I rinvenimenti effettuati su gran parte del territorio marchigiano a partire dagli inizi del ‘900, a cui seguirono i primi scavi regolari e le preziose ricerche di Dall’Osso e Marconi, misero in luce da subito l’esistenza di un’articolata fase orientalizzante nel Piceno, che inizia con la fine dell’VIII secolo a.C. per concludersi approssimativamente con la fine del VI secolo a.C., lo stesso arco temporale dell’orientalizzante etrusco. Il secolo VIII a.C. riveste un’importanza fondamentale nei processi etnogenetici italici, poiché vede la creazione ed il consolidamento di legami di varia natura nelle regioni della penisola italica, soprattutto nella fascia medio-tirrenica e nel Mediterraneo orientale: si forma un ceto aristocratico che emerge con la proprietà del bestiame e della terra e, con ogni probabilità, anche con forme a noi ignote di prelievi finalizzati al transito attraverso itinerari sottoposti a controllo (pedaggi veri e propri), come potrebbe suggerire la dislocazione di numerosi abitati in località strategiche. Questo fenomeno in Etruria diede luogo in primis alla formazione di clan gentilizi per la trasmissione ereditaria della proprietà, quindi al consolidamento di centri abitati di grandi proporzioni definiti già protourbani.
I protagonisti di queste nuove forme socio-culturali sono appunto i principi-guerrieri, a noi noti per lo più attraverso la documentazione funeraria, che ne evidenzia la ricchezza e lo sfarzo.
Moltissimi corredi funerari noti alla tradizione di studi provenienti nei centri della costa etrusca e dell’immediato entroterra (Vetulonia, Vulci, Tarquinia, Caere, Veio, ecc.) attestano che la ricchezza veniva investita nell’acquisizione di beni suntuari al fine di imitare il modello di vita delle corti ioniche, penetrato nella penisola italica dai siti emporici costieri attraverso Cipro, non soltanto come importazione di artigianato pregiato e beni di lusso, ma attraverso l’attività di artigiani orientali emigrati dall’Oriente e residenti soprattutto in Etruria, dalla quale principalmente si irradiò a tutte le regioni dell’Italia antica la cultura orientalizzante attraverso complicati processi di interazione che portarono a contatto i gruppi culturalmente più arretrati con le comunità urbane (soprattutto quelle delle regioni costiere) più sviluppate, identificabili
con la fascia medio-tirrenica e le zone dell’Italia meridionale a diretto contatto con i coloni greci.
Per quanto riguarda l’Italia centrale si segnalano ceti gentilizi dotati di grandi capacità di accumulo di beni di lusso in zone situate in posizione strategica per il controllo degli itinerari di lunga percorrenza, in particolare quelli legati alla transumanza delle greggi (Umbria, Sabina tiberina, Campania, Daunia), dove sono state rinvenute tombe con corredi di rango principesco che attestano l’esistenza di ceti gentilizi dotati di grandi capacità di accumulo e di acquisto.
Si tratta di una classe di recente formazione, che acquisisce nuovi stilemi culturali principalmente attraverso gli Etruschi e i Greci, i quali le avevano a loro volta mutuate dal Vicino Oriente. Naturalmente si riscontra anche un certo grado di adattamento delle nuove mode alle usanze affermate tra queste popolazioni: ad esempio, si utilizzano oggetti e simbologie derivanti dal sistema figurativo orientale (legate principalmente al potere ed alla sua rappresentazione sociale) all’interno delle sepolture etrusche e picene, e generalmente in tutto il rituale funerario italico vengono immessi nuovi elementi allogeni, esclusivamente in base ai nuovi diktat culturali (deposizione del carro a due ruote in tombe sia maschili che femminili, deposizione di troni lignei finemente intagliati e decorati da maestranze orientali, di numerosi modelli di lituo e bastoni con evidente allusione allo scettro di esclusiva pertinenza orientale, rappresentazioni di banchetti, e -caratteristica peculiare delle sepolture medio-adriatiche e picene nella fase orientalizzante- deposizione di dischi-corazza bronzei, spade e pugnali con impugnature finemente decorate in avorio e altri materiali pregiati, di cui sono stati esposti pezzi molti interessanti nella recentissima mostra di Matelica148, cfr. Figg. 23-26).
Nella fascia interna montuosa delle Marche il popolamento è determinato dalle caratteristiche orografiche del territorio, con una predilezione per le località situate nei punti di valico per la più agevole comunicazione col versante occidentale, ovvero con l’Etruria e l’Umbria.
Questa caratteristica assume nella regione marchigiana un’importanza fondamentale, poiché l’unica possibilità di relazione per la fascia interna è rappresentata dai passi e dalle gole appenniniche, punti di transito obbligato nel territorio per il quale essi rappresentano vere e proprie cerniere.
148 Per cui si veda AA.VV.2008;cfr. ancheDALL’OSSO 1915; MARCONI 1933; NASO 2000, pp. 95 e segg.;
Caso emblematico è quello del comprensorio di Fabriano, punto chiave per le comunicazioni tra i due versanti appenninici, praticabili attraverso il passo di Fossato di Vico, al quale fa da pendant, sul crinale opposto, Gubbio, situato ad una distanza simile dal passo di Fossato. Pur trovandosi in una zona fortemente sottoposta all’influenza culturale etrusca e umbra, le testimonianze orientalizzanti di Fabriano rientrano a pieno nella cultura picena, essendo evidenti anche gli aspetti più concretamente legati al versante orientale della penisola. Appare molto probabile, secondo Naso, che proprio da qui si siano irradiati i traffici provenienti dalle regioni occidentali della penisola, in base al fatto che proprio nelle necropoli di questo distretto territoriale (località “Sacramento” e località “Santa Maria in Campo”, di maggiore antichità e ricchezza) è stato rinvenuto uno dei corredi di maggior sfarzo e di alta antichità tra quelli noti nella cultura orientalizzante dell’Italia centro-orientale149, tanto da far inserire Fabriano nel ristretto novero dei complessi funerari di rango principesco composto dalle più celebri attestazioni dell’Etruria (Caere e Vetulonia) del Lazio (Tivoli, Praeneste e Rocca di Papa) e della Campania (Cuma e Pontecagnano). I numerosi e preziosi materiali della tomba 3 di S. Maria in Campo lascerebbero fissare la cronologia del sepolcreto alla prima metà del VII secolo a.C., anche se la presenza in particolare di un’olla dauna (che attesta l’esistenza di una rete di scambi tra le regioni adriatiche, basata sulla navigazione di cabotaggio) e di una kotyle etrusca che imita prodotti medio-protocorinzi nella tomba 4 induce piuttosto a riconsiderare la cronologia di alcune deposizioni nel terzo quarto del VII secolo a.C..
Leggermente posteriore alla necropoli di S. Maria in Campo di Fabriano è quella di Monte Penna di Pitino di San Severino Marche, che ci restituisce un profilo culturale diverso dell’orientalizzante piceno (Cfr. Figg. 22-26) La necropoli è stata agevolmente attribuita all’abitato di Pitino di San Severino, sul quale si posseggono purtroppo soltanto dati molto scarsi, che occupava un ruolo strategico di prim’ordine nel territorio, dominando da una posizione naturalmente fortificata a N l’alta valle del Potenza, uno dei principali percorsi trasversali di collegamento tra il distretto appenninico e la fascia costiera. La sua importanza è dimostrata e confermata dalla localizzazione di numerosi abitati piceni e dall’esistenza di una diramazione locale della Via Flaminia (Prolaquensis) che ribadisce la rilevanza di questo percorso nella topografia del territorio.
I rinvenimenti di ceramica attica a figure nere e rosse, che attestano la frequentazione nel VI e V secolo a.C., e le caratteristiche strategiche del sito hanno indotto gli studiosi a postulare anche per il VII a.C. l’esistenza di un abitato che utilizzò la necropoli di Monte Penna nell’intera seconda metà del VII secolo a.C., scendendo all’inizio del VI secolo a.C., quando venne abbandonato. Intorno alla metà del V secolo a.C. inizia l’utilizzazione a scopo sepolcrale del sito di Frustellano, topograficamente più vicina al colle di Pitino. L’immagine restituita dalla necropoli di Monte Penna, seppur condizionata dal numero delle sepolture esplorate e dalla quantità di materiale rinvenuto, è quella di una comunità di grande ricchezza, che conosce forti importazioni dall’Etruria di oggetti di gran pregio.
Abbondano le armi difensive (dischi-corazza, elmi e schinieri bronzei) per lo più prodotte in loco, su quelle offensive (lance e spade a stami), da cui si deduce che esse rappresentavano con ogni probabilità insegne da parata piuttosto che strumenti di uso effettivo. Le deposizioni femminili sono caratterizzate da oreficerie importate dall’Etruria e molto spesso, paradossalmente, dalla presenza di dischi-corazza bronzei con decorazione geometrica, tipici delle deposizioni maschili, ma considerati, su proposta di Annibaldi e di D. Lollini,150 residui di stole in materiale deperibile, già note in area adriatica come attributo delle donne di alto livello sociale, ma da attribuire piuttosto, secondo Naso, ad una tipologia particolare di dischi-corazza, di dimensioni inferiori e di spessore più esiguo rispetto a quelli delle deposizioni maschili, che non avevano destinazione bellica, ma erano semplici indicatori dell’elevato stato sociale delle defunte151, come accade per i bastoni di comando in funzione di scettro, che compaiono indifferentemente nelle sepolture dei due sessi. Esclusiva delle deposizioni maschili i servizi per la cottura ed il consumo della carne, molto probabilmente a causa dell’esistenza all’interno della comunità di associazioni maschile alle quali era riservata la pratica del banchetto.
Questa documentazione rivela che il piccolo nucleo insediato sulla rocca di Pitino intratteneva profondi e intensi rapporti con l’Etruria, attraverso le diverse comunità dislocate nel bacino del Tevere, in territorio falisco, sabino e capenate; una ricchezza che, per almeno due generazioni successive, interessa i maggiorenti della comunità, riconoscibili dalle loro sepolture eccezionali. Questa capacità di accumulazione non si
150 LOLLINI 1977; ANNIBALDI 1964, pp. 91-98.
può scindere dalla posizione topografica naturalmente forte a controllo del corso del Potenza, probabilmente esercitato anche mediante pedaggi obbligatori.
Caratteristiche analoghe al centro di Pitino ebbe il centro localizzato nel sito di Tolentino, sulla riva sinistra del fiume Chienti, che rivestì anche in questo caso un’importanza strategica fondamentale per il controllo della via di comunicazione naturale costituita dalla vallata fluviale in corrispondenza dell’angusto punto di svalicamento appenninico. Nelle tombe della necropoli in località Sant’Egidio di Tolentino sono stati rinvenute altre preziose testimonianze dell’artigianato orientalizzante piceno, attribuite dagli studiosi non a influenze dell’arte etrusca bensì ad interventi veri e propri di artigiani etruschi nel Piceno attraverso quel processo di mobilità già noto dalle testimonianze di altri siti152.
Questi prodotti di fine artigianato etrusco prevalgono spesso sulle produzioni locali anche per quantità e, oltre che nelle necropoli già citate, essi compaiono anche in altre località marchigiane meno note o mal indagate, come la necropoli di Belmonte Piceno (oltre trecento tombe scavate), che Dall’Osso definiva la più importante della cultura picena, ma che non ha avuto un adeguato spazio nella critica a causa delle pesanti perdite di materiale subite nel bombardamento del Museo Nazionale di Ancona del 1944, dov’era custodita la maggior parte dei reperti.
Dall’analisi del prezioso materiale residuo (coppe in lamina argentea di bottega etrusca con fregio animalistico di ascendenza corinzia, anfore globulari di produzione etrusca, ecc.) è stata ipotizzata una circolazione di beni nel ristretto ambito dello scambio di doni cerimoniali tra esponenti di pari rango sociale per favorire relazioni, fruibilità o accesso a determinate risorse, come il transito lungo itinerari. Riconducibili sempre ad influenze tirreniche anche numerosi oggetti del mondo femminile che costituiscono pure espressioni del lusso aristocratico (in particolare gli avori intagliati che, come vedremo, ricoprono un ruolo fondamentale nell’archeologia picena di età preromana) noti da parecchi siti nel Piceno, ma soprattutto da Belmonte Piceno, che sono stati attribuiti addirittura alla tradizione artigianale di ambiente sirio-fenicio di VIII secolo a.C. (cfr.
Figg. 24 e 76) . Naso ritiene, verosimilmente, piuttosto improbabile il fatto che in questa
fase così antica sia stata possibile un’interazione tra le zone dell’entroterra piceno e genti di origine orientale senza il tramite etrusco, in considerazione delle forti influenze
che il mondo tirrenico esercita in ambito adriatico153. Per questo è quanto meno più plausibile ipotizzare che la presenza degli avori intagliati a Belmonte Piceno sia direttamente riconducibile alle importazioni commerciali etrusche che si diffondono nel Piceno attraverso i passi appenninici, anche se non va esclusa la possibilità che alcuni artigiani orientali, attratti dalla committenza locale, si siano stabiliti al di fuori dell’Etruria vera e propria, ammettendo la possibilità che nel Piceno esistessero artigiani e botteghe di varie provenienze e formazione.
Come già accennato, la lavorazione dell’avorio costituisce un capitolo a sé, insieme a quello della lavorazione, diffusione e destinazione dell’altro prodotto aristocratico per eccellenza del periodo orientalizzante, ovvero l’ambra, di cui si è già parlato sopra. Le ambre picene, nello specifico, il cui uso non è attestato per la fase del Bronzo, rivestono un ruolo di prim’ordine in tutta l’Italia preromana, con una delle produzioni meglio note per l’altissima qualità e l’ampio spettro delle tipologie. Ad una prima fase di VIII secolo a.C., in cui compaiono i primi oggetti in ambra nella cultura materiale picena, segue il periodo orientalizzante che vede la massiccia diffusione di questo bene di prestigio (per lo più si tratta di intagli per pendenti di collane, orecchini, bottoni, decorazioni di fibule, ai quali va aggiunto un nucleo di pendenti figurati di epoca successiva, seppur compresi nel VII secolo a.C.) di pertinenza per lo più femminile, esibito probabilmente in occasioni rituali e di conseguenza immesso nei corredi funerari. Si registra una netta prevalenza dei rinvenimenti (a livello quantitativo) nei siti costieri, a dimostrazione che il commercio dell’ambra grezza seguiva la rotta marittima adriatica con la navigazione di piccolo cabotaggio, mentre per quanto riguarda la localizzazione delle officine, bisogna pensare ai siti della costa o dell’immediato entroterra, e per la redistribuzione dei prodotti finiti agli itinerari naturali, quali la rete delle vallate fluviali. Esistono delle vistose differenze tra i pezzi rinvenuti nel distretto meridionale e quelli del distretto settentrionale: la zona costiera meridionale annovera una maggiore varietà tipologica, che riflette una superiore quantità di rinvenimenti rispetto al distretto settentrionale (Novilara) dove la presenza di ambra nelle sepolture è nota fin dalla prima metà dell’VIII secolo a.C., oltre al fenomeno piuttosto singolare che pregevoli pezzi in ambra si trovano anche nelle deposizioni maschili, come accade a Cupra Marittima. Di particolare pregio e rarità i pochi reperti figurati databili a quest’epoca, la cui provenienza esatta è purtroppo ignota, ma che vanno comunque
riferiti all’ascolano: si tratta nello specifico di riproduzioni di figure femminili stanti, generalmente con le braccia incrociate sotto il seno, accostate alle figure femminili in avorio da Castelbellino, le cui caratteristiche formali riportano ad ambiente orientale, nord-siriano per l’esattezza. Come suggerisce Naso, se per quanto riguarda gli avori postulare una via commerciale diretta tra l’Oriente e il Piceno escludendo il tramite etrusco, secondo la proposta della Bisi, appare audace, la ricostruzione potrebbe invece essere valida per l’ambra, a causa della diversa prospettiva storica di quest’ultima rispetto all’avorio, essendone affidata la commercializzazione ad un itinerario di piccolo cabotaggio, che dall’Europa centro-orientale risaliva le coste del bacino adriatico, senza necessità della mediazione etrusca154. Inoltre, il fatto che la lavorazione dell’ambra nel Piceno (soprattutto le applicazioni di forma geometrica sulle fibule) risalga di fatto ad epoca molto antica lascia credere che la tradizione artigianale della produzione di pendenti in ambra di forma geometrica e figurata si sia affermata nel corso del VII secolo a.C., fase che probabilmente fu preceduta da quella più antica rappresentata dall’inserzione di grandi noduli nelle fibule a staffa corta, documentata a Novilara ed in molte località dell’area marchigiana meridionale. Resta, secondo Naso, il dubbio sulla formazione di queste scuole di intaglio che tradiscono un sicuro apporto orientale, e che potrebbero essere il risultato delle precoci relazioni intrattenute dal Piceno con l’Etruria155.
Quelle finora citate rappresentano le più rilevanti esperienze orientalizzanti di chiara (o fortemente probabile) influenza etrusca sul territorio marchigiano. Tuttavia la documentazione archeologica di VII secolo a.C. nella regione comprende anche significativi esemplari ascrivibili alla cultura picena: si tenterà ora una rapida rassegna dei siti più rappresentativi per quanto riguarda questi aspetti.
Le testimonianze forse più antiche ci sono state restituite dalla necropoli picena di Moie di Pollenza, situata a mezza costa di un terrazzo fluviale affacciato sulla riva meridionale della valle del Potenza, in direzione dei centri di Passo di Treia e Treia, dislocati nel fondovalle e sul pendio sull’opposta riva settentrionale. Il sepolcreto è costiuito da una trentina di tombe a fossa, delle quali alcune contenute entro circoli di pietre. Caratteristico il rinvenimento anche in deposizioni femminili (vedi Monte Penna di Pitino di San Severino Marche) di dischi corazza bronzei con decorazioni
154 BISI 1981-82, pp. 79-93; NASO 2000, pp. 130-134.
geometriche, probabilmente utilizzati anche in alcuni particolari del vestiario femminile (stole) e soprattutto come indicatori di rango sociale elevato. Questo sepolcreto conserva l’immagine di una piccola comunità insediata nella valle del Potenza con una netta stratificazione sociale al suo interno (indiziata dalla coesistenza di due tipi di sepolture adottati in aree contigue: tombe a circolo con inumazione distesa e tombe a fossa con inumazione ranicchiata). Altro dato molto interessante è la presenza delle tombe a circolo, attestate nelle Marche meridionali a Tolentino, Moie di Pollenza, Ponte di Pitino di San Severino e Matelica, mentre per quello settentrionale abbiamo Novilara e, seppur con molte incertezze, Pergola. Si tratta di una tipologia di sepoltura alquanto diffusa in questa fase cronologica in molte regioni della penisola (Romagna, Abruzzo, Molise?); in Italia centrale (area umbro-etrusco-laziale) è attestata a Gubbio, Gualdo Tadino, Spello, Monteleone di Spoleto, Terni, Borgorose, Tivoli, Massa Marittima, Marsiliana d’Albegna, Vetulonia, Bisenzio. Si tratta di una tipologia funeraria che non ha delle caratteristiche fisse, accogliendo varianti nella struttura del circolo e nel numero delle deposizioni al suo interno, e spaziando anche moltissimo a livello cronologico, essendo attestata dal X-IX secolo a.C. in area appenninica, fino all’VIII secolo a.C. (Etruria e Moie di Pollenza) e addirittura al VI secolo a.C. (Tolentino e Ponte di Pitino).
L. Bonomi Ponzi, prendendo in considerazione le tombe a circolo dell’Umbria, propone di riconoscervi un segno distintivo dei personaggi di più elevato rango sociale156, mentre V. d’Ercole, in base alla maggior concentrazione delle tombe a circolo in area appenninica, che sono anche le attestazioni più antiche, ritiene che si tratti di una forma di sepoltura propria delle genti italiche insediate nell’area interna157. Va sottolineato però, come mostra bene Naso, il fatto che nell’VIII-VII secolo a.C. le tombe a circolo si diffondono oltre i limiti dell’area originaria, soprattutto in area picena, etrusca e laziale, e quindi queste attestazioni periferiche dell’ambito tirrenico e adriatico vanno distinte e inquadrate nell’ambito delle relazioni intrattenute dalle stirpi appenniniche con quei territori: si potrebbe vedere nelle tombe a circolo dell’Etruria il riflesso di singoli individui o interi gruppi di italici che in questa maniera rimarcano le proprie origini. Per il Piceno la diffusione di questa tipologia sepolcrale potrebbe essere invece legata a fattori di status sociale, ipotesi confermata dalla parziale coincidenza nella distribuzione
156 BONOMI PONZI 1996, pp. 111-115.
di tombe a circolo dei già citati dischi corazza a decorazione geometrica pertinenti a personaggi femminili. La caratterizzazione di queste deposizioni “aristocratiche” è stata effettuata anche in base ai risultati di studi approfonditi sugli altri elementi per lo più bronzei rinvenuti in queste deposizioni (oltre ai dischi corazza femminili e maschili, gli elmi, le caratteristiche spade a stami, l’articolata varietà degli schinieri anatomici, le ciste, i cinturoni, le fibule, i bastoni di comando) dei quali sono state analizzate le caratteristiche formali, la distribuzione, le tipologie dati per i quali si rimanda alla sintetica ma completa rassegna di A. Naso158.
Per quanto riguarda il distretto meridionale delle Marche la documentazione è prevalentemente funeraria e limitata a quella sommariamente citata in questa sezione. Sarebbe necessario per ricostruire un’immagine completa della società picena di VII secolo a.C. in tutte le sue componenti aggiungere i dati desunti dall’analisi di altri contesti come quelli religiosi e domestici, ma la ricerca da questo punto di vista risente della scarsità dei dati a disposizione per quanto riguarda l’ambito religioso, e della mancata o parziale indagine scientifica (spesso si tratta di mancata edizione) per quanto riguarda gli abitati, tranne che per rare eccezioni, come lo scavo di edifici domestici a Belmonte Piceno frequentati dal VII al IV secolo a.C., o quello di un villaggio capannicolo a Monteroberto e a Porto S. Elpidio, o quelli di Rotella e Abbadetta di