Praeneste con molte popolazioni italiche, relazioni attestate anche dall’ampio raggio di circolazione dei tipici strigili prenestini, documentati nelle necropoli celtiche di Montefortino di Arcevia, Santa Paolina di Filottrano e Serra San Quirico216.
Non vengono abbandonate neanche le relazioni con l’Etruria, documentate dalla presenza dei tipici calderoni bronzei con anse mobili, formati da due calotte emisferiche unite da ribattini, prodotte da botteghe di Volsinii dalla fine del VI alla fine del IV secolo a.C. e rinvenuti nelle zone interne dell’Umbria etrusca (Todi, Monteleone di Spoleto) nelle Marche (Castelbellino, Numana, Montefortino di Arcevia, Filottrano, Fabriano, San Ginesio) ed in Romagna (San Martino di Gattara, Imola). Di particolare interesse la diffusione dello stamnos, il vaso caratteristico della cultura etrusca per il consumo del vino, uno dei prodotti più tipici dell’artigianato etrusco, fabbricato da officine vulcenti e diffuso tra fine VI e fine IV secolo a.C. in tutta la penisola ed anche oltralpe. Nelle necropoli marchigiane abbondano gli stamnoi di produzione etrusca, sia nelle ricche tombe senoniche che in contesti di dubbia identificazione etnica, concentrati comunque nell’Ascolano e conservati nei Musei Archeologici di Ascoli Piceno e di Offida.
Come già accennato, evento determinante nella storia del medio-adriatico nel IV secolo a.C. è l’invasione da parte delle bellicose tribù celtiche, una presenza determinante nell’etnogenesi medio-adriatica. Le genti celtiche in realtà erano presenti nella penisola fin dal VII secolo a.C.: un luogo di Livio, infatti, narra dell’incursione di un contingente formato da guerrieri di numerose tribù celtiche che varcarono le Alpi alla guida del comandante Belloveso, scontrandosi con gli Etruschi sul Ticino, i quali, dopo essersi ricongiunti con i Celti Insubri già insediati in Italia, fondarono Milano217.
216 NASO 2000, pp. 267-268; KRUTA 2001, pp. 45-52; KRUTA 2006, pp. 275-284.
217 Liv., V, 34. Questa tradizione della fondazione celtica di Milano non ha avuto molto credito a causa dell’antichità del periodo a cui la notizia liviana vuole rifarsi, ma l’integrazione con altre fonti prospettata da A. Naso potrebbe al contrario dimostrare la sua affidabilità: un’iscrizione etrusca rinvenuta nella necropoli della Cannicella ad Orvieto, infatti, datata all’inizio del VI
Il passo liviano si rivela di grande interesse poiché attesta la presenza di Galli Insubri insediati in Italia prima della discesa di Belloveso, fornendo buoni spunti a coloro che hanno voluto riconoscere tracce della presenza celtica nella cosidetta “cultura di Golasecca” a partire dall’età del Bronzo finale, ed in alcuni siti dell’Italia nord-occidentale della prima metà del VI secolo a.C. ubicati lungo gli itinerari diretti ai valichi appenninici e percorsi dalle correnti commerciali che partivano dall’Etruria ed erano dirette a N delle Alpi giungendo sino alla valle del Reno (cfr. Castelletto Ticino e Como). In realtà anche Plinio ci parla dei rapporti tra Celti e Romani, narrando la vicenda del fabbro Elicone, della tribù degli Elvezi, il quale introdusse a Roma importanti cognizioni tecniche sulla lavorazione dei metalli218. Appare verisimile e alquanto probabile che le fertili terre della penisola italica e la qualità dei prodotti agricoli coltivati siano state un forte motivo di attrazione per le popolazioni celtiche che entrarono presto in contatto con gli Etruschi, quindi con i Liguri, spingendosi poi verso oriente fino al territorio veneto e al delta del Po, e da qui al Piceno vero e proprio. Rappresentano valide testimonianze archeologiche di questa grande mobilità dei gruppi celtici, che incrementò anche scambi a lunga distanza, le fibule di fogge originarie della zona a N delle Alpi che giungono a Numana in pieno VI secolo a.C., mentre oggetti tipici della cultura picena del medesimo orizzonte cronologico sono stati rinvenuti in territorio francese, probabilmente attraverso le vallate fluviali piemontesi. Mentre queste testimonianze ci parlano di scambi e influenze, seppur intense e determinanti, tra gruppi tribali di origine celtica e popolazioni italiche, sul finire del V e per tutto il IV secolo a.C. assistiamo a vere e proprie invasioni periodiche da parte di genti celtiche provenienti dalle regioni dell’Europa centrale costrette alla migrazione dall’eccessiva crescita demografica: in questo modo Galli Insubri, Cenomani, Boi, Lingoni, Senoni, ecc., furono i protagonisti di ondate migratorie nient’affatto pacifiche a danno delle popolazioni italiche centro-settentrionali, che ebbero profonda eco nella tradizione storiografica romana. È Livio ad informarci di una delle più cruente di queste incursioni, quando cioè un nucleo di Senoni si spinse nel cuore della penisola, invase e
secolo a.C., ricorda il defunto Avile Katacina, il cui gentilizio tradisce l’etruschizzazione di un nome personale celtico, a dimostrazione dell’esistenza di individui di origine celtica pienamente inseriti in una comunità umbro-etrusca nel VI secolo a.C. Stesse caratteristiche sono state riscontrate in un’altra iscrizione rinvenuta a Castelletto Ticino nei pressi di Novara, la quale celebra un certo Cosios, individuo di origine celtica sepolto qui nel secondo quarto del VI secolo a.C. Cfr. NASO 2000, pag. 251 e segg.
saccheggiò Roma, occupandola per diversi mesi, liberandola soltanto dietro il pagamento di un consistente riscatto in oro219. Lasciata l’Urbe i Senoni sarebbero andati ad occupare il territorio lasciato libero da altri Galli, ovvero la fascia delimitata dai fiumi Montone (o Uso) a N ed Esino a S compreso nelle attuali Emilia Romagna e Marche settentrionali, anche se la documentazione archeologica di questo territorio, che ha restituito i corredi funerari celtici più ricchi del centro Italia, si riferisce al periodo più antico delle prime invasioni celtiche nella penisola. Mentre i Senoni occuparono agevolmente la fascia costiera ed il primo entroterra, le comunità indigene umbre e picene si arroccarono nelle aree appenniniche.220
Si tratta di un territorio scarsamente popolato nel V secolo a.C., che aveva un incredibile valore strategico, combinando la possibilità di contatti marini con l’accesso alle regioni intermedie dell’Appennino lungo la vallata del Tevere, senza contare che attraverso stabili direttrici costiere e di traffico interno poteva entrare con estrema facilità in comunicazione con la Puglia e la Campania: non è difficile immaginare quanto questa possibilità sia stata sfruttata proficuamente da una popolazione bellicosa come quella celtica per periodiche spedizioni militari in Italia centrale e meridionale. Come per gran parte del mondo piceno, anche per la civiltà senonica la documentazione è prevalentemente funeraria e di straordinaria ricchezza, anche se queste necropoli sono per il momento le sole dove la ricchezza delle tombe sembra non riflettere una gerarchia che si riproduce periodicamente, di generazione in generazione, restituendo piuttosto l’immagine di una società che conosce momenti di grande afflusso di beni che vengono ostentati nella tomba. La zona maggiormente interessata da rinvenimenti di un certo rilievo è il comprensorio di Santa Paolina di Filottrano, nei pressi di Osimo (AN), dove si trova S. Filippo d’Osimo e soprattutto la necropoli di Montefortino di Arcevia, in cui le sepolture di maggiore antichità risalgono agli anni 350-330 a.C.. Bisogna ammettere, tuttavia, che il confine meridionale indicato dal passo liviano fu caratterizzato da una certa elasticità, poiché sono state rinvenute tracce di popolamento celtico anche a S dell’Esino, nelle Marche meridionali e in Abruzzo, a Campovalano di Campli221.
Potrebbe trattarsi di un fraintendimento della fonte liviana oppure, come propone M. Landolfi, il confine dell’Esino andrebbe riferito alle fasi più recenti dello stanziamento
219 Liv., V, 34, 5.
220 KRUTA 2001, pp. 45-52; KRUTA 2006, pp. 275-284.
senonico che, nella prima fase di penetrazione in Italia, potrebbe aver occupato un territorio più ampio di quello in cui li troviamo all’inizio del IV secolo a.C.222. I corredi delle tombe celtiche hanno restituito complessi di grande sfarzo con ornamenti in oro e pietre preziose, utensili, vasellame in argento e bronzo di produzione etrusca, laziale, campana e magnogreca, a dimostrazione dell’entità dei contatti e del livello di assimilazione dei costumi delle popolazioni italiche (Figg. 30-31). In particolare nella tomba 2 di Santa Paolina di Filottrano fu rinvenuta una coppa argentea greco-orientale della prima metà del VI secolo a.C., mentre la tomba 8 di Montefortino, che comprende monili aurei e vasellame bronzeo databili dal IV al III secolo a.C., rappresenta una delle associazioni di maggior rilievo per lo studio dell’età ellenistica nell’Italia centro-settentrionale. Per quanto riguarda la ceramica, ad essere maggiormente rappresentata è la categoria del vasellame figurato di fabbricazione attica e italiota di destinazione simposiaca. Oggetti caratteristici della cultura celtica sono invece i torques (collari metallici), i bracciali in vetro e un vasto repertorio di armi sia offensive che difensive che attestano la propensione dei Celti per le attività belliche e la radicata pratica del mercenariato.
Una particolarità di queste necropoli è la proporzione molto elevata delle tombe di armati rispetto alla media delle necropoli celtiche del periodo precedente: a Montefortino di Arcevia sono la metà degli inumati. Altra singolarità la frequenza degli elmi, deposti, a Montefortino, in quasi due terzi delle sepolture di guerrieri, oltrechè in numerose altre tombe delle regione223. Alcuni oggetti rinvenuti in queste deposizioni sono di chiara provenienza italiota e svelano la permeabilità di queste genti verso modelli di vita ritenuti di certo di maggior prestigio rispetto al proprio: oltre al vasellame bronzeo e argenteo di fattura tarantina e campana, a cui si è già accennato, ed alla ceramica greca e magno-greca, compaiono oggetti e mode etrusche, come un gioco dei dadi (associato a pedine in pasta vitrea colorata che doveva essere completato da una
222 LANDOLFI 1987, pp. 443-468; KRUTA 2001, pp. 45-52; KRUTA 2006, pp. 275-284.
223 Trattandosi di un elemento da difesa che non sembra riflettere una gerarchia sociale della classe militare, poiché compare in corredi relativamente poveri e non nelle ricche tombe di guerrieri dell’ultima fase delle sepolture di armati di Montefortino. Si tratta di particolarità che riflettono i simboli di una società in cui le armi svolgono un ruolo di primo piano al punto di rappresentare un distintivo etnico, essendo il mercenariato e la pratica della razzia a danno delle ricche città del centro-sud le risorse più redditizie di queste comunità popolate da avventurieri che svolgevano una doppia attività, partecipando in prima persona a queste imprese, e controllando il mercato della guerra alimentato da un continuo flusso di genti transalpine alla ricerca di ricchezza e di gloria. Cfr. KRUTA 2001,pp. 45-52; KRUTA 2006, pp. 275-284..
tabula lusoria in materiale deperibile come il legno), oppure squisitamente picene,
come la deposizione nella tomba del tipico calderone bronzeo, ed infine umbre, come la comparsa di un tipo molto particolare di sepoltura multipla per due o più guerrieri equipaggiati in maniera identica.
Come già accennato, la pratica del mercenariato fu la fonte principale della ricchezza delle tribù celtiche: un proficuo rapporto economico fu quello stabilito con i tiranni greci di Sicilia, a partire dall’età di Dionigi il Vecchio di Siracusa il quale, dopo aver consolidato il proprio dominio sulla Sicilia orientale, rivolse la propria attenzione alla penisola italica attratto dalla ricchezza dei traffici del bacino adriatico; il tiranno si pose così in una difficile posizione di conflitto di interessi sia con gli Etruschi che con gli Ateniesi, gli uni tradizionali nemici di Siracusa e principali partners commerciali degli Ateniesi in Adriatico, gli altri profondamente dipendenti dal tenore di questi scambi per l’approvvigionamento soprattutto cerealicolo di tutta l’Attica. I Celti furono, in questa delicata situazione strategica, ottimi alleati di Dionigi, soprattutto in occasione del sacco di Roma, quando il tiranno siracusano si alleò con i Senoni in funzione antietrusca e