Con l’avvento dell’età del Ferro, intorno al IX secolo a.C., e di conseguenza l’affermazione di quel fenomeno che determinò il progressivo emergere di raggruppamenti culturali omogenei in aree vicine, si formano quelli che saranno i nuclei delle popolazioni italiche che caratterizzeranno le varie facies regionali della penisola (Fig. 10). Nell’Italia centrale questo momento coincide con l’avvio di un processo, soprattutto in Etruria meridionale, che porterà all’abbandono dei piccoli nuclei sparsi nelle campagne a favore di nuove sedi sui pianori tufacei che assumono un aspetto protourbano: è l’affermazione della cultura villanoviana, contraddistinta in particolare dalla deposizione dei resti incinerati dei defunti entro vasi di forma biconica con due anse orizzontali, decorati con motivi geometrici incisi e coperti da una ciotola monoansata o dalla riproduzione di un elmo, deposti generalmente all’interno di pozzetti circolari (cfr. Fig. 18). In territorio laziale si affermerà ad esempio una cultura affine a quella villanoviana, ma differente per vari aspetti, nonostante sia dimostrato che le genti latine intrattenevano rapporti con gli Etruschi della sponda destra del Tevere. Gli Etruschi villanoviani intrattenevano proficui rapporti sia con l’Emilia (Felsina, Verrucchio) che con la Campania (Pontecagnano, Sala Consilina, Vallo di Diano) dove appresero dai coloni calcidesi di Cuma il sistema di scrittura. Anche le manifestazioni di cultura villanoviana riscontrate nell’entroterra ascolano, a Fermo, appartengono a questa fase culturale. Furono le ricerche di I. Dall’Osso all’inizio del secolo scorso a porre in evidenza lo spessore e l’importanza delle manifestazioni della prima età del Ferro nelle Marche, con le campagne di scavo condotte a Fermo, Cupra Marittima e Belmonte Piceno, oltrechè con le acquisizioni dalle collezioni private locali126, ed in seguito l’opera di Dumitrescu e della Lollini hanno segnato un capitolo fondamentale per lo studio di questo periodo storico nel territorio marchigiano127.
La scoperta della tomba 52 di Numana (area Quagliotti) ha rappresentato un caposaldo fondamentale per la storia dell’età del Ferro nell’area marchigiana meridionale, trattandosi della più antica testimonianza funeraria della civiltà picena, databile alla prima metà del IX secolo a.C., nella quale si distingono rituali e usanze di tradizione villanoviana in un contesto che la cultura materiale riporta ad ambito indigeno (Fig. 14). In realtà gli influssi provenienti dal versante tirrenico sono da ricondurre al precoce
126 Cfr. DALL’OSSO 1915.
interessamento per la regione adriatica mostrato dalle comunità dell’Etruria meridionale (che determinò l’insediamento di Fermo).
Le testimonianze della prima civiltà picena sono concentrate soprattutto lungo la fascia costiera (Osimo e dintorni, Ancona, Numana) anche se non si può utilizzare questo come rigido modello interpretativo a causa delle altrettanto significative attestazioni di siti in località dell’entroterra con carattere strategico di controllo dei percorsi trasversali lungo le vallate fluviali (Moie di Pollenza nella valle del Potenza e Tolentino nella valle del Chienti).
Sarebbe più opportuno quindi dire che il popolamento interessò fin da queste primissime fasi prevalentemente la fascia costiera ma con grande attenzione ai punti nevralgici dislocati lungo i corsi d’acqua dell’entroterra. Si tratta prevalentemente di sepolture dai corredi poveri, costituiti molto spesso da un solo oggetto metallico, mentre, per quanto riguarda gli abitati, le testimonianze si riducono a singoli reperti ceramici acquisiti in giacitura secondaria.
Le informazioni più dettagliate sulla consistenza, sulla composizione sociale e numerica degli abitati e sulla cultura materiale di queste società sono state dedotte dall’analisi degli abitati e dei sepolcreti di IX-VIII secolo a.C. della zona del Conero, prevalentemente Ancona, dopodichè il distretto meglio conosciuto, soprattutto per quanto riguarda la topografia degli abitati, è il territorio ascolano, per il quale è stato possibile evidenziare alcune caratteristiche salienti del popolamento. Si concorda, ad esempio, nel fatto che gli abitati maggiori occupavano una posizione naturalmente forte, su colli arroccati (la cui presenza è generalmente segnalata dalla cintura dei sepolcreti che li cinge) ad una distanza media di 10-15 km l’uno dall’altro, il che lascia ipotizzare che la loro fondazione rifletta una forma di coagulazione demografica nel territorio intorno al IX secolo a.C. (anche se il modello è contraddetto dalla presenza di abitati delle stesse dimensioni, sempre circondati da sepolcreti, che distano tra loro meno di 2,5 km). In realtà la contraddizione si risolve in alcuni casi particolari, rappresentati dagli abitati di Colli del Tronto, Spinetoli e Monsampolo del Tronto, che sono dislocati lungo una fondamentale direttrice viaria, parallela al corso del Tronto, che rappresenta uno dei principali itinerari di penetrazione dalla costa verso l’interno di importanza fondamentale nella topografia storica delle Marche128. Altri fattori decisivi per la scelta degli insediamenti sono senz’altro la disponibilità di risorse idriche e la disponibilità di
terreni fertili e facilmente lavorabili: ecco allora che la natura del suolo determina fortemente la dislocazione degli insediamenti nella zona del basso ascolano. Per quanto riguarda invece gli impianti produttivi piceni per la metallurgia e la ceramica, essi sono scarsi e mal noti, concentrati nell’ascolano e non legati soltanto, per quanto riguarda la metallurgia, alla produzione delle peculiari fogge di armi picene, ma anche di altri utensili rinvenuti all’interno degli abitati (crogioli, forme di fusione per anelli, ecc.). In merito alla ceramica, invece, va segnalata la scoperta presso Acquaviva Picena del fondo della camera di combustione di un forno dell’VIII secolo a.C., che rappresenta la più antica testimonianza di un impianto produttivo di età picena. Un discorso a sé merita il caso di Fermo, dove tra fine IX e inizi VIII secolo a.C. appare insediata stabilmente una comunità villanoviana, inseritasi a pieno titolo in territorio piceno, molto probabilmente non isolata sul territorio, documentata dal rinvenimento alla metà del secolo scorso di sepolcreti con corredi tombali di notevole interesse (Fig. 18). Certamente questa comunità isolata dovette intrattenere rapporti con le comunità picene circostanti, come attesta la diffusione di oggetti di foggia inequivocabilmente villanoviana, per lo più bronzi, all’interno di sepolcreti e abitati piceni129 (Cfr. Figg.
16-17). Oltre che nella tipologia degli oggetti, la ricerca ha riscontrato sostanziali analogie
con le comunità dell’Etruria propria anche nei meccanismi sociali, come, ad esempio, nella maggiore circolazione di beni di prestigio in pieno VIII secolo a.C., probabilmente legata a scambi tra individui, fenomeno tipico dell’età orientalizzante. Attualmente le tendenze prevalenti nella ricerca sono due: quella tradizionale vede nella comunità di Fermo il risultato della colonizzazione di una comunità villanoviana immigrata nell’ascolano dal IX secolo a.C. e integratasi in maniera crescente nel corso dell’VIII secolo a.C. in ambiente piceno, fino a perdere l’identità culturale originaria nel VII secolo a.C.. A questa ricostruzione si contrappone quella proprosta da R. Peroni che, sulla scia della pluralità delle componenti riscontrata nella cultura materiale di Fermo, considera le testimonianze archeologiche rinvenute nel contesto di questa comunità come attestazioni del meccanismo particolarmente diffuso in questa fase cronologica della circolazione dei beni, seppure a livello di un contesto urbano molto popoloso130. Secondo Naso tuttavia, un’analisi approfondita dei tipi archeologici documentati sembra confermare un adeguamento sempre più incisivo della comunità fermana all’ambiente
129 Cfr. PERONI 1992, pp. 13-38; COLONNA 1993, pp. 8 e segg.; NASO 2000, pp. 62-72.
circostante, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., momento in cui si registra per gli oggetti metallici un considerevole aumento delle fogge di origine medio-adriatica e bolognese, tendenza ulteriormente ribadita nel corso del VII secolo a.C., quando le testimonianze archeologiche dalle necropoli “Misericordia-Solfonara” si possono classificare come prettamente picene: la cultura materiale riflette così la progressiva perdita di identità del nucleo originariamente villanoviano, la cui natura è chiaramente indicata nella documentazione databile dal IX all’VIII secolo a.C., al punto che per il caso di Fermo si è parlato di tentativo di colonizzazione fallito, o meglio, assorbito nel tessuto insediativo locale dopo due secoli di convivenza131, promosso con ogni probabilità da uno dei siti dell’Etruria interna allo scopo di guadagnare uno sbocco sul Mare Adriatico (che sarebbe da ricercare, secondo Colonna, nella zona tra Porto San Giorgio e Porto Sant’Elpidio, ipotesi supportata anche dal rinvenimento a Porto S. Giorgio di un bronzetto orientalizzante di bottega etrusca settentrionale), intento perseguito dagli Etruschi già in età molto precoce132. Potrebbe esistere anche una terza possibilità, proposta da Baldelli e fugacemente riportata da Naso, ovvero quella che prevede che il nuovo abitato sia il risultato di una fondazione mista ad opera di gruppi di varia origine, naturalmente Etruschi compresi, all’interno di un nuovo quadro di assetto sociale e culturale del territorio133. Appare evidente il fatto che la fondazione da parte degli Etruschi toutcourt di una realtà urbana tanto isolata nel contesto in cui sorge, assume dei connotati quanto meno peculiari, per quanto l’ubicazione nell’entroterra in una posizione affacciata sul mare richiama fortemente il modello insediativo utilizzato a Verucchio.
Nonostante i problemi irrisolti su questa peculiare realtà urbana nell’entroterra ascolano, resta il fatto che sia l’estensione, sia la scelta topografica del sito per l’insediamento, sia la dislocazione dei sepolcreti intorno all’abitato ricalcano i criteri ben noti nei centri protourbani dell’Etruria meridionale riscontabili anche a Verucchio.
In definitiva, stando alla documentazione esaminata finora, si compone un quadro per la fascia medio-adriatica costituito da una serie di comunità che già dal IX secolo a.C. erano stabilmente insediate sul territorio e intrattenevano proficui rapporti con varie genti sfruttando la propria posizione litoranea, in primis quelle insediate sulla costa
131 NASO 2000, pp. 68-70.
132 Cfr. BARTOLONI 1989, pp. 131-132;SASSATELLI 1996, pp. 249-271; COLONNA 1993, pp. 8 e segg.
orientale dell’Adriatico, documentati dai rinvenimenti archeologici per lo più in contesti funerari che rivelano notevolissime somiglianze formali oltre all’adozione vera e propria di ornamenti e armi di foggia simile in ambienti piuttosto lontani. Si presuppongono dunque rapporti stabili e profondi tra le popolazioni adriatiche occidentali e orientali basati con ogni probabilità su scambi di natura economica, come il commercio di materie prime.
Uno dei metodi di ricerca, a questi livelli cronologici, è quello di muoversi con un procedimento esplorativo che rintraccia le tappe della navigazione antica mediante la ricostruzione del circuito distributivo di alcuni beni: per quanto riguarda il bacino adriatico è stato ricostruito il percorso della navigazione, prevalentemente di piccolo cabotaggio, analizzando la distribuzione della ceramica dipinta daunia nel VII secolo a.C.. In seguito alla comparsa sulla sponda orientale dell’Adriatico di tipologie di ornamenti personali e di armi proprie delle culture italiche già a partire dall’VIII secolo a.C. è stato ipotizzato che questo circuito fosse già attivo dal IX secolo a.C., rappresentando una conseguenza della progressiva infiltrazione in Italia di piccoli gruppi umani provenienti dalla sponda orientale dell’Adriatico, fenomeno che rappresenta la fase iniziale di una larga circolazione ed intensi scambi tra i gruppi umani insediati sulle due sponde dell’Adriatico, inquadrati dalla ricerca in un un’unica koinè culturale che raggiungerà il massimo della sua espressione nel VI e V secolo a.C. e che conosce un momento determinante alla fine del VII secolo a.C., momento di massima diffusione della ceramica dipinta apula attraverso vettori liburnici134. Non si dimentichi che un altro prodotto chiave all’interno del circuito di scambi attivo in Adriatico nel VIII secolo a.C. è l’ambra del Baltico, una protagonista dei traffici commerciali di età preclassica: si tratta, infatti, di un bene di lusso di produzione prevalentemente baltica, di cui sono stati rinvenuti pregevoli manufatti in numerose necropoli di età protostorica in ambito italico (soprattutto piceno, cfr. Fig. 20), ma anche illirico, macedone, ionico. Il lettore permetterà, anche in questo caso, una breve digressione.
Secondo un’affermata tradizione di studi uno dei principali snodi di questo interessante commercio era il delta padano, in quanto sbocco delle vie carovaniere provenienti dal Nord Europa, da dove poi il prodotto sarebbe stato commercializzato all’interno del bacino del Mediterraneo, tant’è che proprio nell’area deltizia si colloca uno dei più eclatanti rinvenimenti di manufatti in ambra, e si tratta con ogni probabilità del più
antico in Italia: siamo a Fratta Polesine, in un’area immediatamente a N del delta del Po, dove sono stati rivenuti molti manufatti in ambra baltica databili, sulla scia di pezzi simili appartenenti al tesoro del Palazzo di Tirinto, al Miceneo III C, ovvero al 1150-1050 a.C.. A causa del numero consistente e del livello piuttosto elevato della qualità di questi pezzi, Braccesi ipotizza la presenza di un mercato stabile dell’ambra nella zona endolagunare veneta, ed in particolare nell’area deltizia135 proposta rafforzata dalla proposta di ubicare le isole Elettridi (ήλεκτρον è il nome greco dell’ambra), considerate punto terminale del commercio dell’ambra nell’alto Adriatico, alla foce del Po, e precisamente in banchi di deposito alluvionale in continua trasformazione e periodica alluvione stagionale136. Se avessimo il conforto di una maggiore documentazione, seppur mantenendo un atteggiamento di grande cautela, si potrebbe parlare in questo caso di conferma del dato mitico-letterario attaverso l’evidenza archelologica137. Sia la notizia della formazione delle isole Elettridi da detriti alluvionali, che quella della presenza di acquitrini originati da sorgenti sulfuree, caratteristici di quest’area del delta, sia infine la presenza dell’ambra commerciata con l’elemento greco e confermata dal rinvenimento di Fratta Polesine, sembrerebbero poter avvalorare la tradizione che pone in quest’area del delta uno snodo cruciale del commercio dell’ambra baltica frequentato
135 BRACCESI 1977, pp. 35 e segg.
136 BRACCESI 1977, pp. 30-37; Cfr. BRIQUEL 1984; BRIQUEL 2000, pp. 19-36; Sulle isole Elettridi cfr. anche Apoll. Rhod., IV, 505-506; Strab., V, 1, 9 (215); Plin., Nat. Hist., III, 151-152; Mela, II, 114. Steph Byz., s.v. Hλεκτρίδες νη̃σοι MEINEKE p.299e segg.
137 La penetrazione di elementi micenei nell’area del delta, oltre che dagli indizi relativi alla diffusione dei culti eroici di Antenore e Diomede e dalle notizie desunte dalle fonti letterarie esposte, sarebbe indiziata anche da un altro passo letterario dello pseudo aristotelico autore del “De mirabilius auscultationibus” in cui si dice che presso le Isole Elettridi, formate dai depositi alluvionali del fiume Eridano (Po), si trovano due statue arcaiche con dedica, opera di Dedalo, che era giunto in questo luogo fuggendo Minosse. Che per Eridano si intenda il fiume Po già in età arcaica, e non si tratti piuttosto di un’attribuzione tarda, è dato come assodato da Braccesi, in base ad un approfondito esame di alcune testimonianze, tra cui soprattutto Ferecide, Eschilo, Euripide e Igino. Cfr. BRACCESI 1977, pp. 46-49. Secondo l’anonimo pseudo-aristotelico le statue in questione rappresenterebbero Dedalo stesso e suo figlio Icaro, che rimasero in questa zona fin quando giunsero i Pelasgi cacciati da Argo; in prossimità del fiume Eridano si troverebbe un laghetto d’acqua calda, putrescente e maleodorante, presso il quale si racconta sia caduto Fetonte ucciso da un fulmine. Infine, sempre presso le rive di questo lago sono presenti molti pioppi, dai quali stilla il cosiddetto elettro, materiale simile alla gomma arabica che poi indurisce come una pietra e viene raccolto dagli indigeni che ne fanno commercio con i Greci. Nella mitologia classica i pioppi sono in realtà le sorelle di Fetonte, le Eliadi tramutate in pioppi, e l’ambra che stilla dai loro rami altro non è se non le loro lacrime che, cadendo sulla sabbia, si solidificano asciugate dal sole, tramutandosi in una pietra lucida. Lo stesso aition leggendario è riportato anche da Apollonio Rodio. Cfr. Ps. Aristot., 836 a-b, mir ausc. 81;
da genti greche. Si consideri, infatti, che una parte della tradizione pone come punto di arrivo in occidente dei cosiddetti “Pelasgi” proprio le mitiche isole Elettridi, i quali “Pelasgi” avrebbero in seguito fondato il primo nucleo di Spina: il dato mitistorico sulla navigazione di genti greche in Occidente alla fine dell’età micenea con lo scopo di inserirsi nella rotta dell’ambra che aveva il suo polo terminale nel delta padano assume uno spessore maggiore attraverso il rinvenimento di Fratta Polesine.
Il passo di Apollonio Rodio citato (Cfr. nota 136) comprende in realtà anche un’altra notazione molto interessante che troverebbe riscontro a livello archeologico: si dice, infatti, che gli Argonauti, su indicazione dell’oracolo, dalla foce dell’Eridano dovranno raggiungere il mare Ausonio, e lo faranno navigando il fiume Eridano e il fiume Rodano, i cui corsi sono congiunti138.
Questa indicazione geografica, che coincide oltretutto anche con l’itinerario fornitoci dal luogo di Dionigi già citato139, presuppone con ogni probabilità una via terrestre che dalla foce del Po, attraversando l’Appennino, portava all’Italia centrale e alla costa tirrenica: si tratterebbe della principale via di penetrazione dei cosiddetti “Pelasgi” verso il centro Italia, che potrebbe trovare riscontri dal punto di vista archeologico: dal delta del Po, attraverso la valle del Savio e quindi le valli dell’Arno e del Tevere, essa raggiungeva la costa tirrenica. Il rinvenimento di manufatti in ambra in zone nelle quali la frequentazione “pelasgica” è documentata anche da altre evidenze archeologiche permette di consolidare ulteriormente la verisimiglianza di questa ricostruzione: infatti, manufatti in ambra della stessa tipologia di quelli di Fratta Polesine (definiti da Braccesi “di tipologia micenea” 140) sono stati rinvenuti in Adriatico a Coppa Nevigata, a Lipari nel Tirreno, a Ischia di Castro nell’alto Lazio, nei pressi di Luni sul Mignone, tutte aree in cui è documentabile la frequentazione achea. Secondo Braccesi questi manufatti in ambra baltica venivano lavorati in area egea, da dove poi venivano smistati lungo le principali vie del commercio miceneo nel Mediterraneo sia occidentale (la penisola italica) che orientale (la Siria)141 .
La particolarità straordinaria dell’area del delta padano è che la zona poteva fungere contemporaneamente da punto di arrivo sia dell’ambra grezza dalle regioni nordiche che dei manufatti lavorati in area egea attraverso un processo di reversibilità per cui il
138 Apoll. Rhod., 4, 627-628.
139 Dion. Hal., I, 28, 3= Hellanicus FGrHist. 4 F 4.
140 BRACCESI 1977, pp. 50-51
prodotto lavorato pagava quello grezzo142. Sempre che non si ammetta anche la possibilità della presenza di artigiani di origine egea presenti in loco che lavoravano il prodotto grezzo reimmettendolo immediatamente sul mercato, ipotesi che ha però ancora minori possibilità di dimostrazione concreta. In base a queste considerazioni e riprendendo in gran parte la tradizione di studi in proposito, Braccesi tenta una ricostruzione dei percorsi del commercio dell’ambra grezza, sostenuto, ove possibile, dalla documentazione archeologica: mediante la via più antica l’ambra dalle regioni del Baltico perveniva al Danubio, scendendo i corsi dei fiumi Elba e Moldava; da lì giungeva quindi ai valichi alpini del Brennero e del Resia, per poi prendere la Val d’Adige fino al Garda, da dove, attraverso il corso del Mincio, giungeva all’area deltizia del Po. Ora, se si accetta la ricostruzione tentata sopra, bisogna ipotizzare che il prodotto raggiungesse l’area egea per opera di mercanti micenei attraverso una lunga navigazione di cabotaggio della sponda settentrionale e orientale dell’Adriatico. Lo studioso completa poi la sua formulazione ricordando il fatto che alla fine dell’età del Bronzo oltre a questa via si aprirà un altro canale commerciale molto più rapido, che percorrendo i corsi dei fiumi Oder e Morava, raggiungeva le coste alto-adriatiche attraverso l’Isonzo, alla foce del quale però non è stato rinvenuto alcun insediamento greco né di età arcaica né classica, motivo per cui la critica propende per l’ipotesi che vede l’ambra proseguire via terra dalla foce dell’Isonzo attraverso canali illirici, fino ai confini settentrionali del mondo ellenico, ipotesi sostenuta dal passo di Erodoto in cui lo storico ricorda la via dell’ambra per eccellenza, sottolineando che i primi greci che ne vennero in possesso furono gli abitanti di Dodona143. Questa seconda via, definita “alto-adriatica” si affermerebbe, secondo Braccesi, quando, in seguito al declino della potenza achea e allo scemare della navigazione micenea in Adriatico, decadranno gli empori del delta, che rappresentavano le sedi privilegiate del mercato dell’ambra, e il mondo greco,