• Non ci sono risultati.

L’età arcaica nelle Marche (VI-V secolo a.C.)

Nel documento Indice Introduzione (pagine 59-79)

Con la fine del VI e l’avvento del V secolo a.C. si apre per tutta l’Italia centrale una fase molto particolare che registerà cambiamenti tali da mutare sensibilmente, finanche a sovvertire, gli equilibri politici e sociali raggiunti in precedenza. Una delle cause di questa rivoluzione va individuata certamente nel peso crescente assunto dalle città etrusche nella penisola italica che avrà conseguenze dirette anche sul bacino adriatico in seguito all’espansione di alcune comunità urbane dell’Etruria centro-settentrionale nelle fertilissime terre della Val Padana, a Nord del Po, in seguito alla quale, alla fine del VI secolo a.C., vennero potenziati abitati già esistenti come Felsina e Ravenna, e ne vennero fondati di nuovi in località di alto valore strategico come Marzabotto, Casalecchio di Reno, Bagnolo San Vito, ecc., anche se il simbolo dell’interesse etrusco per questa fascia territoriale è la fondazione di Adria nel secondo venticinquennio del VI secolo a.C., alla quale seguirà quella di Spina, poco dopo. Tralasciando le questioni inerenti la portata politica e storica di queste fondazioni e la loro fase di predominio in Adriatico, a cui si è accennato nell’introduzione, è preferibile concentrare la nostra attenzione su questa fase di profondi mutamenti geopolitici inaugurata dall’Etruria centro-settentrionale, rifacendosi alla già citata teoria di G. Colonna che ha voluto individuare l’inizio della talassocrazia etrusca in Adriatico nella spedizione che gli Etruschi padani, alleati con Umbri e Dauni, intrapresero contro Cuma nel 524 a.C., e che segnerebbe, secondo lo studioso, la sconfitta dei Liburni e l’apertura totale delle rotte adriatiche ai Greci (Cfr. Fig. 55).

L’ipotesi trova riscontro nella documentazione archeologica, che vede proprio nella prima metà del VI secolo a.C. le prime importazioni di vasellame greco, fenomeno contemporaneo al crollo delle importazioni di ceramica daunia159. La critica considera piuttosto unanimemente il fatto che naviganti egei si fossero spinti in occidente alla ricerca di materie prime già in età molto antica, ma se osservassimo un’ideale carta di distribuzione della ceramica corinzia tra la prima e la seconda metà del VI secolo a.C. potremmo evidenziare il rinnovato entusiasmo dei traffici greci negli scali adriatici, fulcri di un’intensa attività commerciale con le popolazioni dell’entroterra che interesserà in particolar modo Adria e l’entroterra veneto, Spina e l’Etruria padana, Numana e l’entroterra piceno160 (Fig. 27-28).

      

159 COLONNA 1987, pp.37-44;COLONNA 1989,pp.11-26.

Nella seconda metà del VI secolo a.C. si registra un incredibile intensificarsi delle correnti commerciali provenienti dalla Grecia (soprattutto Atene ed Egina), anche in questo caso attestato dalle ragguardevoli quantità di ceramica attica a figure nere e a figure rosse di altissimo pregio rinvenute nelle necropoli di Spina, volume che supera addirittura quello dei ben più noti porti tirrenici.

È proprio questa la fase in cui lungo la fascia litoranea medio-adriatica sorgono o vengono potenziati notevolmente altri scali che svolgono funzioni subalterne rispetto a Spina, e che costituiscono punti cardine nella nostra indagine: S. Marina di Focara e Monte Giove a N dell’Esino, Numana, Ancona e Cupra Marittima nel settore meridionale, scali che in realtà svolgono ruoli per niente secondari a dispetto delle loro dimensioni ridotte e della loro involuzione nell’età successiva.

Gli studi di Shefton in particolare hanno messo in relazione la presenza di vasellame bronzeo laconico databile al VI secolo a.C. in molti siti della penisola con analoghi rinvenimenti occorsi nell’Europa centro-orientale, nei territori dell’attuale Ungheria e Romania, attribuibili, secondo lo studioso, ad un itinerario commerciale che avrebbe portato questi pezzi dal Peloponneso ad uno scalo medio- adriatico (Numana ?) da dove poi sarebbero stati smistati parte nell’entroterra piceno, parte oltralpe, lungo la valle del Danubio sin nel cuore dell’Europa centro-orientale attraverso il caput Adriae, ripercorrendo all’inverso la via dell’ambra161. L’itinerario potrebbe essere confermato dalla recente scoperta in una tomba della fine del VI secolo a.C. della necropoli di Numana di decorazioni in osso, avorio e ambra applicate ad un letto ligneo, appartenente ad una tipologia riscontrata in sepolture dell’ultimo quarto del VI secolo a.C. ad Atene e nella tomba di un principe celtico (detta del Grafenbühl) nella Germania sud-occidentale162. Il tema delle rotte seguite dalle navi greche per risalire l’Adriatico e dare vita a questo intenso flusso commerciale è molto dibattuto tra gli studiosi, i quali si sono divisi tra sostenitori dell’esistenza di una rotta occidentale che dal canale di Otranto risaliva la costa occidentale della penisola fino ai mercati veneti, e coloro che prediligono l’esistenza di una rotta orientale fino a Iader, da dove poi avveniva la traversata verso il Conero (Numana-Ancona?) per poi proseguire con navigazione di cabotaggio fino ai mercati veneti163. A prescindere comunque da queste considerazioni

      

161 SHEFTON 1992,pp.139-162;cfr.NASO 2001,pp.87-110.

162 NASO 2000,p.182.

sulle varie possibilità di penetrazione greca in Adriatico, resta ferma e validamente confermata dai rinvenimenti archeologici (soprattutto per l’uniformità di tipologie riscontrate negli ornamenti personali bronzei) l’ipotesi di numerosi e profondi contatti tra le popolazioni insediate su entrambe le sponde dell’Adriatico, tali da supporre, secondo Peroni, l’esistenza di una koinè culturale adriatica nel VI e V secolo a.C., della quale fa parte a pieno titolo anche il territorio marchigiano164.

Il lettore saprà perdonare la scelta di procedere nella nostra esposizione illustrando, seppur fugacemente, le straordinarie testimonianze restituiteci dal territorio, di carattere per lo più funerario, spesso attribuibili con difficoltà ai pochi siti documentati con certezza, ma di enorme importanza trattandosi di oggetti di gran pregio della cultura materiale picena e greca, rinvenuti in notevolissime località della penisola e dell’Europa centro-orientale, determinanti nella ricostruzione di un quadro organico e completo dei principali fenomeni sociali, economici e culturali della fine del VI-inizi del V secolo a.C. Se prendiamo in considerazione la prima metà del VI secolo a.C. nell’area meridionale delle Marche emergono per consistenza dei rinvenimenti i siti di Grottazzolina (AP) e Numana (AN).

Grottazzolina va situata nella valle fluviale del Tenna, dominata dall’insediamento di Belmonte Piceno, che però si trova a pochi chilometri, leggermente più a monte; il sito, non localizzato sul terreno e noto soltanto attraverso le testimonianze funerarie, restituì in varie campagne dal 1948 al 1953 una necropoli che conta circa ventisette deposizioni singole in fossa terragna con orientamento est-ovest, che prevedevano l’adagiamento del defunto sul fianco destro. L’analisi dei corredi restituisce un quadro piuttosto omogeneo, con vasi fittili, ornamenti personali metallici e armi in ferro prevalentemente da offesa, attribuiti ad officine corinzie, o, in alternativa ad officine magnogreche su imitazione di prototipi corinzi. In particolare A. Naso ritiene sostenibile quest’ipotesi in base al fatto che l’importazione di lamine metalliche decorate dalla Grecia in ambiente medio-adriatico è già documentata in provincia di Chieti, nel sito di Gissi, che ha restituito una lamina argentea con decorazione figurata entro metope prodotta nel Peloponneso nella prima metà del VI secolo a.C165.

La documentazione di questa necropoli va tutta compresa tra inizio e prima metà del VI secolo a.C. non comprendendo reperti che vanno oltre l’ultimo quarto del VI a.C.:

      

164 PERONI 1976, pp. 95-115.

particolarmente evidente l’assenza di ceramica attica. La sua fine potrebbe essere dovuta alla forte espansione del vicino centro di Belmonte alla fine del VI secolo a.C., che registrerà una crescita costante per tutta la metà del V secolo a.C. soprattutto verso la porzione di territorio che la divideva dal mare (investendo Grottazzolina in primis), e di conseguenza dagli scali costieri, punti nodali del commercio con l’oriente. Con la seconda metà del VI secolo a.C. e per tutto il V a.C. l’Adriatico si aprirà definitivamente ai sempre più massicci traffici greci, fenomeno che determinò l’ascesa o la fioritura ex novo dei principali scali costieri marchigiani, primo fra tutti quello di Numana, per la cui trattazione si rimanda al dossier del capitolo successivo.

Dall’esame della documentazione prevalentemente funeraria di questi siti emerge un altissimo livello di competenza artigianale raggiunto soprattutto nella bronzistica, tradizione già fiorente dall’età precedente nella cultura picena, che conosce nel VI secolo a.C. anche un ampio spettro distributivo nella penisola italica e al di fuori di essa, riflettendo i rapporti intrattenuti e la mobilità geografica delle genti picene. Come già ricordato più volte una funzione di grande rilievo è svolta dall’industria metallurgica delle armi, che presentano una straordinaria gamma di tipi e di fogge diverse non riscontrabile in nessun’altra regione dell’Italia antica, compresa l’Etruria, tanto da far supporre che queste continue variazioni del corredo bellico siano da riferire alla pratica diffusa del mercenariato. Ad esempio, la categoria degli elmi difensivi a calotta, sviluppata nel Piceno nel VII secolo a.C. dall’imitazione di originali etruschi, conosce nel VI a.C. la rielaborazione di tipologie di altri ambiti e l’introduzione di nuove, in particolare di tipo corinzio, prodotte autonomamente in diverse regioni della penisola italica con proprie caratteristiche tipologiche e rinvenuti nel Piceno a Numana, Pitino di San Severino, Belmonte Piceno, Cupra Marittima e Campovalano (Ascoli Piceno) (Fig.

21). In particolare va posto l’accento su una tipologia sviluppata dalla cultura picena

nella seconda metà del VI secolo a.C., molto probabilmente con l’apporto di maestranze etrusche: si tratta di un tipo di elmo a calotta denomianto “Negau” dal luogo di rinvenimento di un consistente numero di esemplari nell’attuale Slovenia166.

Si tratta in assoluto della tipologia di elmo più diffusa nell’Italia centro-settentrionale tra la seconda metà del VI e il V secolo a.C. inoltrato; il limite cronologico inferiore viene indicato dal ritrovamento nel santuario di Zeus ad Olimpia di due esemplari di produzione etrusca con iscrizioni greche dedicati (come decima del bottino) da Ierone di

      

Siracusa per la vittoria nella battaglia di Cuma sulla flotta etrusca nel 474 a.C. Da alcune varianti tipologiche è stato possibile agli studiosi attribuire i vari rinvenimenti di elmi di questa foggia a più di una zona di produzione, nell’Etruria ed in Romagna oltrechè nel Piceno, con significativi sbalzi cronologici che fanno scivolare la produzione di questo tipo fino ai primi del V secolo a.C..

La presenza di questi elmi in numero piuttosto consistente in Slovenia, e persino in Austria (un esemplare rinvenuto ad Asten) evidenzia la regolarità dei contatti tra il Piceno, la costa adriatica orientale e l’Europa centro-orientale, circuito di scambi attestato anche dalla diffusione di particolari fogge di altri caratteristici prodotti metallurgici, come morsi equini e fibule, che vengono replicati nella fascia a Est delle Alpi167. Per quanto riguarda poi le armi difensive adottate nei corredi bellici della zona medio adriatica emergono nel VI secolo a.C. schinieri e dischi-corazza riferibili a esemplari destinati alla parata piuttosto che all’uso bellico, come si desume da rappresentazioni figurate (vedi corazza a dischi proveniente da Rapagnano che riproduce uno scontro tra combattenti muniti anche di schinieri168). Meritano certamente di essere annoverate in questo excursus le due coppie di corazze a dischi con decorazione sbalzata dalla tomba del Duce di Belmonte Piceno, decorate entrambe sulle sommità dalla riproduzione della lotta tra Ercole e il leone Nemeo, databili nel secondo quarto del VI secolo a.C. e andate purtroppo distrutte nel bombardamento del Museo Archeologico di Ancona durante il secondo conflitto mondiale.

Anche il repertorio delle armi offensive viene in parte rinnovato: pur restando in uso lance e asce simili a quelle dell’età precedente, si afferma l’uso di una lunga spada in ferro con taglio ricurvo (sciabola) utilizzata con ogni probabilità da cavalieri montanti. A giudicare dalla distribuzione geografica sarebbe sostenibile l’ipotesi di un’origine balcanica dell’arma, nella regione tra Albania e Grecia settentrionale, dove venivano utilizzate numerose tipologie di spade da taglio fin dall’VIII secolo a.C.. In Italia centrale furono proprio gli artigiani piceni, o in alternativa etruschi, a rielaborare questo tipo, sviluppandone la lunghezza, forse per adattarla alle tecniche di combattimento della cavalleria. Di notevole interesse ai fini del nostro discorso è la distribuzione degli esemplari di tale foggia, che sono stati rinvenuti in Corsica e nella penisola iberica, probabilmente tramite mercenari, mentre in Italia il numero maggiore proviene dal

      

167 DE MARINIS 1973, pp. 77-86.

Piceno; altri rinvenimenti isolati provengono dalla Romagna, dall’Etruria, dall’Umbria, dal Lazio, dalla Campania, dalla Basilicata e dalla Sicilia dove l’arma, decorata anche con incrostazioni in ambra, si trova in sepolture di rango particolarmente elevato, seganalando la presenza di personaggi piceni o di contatti con personaggi di tale origine. Come già ricordato, le officine picene sono prolifiche anche in altri produzioni metallurgiche, come le bardature equine, che attestano l’uso di fogge assai differenti di morsi. La tipologia più attestata in area medio-adriatica è quella dei morsi ad arco (duplice o semplice), che diverrà nel corso del VI secolo a.C. la forma caratteristica dell’Italia centrale, e, considerando i siti di provenienza (fino al Tirolo e alla Slovenia), si può facilmente ipotizzare che nel quadro dei circuiti di scambio attivi nell’Adriatico questa forma sia stata trasmessa dal Piceno alle regioni settentrionali169. Un simbolo della produzione metallurgica picena e del suo ampio spettro distributivo nel corso del VI secolo a.C. è la fibula bronzea a staffa lunga ed arco semplice detta “di Grottazzolina” che diverrà comune nelle regioni appartenenti alla koinè adriatica. Se si considera l’ampio numero degli esemplari e le varianti locali, l’area distributiva principale resta il Piceno e la sponda orientale dell’Adriatico, la Slovenia soprattutto, ribadendo quella degli elmi di tipo “Negau”, e confermando quindi l’esistenza di un circuito di scambio consolidato e consistente. Nello stesso lasso temporale conosce un’ampia diffusione anche la fibula bronzea detta di “San Ginesio”, caratterizzata da un arco piatto di forma ovale e staffa lunga con terminazione a tre cuspidi, rinvenuta non solo nelle Marche e zone limitrofe, ma anche nell’alto Adriatico e nelle località tirreniche e ioniche170. Il forte legame che nel VI secolo a.C. unisce il medio Adriatico con l’altro versante della penisola italica è attestato anche dalla distribuzione del vasellame bronzeo da tavola di destinazione simposiaca. In particolare va segnalata la presenza in territorio marchigiano e abruzzese settentrionale dell’oinochoe rodia, prodotta in Etruria già dagli anni finali del VII secolo a.C., che sarebbe, secondo Shefton, all’origine delle imitazioni locali databili alla prima metà del VI secolo a.C.171. Ad ulteriore conferma dei contatti col versante medio-tirrenico abbiamo i bacili bronzei ad orlo perlato rinvenuti in numero assai consistente in area medio-adriatica con un tipo (Imola-Hundersingen) collocato dalla seconda metà del VI al secondo quarto del V

      

169 Cfr. NASO 2000, pp. 192-194.

170 NASO 2000, p. 195.

secolo a.C.. La presenza consistente di questa tipologia in territorio marchigiano indica certamente la funzione produttiva del Piceno, ma anche il suo ruolo attivo nella ridistribuzione di tali manufatti che giungono fin nel Nord delle Alpi con una certa regolarità, verosimilmente attraverso itinerari commerciali organizzati e ormai consolidati da anni.

Siamo in una fase, la metà del VI secolo a.C., in cui il volume dei traffici di matrice greca in Adriatico supera quello del Tirreno. Altri prodotti caratteristici della produzione artigianale picena di VI secolo a.C. che presentano sempre un ampio spettro distributivo sono le idrie con anse in bronzo fuso di grande pregio, le oinochoai in lamina bronzea, e soprattutto un importante nucleo di avori intagliati e ambre di provenienza per lo più funeraria. Il nucleo di avori intagliati più consistente della prima metà del VI secolo a.C. in territorio marchigiano proviene da Pianello di Castelbellino di Iesi, nella media valle dell’Esino, necropoli che ha restituito anche intagli in osso, e scarabei in faïence, di cui uno addirittura reca un cartiglio col nome di un faraone, con ogni probabilità Psammetico I, oppure Apries, che regnarono tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.. Questa necropoli ha restituito pezzi di enorme importanza e grande prestigio tra i quali spiccano alcuni gruppi, in particolare quelli a tutto tondo che rappresentano un centauro ed un cavaliere, e che mostrano nel rendimento stilistico una netta impronta orientale, da far risalire alle scuole della Siria settentrionale. Oltre che da Castelbellino un nucleo consistente di reperti in avorio proviene da Belmonte Piceno, dove troviamo anche importanti opere di intaglio sull’ambra. Anche in età arcaica, infatti, come nella fase orientalizzante, l’intaglio dell’avorio è strettamente connesso a quello dell’ambra, sia mediante oggetti formati dalla combinazione dei due materiali, che attraverso l’associazione di ornamenti negli stessi corredi tombali, come dimostra la tomba 72 di Belmonte Piceno, dove troviamo due famosi intagli in ambra di stile ionico raffiguranti due teste di leone appaiate e un leone mentre sbrana la preda, che ornavano l’arco di due fibule. Questi pezzi rivelano influssi stilistici esterni alla penisola italica, da ricollegare all’ambito greco-orientale. Il fatto che ci troviamo in pieno VI secolo a.C., con l’apertura totale dell’Adriatico ai traffici greci, annulla l’ipotesi di una mediazione etrusca nella produzione e diffusione di questi beni di lusso, lasciando credere che artigiani greco-orientali fossero presenti stabilmente in qualche centro costiero piceno, come Numana o Cupra Marittima. L’ipotesi è sostanziata dalle strette connessioni tra queste produzioni e le fogge

(soprattutto di fibule) tipicamente picene o dalla medesima pertinenza a fibule picene dei gruppi in ambra della stessa tomba, che lascia indiziare che l’esecuzione avveniva in

loco, anche se da parte di artigiani stranieri.

Volendo comporre un quadro sintetico dei dati riscontrati nell’esame di questi pezzi (sia gli avori, che i bronzi, che le ambre), si vedrà come nella prima metà del VI secolo a.C. e fino all’inizio del V a.C. la distribuzione nel Piceno di questi prodotti di lusso non fosse limitata ai siti costieri, ma interessasse anche località dell’entroterra, fino alla fascia appenninica172.

D’altronde la frequenza e la portata degli scambi tra scali costieri ed entroterra aumentano vertiginosamente tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., come ci viene suggerito dalla diffusione della ceramica attica, la cui presenza coincide con questo lasso cronologico.

Seppure il sito di Numana verrà trattato nel dossier del capitolo successivo, in questa fase del nostro discorso non possiamo fare a meno di soffermarci sull’importanza di questo scalo costiero per la storia del Piceno in età arcaica, avendo restituito esso una quantità di ceramica attica straordinaria, che la qualifica come il principale emporio del medio-adriatico, secondo soltanto a Spina e ad Adria. A conferma di questo abbiamo anche altri elementi, oltre alla ceramica attica, come la scoperta nella necropoli “I Pini” di un circolo monumentale del diametro di 40 m che racchiudeva 4 fosse allineate lungo il raggio del circolo, delle quali due destinate all’accoglienza dei corredi funerari veri e propri: questi ultimi comprendevano anche due carri smontati, oltre a duecento oggetti tra cui bronzi e ceramiche di importazione etrusca e greca di notevolissima fattura, databili entro la fine del VI secolo a.C.. Si tratta di oggetti di provenienza greco-orientale come la klìne già menzionata, contestualmente alla quale ricordiamo una

phiale in argento sbalzato rivestita di lamina aurea, che potrebbe essere un prodotto

dell’artigianato rodio. La presenza a Numana di lekythoi samie lascia intendere che la corrente commerciale proveniente dalla Ionia asiatica, già attiva in precedenza, acquisisce grande impulso sul finire del VI secolo a.C.. Per quanto riguarda la ceramica attica non è stato effettuato per la cittadina marchigiana uno studio sull’andamento generale delle importazioni nel tempo come è stato fatto per Spina e Adria o per altre città etrusche sul Tirreno, ma certamente è valido il confronto con i flussi transitanti attraverso l’emporio di Spina, sia per la vicinanza geografica che per l’inserimento nella

      

stessa rete commerciale: il flusso maggiore di importazioni attiche negli empori etruschi sul Tirreno si colloca tra il 500 e il 475 a.C., quando a Spina ancora abbiamo solo qualche sporadica presenza, mentre nel secolo successivo, ovvero tra 475 e 375 a.C., con la graduale decadenza dei porti tirrenici, Spina assume sempre maggior peso,

Nel documento Indice Introduzione (pagine 59-79)