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Le origini della stirpe picena

Nel documento Indice Introduzione (pagine 25-38)

Passiamo quindi all’altrettanto controverso problema dell’origine della stirpe picena: la tradizione erudita di matrice italico-romana, riportataci da Plinio il Vecchio, che accredita la teoria di un’origine sabina dei Piceni giunti nella regione costiera in seguito

      

79 NASO 2000, p. 23.

ad un ver sacrum, resta la più accreditata presso la critica81; la tradizione trova la sua formulazione più compiuta in ambito erudito, come attesta Paolo Diacono che alla fine del VIII secolo d.C. riassume l’epitome di Verrio Flacco (redatta a sua volta da Pompeo Festo nel II d.C.), anche se nel testo non viene esplicitamente menzionato il ver sacrum, ma lo spostamento di una parte della popolazione sabina verso Asculum al seguito di un vessillo sul quale compariva l’immagine di un picchio82. La critica storiografica ha assunto atteggiamenti molto differenti in merito alla tradizione del ver sacrum: alcuni la considerano infatti di tradizione genuina, che risponde a concreti aspetti antropologici e storici delle civiltà preromane, mentre per altri si tratterebbe di ricostruzioni operate dagli storici romani di età tardo-repubblicana basandosi sui dati della mobilità delle popolazioni italiche. In particolare dall’analisi proposta da G. Tagliamonte si deduce che già il testo di Verrio Flacco presenta elementi poi confluiti nelle successive redazioni, ovvero la derivazione etimologica del coronimo dall’avionimo picus, il dato dell’origine sabina dei Piceni, il riferimento al rituale del ver sacrum, non ultimo il ruolo rivestito dalla capitale Asculum nel processo etnogenetico83.

Il fatto che Floro parli di Asculum, caput gentis84 e Silio Italico definisca Picus, genitor e re dei Prisci Latini85 potrebbe rappresentare, secondo Tagliamonte, un termine cronologico per la formazione della saga delle origini picene nella forma definitiva in cui ci è pervenuta: ovvero, nel ruolo attribuito ad Ascoli c’è probabilmente il riflesso del nuovo assetto costituzionale conseguito dalla città dopo la guerra sociale, probabilmente con l’instaurazione dell’ordinamento municipale dopo l’89 a.C., o forse dopo l’istituzione della colonia. Questa sarebbe la motivazione all’origine della teoria della tradizione stratificata di matrice romano-italica, nella quale si sommano istanze di carattere antiquario e linguistico alla volontà di sottolineare i legami tra Roma e Piceni, giungendo alla soluzione di proporre un’interpretazione “nazionale” delle origini picene. Secondo Naso invece, per quanto sia innegabile che la tradizione del ver sacrum sia frutto di una ricostruzione erudita della storiografia tardo-repubblicana, essa potrebbe riflettere concretamente un meccanismo di autoregolamentazione della società che, giunta al limite delle risorse presenti sul territorio abitato, era costretta ad espellere

      

81 Plin., Nat. Hist. III, 18, 110.

82 Paul. Fest., p. 235 Lindsay, s.v. Picena regio.

83 TAGLIAMONTE 1999, pp. 12-13; NASO 2000, pp. 30 e segg.; NASO 2006, pp. 9-12;

84 Flor., Ep., I, 14, 2.

alcuni membri per garantire la sopravvivenza dell’intera comunità86. Queste motivazioni di ordine squisitamente pratico avevano anche carattere politico/religioso, essendo effettuate, ad esempio, per ringraziare una divinità di una vittoria in guerra o della grande disponibilità di uomini in armi, che costituiva una garanzia di mantenimento del proprio territorio e quindi del proprio potere.

La tradizione letteraria fa registrare orientamenti molto eterogenei sia per quanto riguarda la tradizione del ver sacrum, sia in merito alla denominazione del popolo piceno e del suo territorio: da una parte gli storici di III secolo a.C. (momento in cui Roma entra in contatto con la civiltà picena), e Livio in primis, che usano sempre l’etnonimo Picentes; dall’altra le fonti greche, che conoscono una gamma molto più ampia di denominazioni. Plutarco e Claudio Tolomeo parlano toutcourt di “Piceni”87, mentre Appiano, narrando dell’attacco ai Galli Senoni del 283 a.C., afferma che le truppe romane attraversarono il territorio dei Sabini e quello dei “Picentini”, termine usato anche da Strabone88. Nella tarda opera di Stefano di Bisanzio ricorrono tre termini diversi: “Picianti”, con riferimento molto generico ad un popolo d’Italia, solitamente identificato dalla tradizione con i Piceni, “Picentini”, e “Picentico” in riferimento alla regione tra il golfo Adriatico e il Po89.

Ad un luogo di Strabone si deve la notizia dell’esistenza di un nucleo di Piceni, denominati “Picenti”, deportati dai Romani nel salernitano all’indomani della conquista della regione adriatica del 268 a.C., i cui abitanti sono invece definiti “Picentini”90, mentre al contrario Claudio Tolomeo chiama “Picentini” il nucleo deportato in Campania91. La varietà dei termini non riguarda soltanto l’etnonimo ma anche il coronimo: infatti, oltre a quelli già ricordati, abbiamo più di un luogo di Plutarco in cui si parla di “Picenide”92.

Tutta questa varietà di termini è dovuta, secondo Naso, alla varietà delle fonti adoperate dagli autori, che conservano lezioni diverse dovute agli adattamenti e alle traslitterazioni in greco di parole desunte da un’altra lingua93. Strabone non fa alcun cenno ad Asculum

      

86 NASO 2000, p. 32.

87 Plut., Pomp. VI, 3; Ptolem., Geogr. III, 1, 18 e 45.

88 App., Samn. VI, 3; Strab., V, 4, 2.

89 Steph. Byz., p. 523, 11 Meineke; p. 18, 16 Meineke; p. 492, 6 Meineke.

90 Strab., V, 4, 13.

91 Ptolem., Geogr. III, 1, 7.

92 Plut., Marc. IV, 1; Pomp. VI, 1.

né esplicitamente al ver sacrum, ma ribadisce l’origine sabina del popolo piceno e soprattutto la derivazione dell’etnonimo dall’avionimo, e il ruolo guida avuto dall’uccello sacro a Marte nella migrazione94; in questo modo risulta esplicita l’identificazione con il picus Martius romano che connota militarmente la migrazione dei Sabini/Picenti. La stessa tradizione del ver sacrum è riportata chiaramente in uno scolio alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, in cui è stato riconosciuto un testo vicino all’originale di Verrio Flacco, recando entrambe le notizie confluite in Festo e in Plinio95. Ma c’è un punto in cui sia le fonti latine che quelle greche trovano sostanziale accordo, ovvero sul fatto che il picchio rappresenti l’animale totemico dei Piceni: non si tratta certo di una scelta casuale essendo il picchio l’animale sacro a Marte nella tradizione latina, usato nella disciplina augurale che compare addirittura nella saga delle origini di Roma. Da non dimenticare poi la notizia di Dionigi d’Alicarnasso96 (da ricondurre a Varrone) che ci parla del santuario di Tiora Matiena, nel reatino, sulla via per Lista, dove esisteva un antichissimo oracolo di Ares presso il quale un picchio vaticinava appollaiato su un palo, e che potrebbe rappresentare il punto di partenza del

ver sacrum dei Sabini/Picenti diretti verso la regione adriatica: in questo caso la

migrazione avrebbe seguito l’antichissimo itinerario Montereale-Amatrice-Ascoli, una delle principali vie di comunicazione tra il cuore della Sabina, gran parte dell’attuale provincia dell’Aquila e la costa adriatica.

Le fonti letterarie citate non fanno alcun riferimento esplicito a motivazioni di carattere politico, ecologico e pratico tali da motivare un ver sacrum, come ad esempio accenni al numero dei migranti, il nome del mitico condottiero, come accade per i veria sacra di Sanniti e Lucani. Del tutto assenti anche notazioni specifiche sulle caratteristiche di questo popolo: a differenza dei Sabini e dei Sanniti, che Plinio definisce gentes

fortissimae Italiae97, non compaiono riferimenti al carattere bellicoso dei Piceni, caratteristica invece assai evidente dalla documentazione archeologica, che comprende il più articolato repertorio bellico offensivo e difensivo dell’Italia preromana.

Per quanto riguarda il ruolo svolto dalla caput gentis, Asculum98, Naso propende per l’ipotesi che al momento della repressione romana della rivolta picena del 269/8 a.C.

      

94 Strab., V, 3, 1, C 228; V, 4, 2.

95 Glossaria Latina, vol. IV, p. 320 Lindsay, s.v. Picena regio.

96 Dion. Hal., I, 14, 5.

97 Plin., Nat. Hist., III, 11, 106.

l’insediamento non possedesse ancora una struttura urbana vera e propria, pur assolvendo alla funzione di centro di riferimento per la popolazione, essendo la comunità di villaggio la forma aggregativa più diffusa presso le popolazioni italiche99. La documentazione archeologica non può fornire alcun riscontro in merito, non rimanendo dell’abitato piceno che pochi frammenti ceramici rinvenuti in giacitura secondaria nel ponte di Solestà, alcune tombe identificate nella zona del centro storico e in località “Campo Parignano”, al di là del fiume Tronto che attraversa la città. Certamente la posizione topografica della città risponde in pieno ai criteri del centro fortificato antico: all’imbocco della valle fluviale, sotto la quinta montuosa, come dimostra chiaramente anche il fatto che il sito appare frequentato fin da età protostorica. Sembra opportuno a questo punto soffermarsi per un momento sui dati che ci ha restituito Callimaco: abbiamo visto, infatti, come nel periplo dello Pseudo-Scilace gli abitanti del Piceno vengono designati con un etnico che di fatto li uniforma ai Peucezi di Puglia. Da questa considerazione Braccesi opera una rilettura delle fonti greche che menzionano i Peucezi, partendo da un passo di Callimaco. Nel frammento 107 Pfeiffer degli Aitia si parla, infatti, di un assedio a Roma da parte dei Peucezi, privati del loro comandante dal romano Gaio, che l’uccise, rimanendo zoppo nel combattimento. Questo assedio a Roma da parte dei Piceni è ignoto alla tradizione e sono restati senza identità questi Peucezi assalitori di Roma, a meno che non si accetti, con Colonna, l’ipotesi che si tratti di alleati degli Etruschi di Porsenna, come già detto, oppure come propone Mazzarino, di identificarli genericamente con popolazioni provenienti dalla costa adriatica100. Lo stesso vale per il personaggio romano menzionato, che andrebbe identificato secondo la critica o con Orazio Coclite, oppure con un civis romanus qualsiasi, privo di specifica identità101. Secondo Braccesi appare discrimante la determinazione dell’avvenimento storico che fa da cornice alla menzione dei Peucezi: un assedio a Roma la cui memoria è molto forte nell’immaginario degli autori greci. Considerato che in tutta la tradizione si conoscono soltanto due aggressioni contro Roma che siano giunte fino alle porte della città, ovvero quella di Porsenna ed il sacco gallico, bisogna procedere per esclusione nei confronti della prima poiché la storiografia

      

99 NASO 2000, p. 36; per l’urbanizzazione del Piceno cfr. BANDELLI 2007, pp.25-26.

100 MAZZARINO 1966, pp. 257 e segg.

greca più antica non sapeva nulla di Roma prima del celebre sacco gallico, in base a quanto riportato esplicitamente da Plinio102.

Di conseguenza va preso in considerazione soltanto l’assedio gallico, considerato la grande vicenda che proietta per la prima volta l’interesse del mondo greco su Roma, come attestano Teopompo103, Aristotele, che conosce un Lucius salvatore di Roma (che sembra il gemello del Gaius di Callimaco)104 e da Eraclide Pontico che considera Roma

polis hellenís proprio per il fatto di essere riuscita a resistere all’orda celtica105. Ora, se l’assedio contro Roma da prendere in considerazione è quello gallico, viene da chiedersi cosa abbiano in comune questi Galli con i Peucezi di Callimaco, e la risposta va trovata, secondo Braccesi, nel fatto che questi Galli appartenevano con ogni probabilità alla stirpe Senone, e che quindi potrebbero essere stati facilmente sovrapposti dallo storiografo greco ai Piceni loro confinanti nella regione medio-adriatica, o comunque sentiti dal mondo antico come popolazione adriatica, per cui etichettati come Piceni106. Non va inoltre esclusa del tutto la reale presenza di elementi piceni nella tentata impresa gallica. Lo studioso tenta di avvalorare ulteriormente la sua teoria portando come conferma il dato, riferito dall’annalistica, del recupero dell’oro pagato ai Galli dai Romani proprio in territorio piceno: secondo il noto luogo di Servio, infatti, Camillo inseguì i Galli fino a Pesaro, dove li vinse e recuperò l’oro del tributo, mentre Svetonio ricorda un certo Drusus, antenato dell’imperatore Tiberio, quale trionfatore sui Galli, sempre nell’ager Gallicus.

Esiste anche un altro filone della tradizione, che indica Ancona quale meta di ritorno dei Senoni dopo il saccheggio di Roma107. Nonostante le sovrapposizioni della memoria storiografica, quindi, un dato ritorna con chiarezza, ovvero la connessione tra il sacco gallico ed il territorio piceno, tra Senoni vittoriosi reduci ad Ancona e Galli vinti da Camillo (oppure da Drusus). Nella stessa ottica va ripresa la già citata testimonianza di Clemente Alessandrino, che, elencando una serie di exempla virtutis, parla di un Postumio romano prigioniero di Peucezio che resiste valorosamente ad un interrogatorio ponendo la propria mano sul fuoco, secondo lo stesso copione del celebre episodio di Muzio Scevola: si tratta di vicende che ripropongono l’ostentazione della forza d’animo

      

102 Plin., Nat. Hist., III, 57.

103 Theop., FGrHist. 115 F 317.

104 Aristot., Fr. 610 Rose.

105 Er. Ponth., fr. 22 Wehrli.

106 BRACCESI 1999, pp. 31-32.

e della virtus romana di fronte al nemico, ed in questo caso, trattandosi di un nome gentilizio, si potrebbe trattare di un personaggio reale, ovvero di uno dei Postumii protagonisti politici e militari negli anni del tumulto gallico. Un'altra testimonianza letteraria callimachea di grande importanza è quella, già citata, riportataci da Plinio, in cui lo storico, all’interno di una rassegna di etnie liburniche, cita proprio “quos

Callimachus Peucetios appellat”. Per tentare di interpretare questa notizia la critica ha

proposto di identificarli con genti di stirpe liburnica anticamente insediate in territorio piceno, oppure considerando i Liburni una “popolazione trans- e pan-adriatica”108. La Rossignoli tenta di superare la difficoltà proponendo una terza soluzione, a dire il vero piuttosto singolare, che citiamo solo per completezza bibliografica prendendone però le distanze a causa dell’inconsistenza della ricostruzione. La studiosa pone, infatti, l’attenzione sulle modalità con cui la storiografia greca ha considerato il problema dell’origine dei Piceni, chiamando in causa un luogo di Strabone in cui si parla di un’isola di Peùke e dei Peùkinoi che la abitano presso la foce del Danubio109, mentre Tolomeo ricorda la località di Pikouènton in Istria110. Ora, premettendo che nell’ottica greca il Danubio possedeva una ramificazione proprio nei pressi del mare d’Istria, si suppone che la corrispondenza onomastica possa aver acquisito reale consistenza nell’immaginario antico al punto da sostenere che lo stesso popolo abitò entrambe le foci del Danubio, sia quella adriatica che quella pontica111. Questo potrebbe aver indotto, secondo la Rossignoli, la storiografia greca a connettere i Peùkinoi danubiani con i Piceni che Callimaco vuole insediati in area liburnica. La studiosa si interroga su quale connessione si sia potuta stabilire tra un popolo attestato contemporaneamente in area pontico-danubiana (Strabone, Tolomeo), in area liburnica (Callimaco) ed in area sabina (sempre Strabone per la tradizione del ver sacrum), giungendo alla conclusione che nell’ottica storiografica ellenica queste aree geografiche erano connesse da un nesso mentale che si prefigurava una via fluvio-terrestre che dal Ponto raggiunge l’Alto Adriatico attraverso i corsi congiunti del Danubio, della Drava e dell’Isonzo, per poi proseguire con navigazione endolagunare fino al delta padano, incanalandosi verso il Lazio attraverso le valli del Savio e del Tevere. Al primo tratto di questa via ricondurebbe, fra storia e leggenda, l’itinerario argonautico, mentre al terzo (da Spina

      

108 MAZZARINO 1966, pp. 257 e segg.

109 Strab., VII, 305.

110 Tol., III, 1, 24.

all’Etruria e alla Sabina), quello pelasgico. Praticamente la riflessione storiografica ellenica potrebbe aver assegnato ai Piceni una provenienza orientale dall’area del Ponto e una metà centro-italica (come per i Pelasgi) con una migrazione che dall’alto Adriatico punti verso il Lazio e la Sabina.

Se tuttavia per questo nostro excursus storico è possibile interrogare le fonti greche sugli abitanti della fascia medio-adriatica e sulle loro vicende, non è possibile, al contrario, operare un confronto con fonti di origine picena, poiché non possediamo alcuna testimonianza della tradizione scritta.

In quest’ottica assumono straordinaria importanza documenti di altra natura, per lo più testimonianze di carattere archeologico, come, ad esempio la celebre stele di Novilara con naumachia, conservata al Museo Oliveriano di Pesaro: unico documento che ci fornisce preziose informazioni su come le popolazioni adriatiche guardassero al mondo greco e ai consistenti traffici commerciali nelle loro regioni litoranee. Ricordiamo che con Novilara siamo, appunto, sulla fascia costiera tra Rimini e Ancona, più esattamente tra Pesaro e Fano: una terra di confine tra Piceni e Etruschi prima, e nord-Piceni e Galli poi; i Greci la sentiranno come una località abitata da una popolazione con substrato etnico umbro su un territorio a N dell’Esino, la cui propaggine accoglie l’approdo alla foce del Pisaurus (il fiume Foglia) nel sito dove poi sorgerà la Pesaro romana, e dove la presenza di un abitato piceno è documentata presso l’antico letto fluviale dal rinvenimento di capanne a pianta rettangolare su grandi ciottoli, con alzato in legno e tetto in tegole fittili, all’interno delle quali è stata rinvenuta ceramica attica, importata in questa zona già dal VI secolo a.C.112.

Il colle di Novilara sorge nell’immediato entroterra, a circa 3,5 km dalla costa in un ambito geografico delimitato dalle valli dei fiumi Foglia a N e Metauro a S. Fin dal 1873 si registrano rinvenimenti di materiale archeologico di carattere per lo più funerario nei campi coltivati lungo il pendio settentrionale del colle, ai quali poi seguirono gli scavi regolari di Brizio e Gamurrini tra il 1891 e il 1893, e quelli di Dall’Osso nel 1912. Le ricerche hanno messo in luce gran parte di quello che doveva essere un enorme sepolcreto (oltre 2000 sepolcri) organizzato in nuclei concentrati alternati a zone non utilizzate113. Si tratta di tombe a fossa scavate nella terra o nella roccia, nelle quali i defunti sono deposti rannicchiati sul fianco destro, sopra uno strato

      

112 Cfr. BRACCESI 2000a, p. 237 e segg.

di sabbia, argilla o ghiaia marina; in alcuni casi veniva deposto sul fondo della fossa anche uno strato di calce con la quale venivano ricoperti molto probabilmente anche il cadavere e le suppellettili.

Le tombe erano infine ricoperte con terreno di riporto, senza particolari segnalazioni (solo 9 tombe del fondo Servici sono segnalate in superficie da cippi-stele in arenaria, presumibilmente appartenenti a personaggi di rango) al punto che le fosse erano talmente poco visibili sul terreno già in antico da dare luogo a sovrapposizioni. In seguito a varie analisi sui resti delle tombe scavate è stato anche ipotizzato, principalmente da Beinhauer, che a Novilara convivessero due distinte comunità non appartenenti alla stessa stirpe antropologica: nel fondo Servici sarebbero sepolte genti appartenenti ad una popolazione italica dell’età del Ferro, mentre gli inumati del fondo Molaroni potrebbero essere degli immigrati di origine mitteleuropea compresi nella cosiddetta “koinè adriatica”114.

Questa proposta, avanzata alcuni anni fa, è stata valutata negativamente in seguito a nuovi riscontri sui reperti osteologici delle sepolture, che mostrano per lo più caratteristiche omogenee con soltanto poche e irrilevanti variazioni. Sarebbe troppo lungo entrare nel dettaglio della lunga tradizione di studi intorno alla comunità di Novilara: in questa sede ci limiteremo a sottolineare il fatto che essa occupa una posizione particolare, quasi di isola culturale nel panorama dell’Italia preromana, principalmente a causa della sua collocazione topografica. Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, il sito appare del tutto distaccato rispetto al popolamento noto per il territorio compreso tra il Tronto e l’Esino: non si conoscono per l’VIII secolo a.C. attestazioni archeologiche nella fascia territoriale situata a N dell’Esino, né sulla costa né nell’entroterra. Per rinvenire tracce di popolamento risalenti all’ VIII o al VII secolo a.C. occorre spingersi nell’entroterra di Senigallia, dove è stato individuato l’abitato-necropoli di Montedoro di Scapezzano, a San Costanzo, e, oltre il corso del Metauro, a Monte Giove, eccetto un gran numero di sepolture e scoperte isolate in varie località nel distretto di Fano. I reperti rinvenuti in questi siti mostrano stringenti analogie tipologiche con la cultura materiale di Novilara, tanto che essi sono stati assimilati al medesimo orizzonte culturale; il che dimostrerebbe che la cultura di Novilara non fu così isolata come sembrerebbe, e che potrebbe trattarsi di un modulo abitativo strutturato in una sub-regione con caratteri culturali propri, con centro a Novilara, e una

      

periferia costituita dai centri minori documentati nella fascia territoriale tra i fiumi Cesano e Foglia.

L’analisi dei reperti in bronzo, in particolare spilloni e oggetti di ornamento personale,

Nel documento Indice Introduzione (pagine 25-38)