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Jobs Act: Decreto Legge 20 marzo 2014, n 34, Legge Delega

1. Evoluzione normativa delle più importanti riforme riguardanti il

1.7 Jobs Act: Decreto Legge 20 marzo 2014, n 34, Legge Delega

Il Jobs Act, la terza riforma del lavoro in quattro anni, rappresenta il piano sul lavoro tramite cui il Governo Renzi ha tentato di cambiar verso al mercato del lavoro italiano. La riforma, come precedentemente accennato, si compone del Decreto Legge 20 marzo 2014, n. 34 noto come Decreto Poletti, dal nome dell'attuale Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, e delle Legge 10 dicembre 2014, n. 183, che rappresenta la legge delega che costituisce la parte principale del cosiddetto Jobs Act a cui fanno seguito i relativi decreti attuativi.

Il primo recante “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese” convertito con Legge

16 maggio 2014, n. 78 contiene quegli interventi che l'esecutivo ha ritenuto prioritari per il mercato del lavoro e utili, nel breve termine, per riattivare la fiducia di lavoratori e imprese (MASSAGLI E., 2014).

In sostanza, il suddetto decreto liberalizza e riforma nuovamente il contratto di lavoro a tempo determinato, ossia permette di stipulare contratti a termine di durata massima di 36 mesi, comprensiva di massimo cinque proroghe, senza obbligo di specificazione della causale (G.U. Serie Generale n.66 del 20-3-2014).

L'intento della normativa è stato quello di semplificare la disciplina del contratto a tempo determinato perché l'istituto è considerato sia l'unica tipologia contrattuale non toccata dagli effetti della crisi, sia la più utilizzata dalle poche imprese che oggi assumono (MASSAGLI E., 2014). Ma a circa otto mesi dopo l'approvazione del decreto, si rileva come le assunzioni tramite contratti a tempo determinato diminuiscono, più che l'aumento in sé delle cessazioni, soprattutto nel terzo trimestre 2014: si tratta di un tasso di crescita negativo del 7 per cento delle attivazioni di rapporto di lavoro a tempo determinato a dimostrazione del fatto che, seppur il decreto Poletti abbia fatto della suddetta tipologia l'oggetto principale del suo intervento, la disciplina non ha favorito un maggior interesse da parte delle imprese alle assunzioni a tempo determinato (MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, 2014b). Lo stesso si può affermare per i contratti di apprendistato che il decreto liberalizza eliminandone la causale: anche per questi il saldo è negativo se paragonato all'andamento positivo registratosi nel primo e secondo trimestre del 2014 (MINISTERODEL LAVOROEDELLE POLITICHE SOCIALI, 2014b).

Le aspettative di assunzione sono state presto smentite dai dati. I motivi delle cessazioni dei rapporti di lavoro sono ricondotti per un 64 per cento alla naturale scadenza del contratto, dunque al mancato rinnovo dei contratti a termine, il 14 per cento alle dimissioni dei lavoratori, durante il periodo di prova, di formazione, recessi, circa il 20 per cento è relativo a cessazioni per licenziamento, per giusta causa, individuale, collettivo, per giustificato motivo oggettivo e soggettivo, e la restante parte è da attribuire a motivazioni legate ad esempio ai decessi, alle risoluzioni consensuali, alle decadenze dal servizio (MINISTERO DEL LAVOROEDELLE

POLITICHE SOCIALI, 2014b).

Far ripartire le assunzioni ha rappresentato, dunque, uno dei punti intorno al quale è ruotata la discussione per l'elaborazione del Jobs Act, il secondo atto che segue, appunto, quello del decreto Poletti. Come le precedenti riforme del lavoro, anche questa, tutt'oggi in corso di attuazione, include in sé obiettivi di riordino e innovazione ben più ampi di quello relativo all'aspetto delle tipologie contrattuali qui esaminato. Rendere più flessibile il mercato del lavoro e favorire l'occupazione restano gli intenti anche di questo processo di riforma con cui la Legge n. 183/2014, il Jobs Act, ha conferito al Governo la delega a riformare il sistema degli ammortizzatori sociali, a provvedere ad un riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e ad intervenire nel campo delle politiche attive per il lavoro (COSTA P., 2015). All'interno dei principi e dei criteri direttivi determinati dal Parlamento, il Governo è stato chiamato a dare attuazione alla riforma del lavoro all'interno, sostanzialmente, di cinque ambiti di intervento (COSTA P., 2015):

• riordino delle forme di lavoro contrattuali esistenti, allo scopo di renderle maggiormente coerenti con le attuali esigenze occupazionali e produttive, e promozione del contratto a tempo indeterminato, al fine di renderlo più conveniente rispetto alle altre tipologie contrattuali in termini di oneri sia diretti che indiretti;

• razionalizzazione della disciplina degli ammortizzatori sociali, principalmente per rimodulare l'assicurazione sociale per l'impiego sia per renderla fruibile anche per i collaboratori coordinati e continuativi e sia per assicurare tutele uniformi, legate alla storia contributiva dei lavoratori, anche in caso di disoccupazione involontaria;

• riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, tramite la creazione di un'Agenzia nazionale per l'occupazione, e miglioramento delle sinergie tra i diversi operatori del terzo settore, dell'istruzione di tutti i livelli e soggetti dei servizi pubblici e privati;

• semplificazione delle procedure relative alla costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, anche tramite l'abrogazione delle norme preesistenti;

• tutela della genitorialità con la messa in campo di misure volte a favorire una maggiore flessibilità dei congedi per maternità, rendendoli fruibili anche per le lavoratrici madri parasubordinate, a integrare i servizi per l'infanzia e a sviluppare possibilità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori.

Di questi cinque ambiti su elencati ci occuperemo di approfondire il primo, ossia quello relativo al riordino delle tipologie contrattuali di lavoro esistenti.

Iniziamo con il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della Legge 10 dicembre 2014, n. 183” che ha dato attuazione alla Legge n. 183/2014. Tale decreto, all'art. 1, sancisce come “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisca la forma comune di rapporto di lavoro” (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015). Seguono le disposizioni relative al lavoro a tempo parziale, al lavoro intermittente, al lavoro a tempo determinato, alla somministrazione del lavoro, all'apprendistato e al lavoro accessorio.

Partiamo dal primo, ossia dal lavoro a tempo parziale. Le modifiche riguardano principalmente i limiti e le modalità con cui il datore di lavoro, in assenza di previsione nella contrattazione collettiva, può chiedere al lavoratore il lavoro supplementare, ossia quello prestato oltre le ore di lavoro previsto che viene applicato in particolar modo a questa tipologia contrattuale e non oltre il 25 per cento dell'orario settimanale; segue la disciplina circa la previsione d'inserire o meno clausole elastiche e flessibili per adeguare la prestazione del lavoratore alle esigenze dell'impresa; il lavoratore può rifiutarsi di svolgere lavoro supplementare senza rischiare il licenziamento se ci sono comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale; il lavoro straordinario non viene modificato; il part time non viene più suddiviso in orizzontale, verticale o misto ma semplicemente viene prevista l'indicazione, nel contratto, della durata della prestazione, della collocazione dell'orario in riferimento al giorno, alla settimana, al mese, all'anno; viene ribadita la non discriminazione del lavoratore a tempo parziale

e il diritto di prelazione nel trasformare a tempo pieno il rapporto di lavoro in caso di nuove assunzioni (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015).

La disciplina del lavoro intermittente resta, in concreto, la stessa prevista dal decreto attuativo della riforma Biagi: viene utilizzato per prestazioni lavorative a carattere discontinuo e intermittente, stipulato con soggetti con meno 24 anni di età e con più di 55 anni e il cui trattamento economico e normativo non risulti meno favorevole rispetto a un lavoratore di pari livello a parità di mansioni; le esigenze che giustificano il ricorso al lavoro intermittente sono individuate dai contratti collettivi o, in assenza, con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali; il datore di lavoro può avvalersi del lavoro intermittente di un medesimo lavoratore per massimo 400 giornate nell'arco di un triennio, superate le quali il rapporto si trasforma in uno a tempo pieno e indeterminato, fanno eccezione le attività appartenenti al settore del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo; l'istituto non investe il settore delle pubbliche amministrazioni (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015).

Per il contratto a tempo determinato, invece, il decreto stabilisce che la sua durata non può essere superiore a tre anni, ad eccezione delle attività stagionali o di diverse disposizioni previste nella contrattazione collettiva; è possibile prorogarlo per non più di cinque volte e ogni impresa non può avere più del 20 per cento di lavoratori a tempo determinato, fatta eccezione per l'avvio di nuove attività e per lavori, ad esempio, come quelli stagionali o dello spettacolo; la violazione dei limiti stabiliti dal decreto non prevede la conversione del contratto a tempo indeterminato, ma una sanzione economica per l'impresa; si stabilisce la parità di trattamento economico e normativo del lavoratore a quello del dipendente a tempo indeterminato (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015).

Modifiche ai limiti quantitativi per l'assunzione coinvolgono anche il contratto di somministrazione, che non può superare il 20 per cento del personale assunto a tempo indeterminato e poi la disciplina, salvo piccoli accorgimenti, resta pressappoco la stessa prevista dalla precedente normativa. Lo stesso si può dire per il lavoro accessorio. Le modifiche per quest'ultimo ad esempio riguardano l'innalzamento del

limite dei compensi, che per la totalità dei committenti, passa a 7.000 euro retribuiti attraverso i cosiddetti voucher, ma in sostanza l'istituto non cambia. L'apprendistato, invece, viene in parte ridefinito dagli artt. 41-47. Resta invariata la tipologia più comune, ossia quella che la norma chiama apprendistato professionalizzante, mentre vengono modificati l'apprendistato per la qualifica e il diploma, nel nuovo decreto denominato “apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore” e l'apprendistato di alta formazione e ricerca. Il comma 3 dell'art. 41 dichiara come queste ultime due tipologie integrano organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro con riferimento ai titoli di istruzione e formazione e alle qualifiche professionali: l'apprendistato per la qualifica e il diploma integra il livello secondario di istruzione e formazione e l'apprendistato di alta formazione e ricerca integra il livello terziario (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015). Una novità del decreto legislativo n. 81/2015 riguarda il contratto a progetto, restando in vigore solamente quei contratti stipulati in data precedente all'entrata in vigore della suddetta legge. Tale contratto, infatti, viene superato. La normativa fa riferimento alle “collaborazioni organizzate dal committente” in relazione ai conosciuti co.co.co., i quali si vedranno stabilizzati nel senso che verranno formalmente trasformati in contratti di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015).

Le collaborazioni organizzate dal committente, invece, sono definite come collaborazioni etero-organizzate, subordinate e coordinate che delegano al committente la decisione sulle modalità, sui tempi e sui luoghi di esecuzione della prestazione di lavoro (MEZZACAPO D., 2015). Si tratta di prestazioni di lavoro esclusivamente personali a cui si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato; in aggiunta, il decreto indica alcuni ambiti derogatori su cui tali vincoli non si applicano e si tratta di collaborazioni, ad esempio, come quelle relative a professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione presso albi professionali oppure per prestazioni svolte da associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate a federazioni sportive nazionali; la normativa non si applica nell'ambito delle

pubbliche amministrazioni (G.U. Serie Generale n.144 del 24-6-2015). Dunque, i cosiddetti contratti atipici, come il co.co.co. ma anche la partita IVA, rientreranno a tutti gli effetti nella configurazione dei rapporti di lavoro subordinati e le imprese potranno, quindi, assumere con contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti” tutti i dipendenti oggi impiegati con contratti a progetto. In seguito al Jobs act scompare il lavoro ripartito o job sharing. All'interno di questo stesso decreto attuativo viene, infine, dettata una nuova disciplina sulle mansioni: in concreto si tratta della possibilità di assegnare il lavoratore a qualunque mansione in caso di modifica degli assetti aziendali organizzativi, purché rientrante nella stessa categoria di inquadramento, legale e senza modificare il suo trattamento economico; dunque, il lavoratore potrà essere spostato verso mansioni non più solo equivalenti o superiori come sancito all'interno del nostro codice civile, ma anche verso mansioni inferiori (CONFIAL, 2014). Si parla del cosiddetto demansionamento, i cui effetti e il cui ambito di interesse esula dal nostro oggetto di analisi. Così come ne esulano i restanti, e non ultimi, decreti attuativi relativi alla disciplina delle conciliazioni delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, quello sul riordino della normativa in tema di ammortizzatori sociali, quello sui congedi parentali e non solo, tutti intrinsecamente necessari comunque per completare l'implementazione di una riforma del lavoro che si possa definire integrata e compiuta rispetto a tutti gli interessi e i diritti coinvolti. In conclusione, merita riallacciarsi brevemente al su citato contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Questo è stato introdotto con il decreto legislativo del 4 marzo 2015, n. 23 recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” che ha intaccato, con le sue norme, la disciplina sui licenziamenti sia economici che disciplinari, sia individuali che collettivi, secondo la matrice per cui una maggiore flessibilità in uscita dal mercato del lavoro porta a sviluppare nuove assunzioni e investimenti (RIVERSO R., 2015). Il Jobs Act si propone di favorire l'instaurazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, non solo rendendoli più convenienti rispetto ad altre tipologie contrattuali mediante sgravi contributivi a favore dei neo assunti e maggiorazioni contributive per i contratti a termine e per i lavoratori parasubordinati, ma soprattutto

attraverso una disciplina più flessibile dei licenziamenti (COSTA P., 2015). Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti non rappresenta una nuova tipologia contrattuale ma è un contratto di lavoro normale a cui si applica una disciplina sul licenziamento più attenuata. Non esamineremo qui nel dettaglio e nel merito la nuova disciplina, ma ci soffermeremo a menzionarne l'aspetto concettuale e come questo incide nella sfera dei diritti del lavoratore. La nuova disciplina sui licenziamenti, innanzitutto, si applicherà soltanto ai lavoratori, del settore privato, assunti dopo l'entrata in vigore della legge e alle trasformazioni di rapporti a tempo determinato o di apprendistato in rapporti a tempo determinato; non ricomprendendo i lavoratori a tempo indeterminato già impiegati, ne conseguenza che, col sussistere di due discipline perduranti nel tempo, a fronte di uno stesso tipo di licenziamento si vedranno applicate tutele sostanziali diverse e distinti modelli processuali (RIVERSO R., 2015).

Si fa riferimento ad una disciplina attenuata perché, il decreto, sostituisce la disciplina prevista dall'art. 18 della Legge n. 300/1970, ossia lo Statuto dei Lavoratori. Quest'ultimo prevedeva, in caso di licenziamento illegittimo – effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio – il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro con la previsione del pagamento di un risarcimento e indennità. Il Jobs Act esclude la prospettiva del reintegro nel posto di lavoro e prevede, in caso di licenziamento senza giustificato motivo oggettivo, solamente il pagamento, al lavoratore, di un indennizzo pari all'anzianità di servizio raggiunta all'interno dell'impresa, sottraendo così i casi alla discrezionalità del giudice.

Il reintegro nel posto del lavoro resta per tutti i lavoratori nei casi discriminatori e nulli intimati in forma orale e per i licenziamenti disciplinari in cui sia stata accertata “l'insussistenza del fatto materiale contestato rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” e il cui onere della prova si sposta a carico del lavoratore (CONSIGLIO DEI MINISTRI, 2015b). Questo è ciò che enuncia il comma 2 dell'art. 3 del decreto, che preclude al giudice la possibilità di accordare la tutela reintegratoria in caso di mancanza di proporzionalità del licenziamento; la norma ha suscitato fin da subito dubbi interpretativi e perplessità

all'interno del dibattito giuridico così come di difficile interpretazione è l'inserimento della possibilità, prevista a favore del datore di lavoro, di licenziare un lavoratore per motivi economici legati all'impresa. Cosa s'intende per fatto materiale? Come viene valutata la proporzionalità? Cosa rientra o meno nell'ambito della motivazione economica? Non indagheremo qui le considerazioni, giuridiche e non, che arricchiscono il dibattito sul tema. Uno spunto di riflessione è possibile, ad ogni modo, approfondirlo in altra sede (RIVERSO R., 2015). In definitiva, per evitare di andare in giudizio, si prevede la possibilità di far ricorso alla nuova conciliazione facoltativa incentivata: il datore di lavoro offre una somma esente da imposizione fiscale e contributiva pari ad un mese per ogni anno di servizio, non inferiore a due e sino ad un massimo di diciotto mensilità, la cui accettazione da parte del lavoratore costituisce motivo di rinuncia alla causa (CONSIGLIODEI MINISTRI, 2015b).

In definitiva, per concludere in maniera analitica l'approfondimento circa le principali tipologie contrattuali esistenti a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015, attuativo del Jobs Act, precisiamo che restano stipulabili i contratti di lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato, sono aboliti il contratto ripartito o di job sharing che quello di collaborazione coordinata e continuativa a progetto e restano in vigore quelli riportati nella Tabella 3.

Tab. 3 – Tipologie contrattuali esistenti a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015, attuativo del Jobs Act

Contratto Caratteristiche

1 Il lavoro part-time Le modifiche del d.lgs n. 81/2015 riguardano principalmente i limiti e le modalità con cui il datore di lavoro, in assenza di previsione nella contrattazione collettiva, può chiedere al lavoratore il lavoro supplementare, ossia quello prestato oltre le ore di lavoro previsto. Esso potrà essere richiesto fino al 25 per cento dell'orario settimanale e comporterà una retribuzione maggiorata del 15 per cento. Con le dovute previsioni normative a tutela del lavoratore, le clausole elastiche e flessibili potranno essere inserite nel contratto anche se non previsti dalla contrattazione collettiva. Il lavoratore può rifiutarsi di svolgere lavoro supplementare per l'esistenza di comprovate esigenze. Il part-time non viene più suddiviso in orizzontale, verticale o misto ma viene previsto all'interno del contratto la durata della prestazione e la sua collocazione temporale. In caso di nuove assunzioni il lavoratore assunto con questa tipologia contrattuale esercita il suo diritto di prelazione nel trasformare a tempo pieno il rapporto di lavoro.

2 Il lavoro intermittente La disciplina di questo istituto resta la stessa prevista dal decreto attuativo della riforma Biagi: viene utilizzato per prestazioni lavorative a carattere discontinuo e intermittente, stipulato con soggetti con meno di 24 anni di età e con più di 55 anni e il cui trattamento economico e normativo non risulti meno favorevole rispetto a un lavoratore di pari livello a parità di mansioni.

3 Il contratto di

somministrazione Anche la disciplina di questo istituto resta pressoché la stessaprevista dalla normativa precedente, salvo piccoli accorgimenti e la modifica al limite quantitativo per l'assunzione che non può superare il 20% del personale assunto a tempo indeterminato. 4 Il lavoro accessorio L'istituto non subisce sostanziali modifiche. La tipologia non

cambia; ciò che viene rivisto è il limite dei compensi che passa a 7.000 euro per la totalità dei committenti e il cui metodo di pagamento deve avvenire tramite il sistema dei voucher.

5 Il contratto di apprendistato Resta invariata la tipologia più comune, ossia il contratto di apprendistato professionalizzante, mentre vengono modificati l'apprendistato per la qualifica e il diploma e l'apprendistato di alta formazione e ricerca. Il primo rinominato “apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato specializzazione tecnica superiore” integra, organicamente, insieme al secondo, in un sistema duale, formazione e lavoro con riferimento ai titoli di istruzione e formazione e alle qualifiche professionali. L'apprendistato per la qualifica e il diploma integra il livello secondario di istruzione e formazione e l'apprendistato di alta formazione e ricerca integra il livello terziario.

6 Il contratto a progetto Restano in vigore solamente quelli stipulati in data precedente all'entrata in vigore della suddetta legge. Tale contratto, infatti, viene superato e la normativa fa riferimento alle “collaborazioni organizzate dal committente” in relazione ai conosciuti co.co.co., i quali si vedranno stabilizzati.

7 Le collaborazioni

organizzate dal committente Si tratta di collaborazioni etero-organizzate, subordinate ecoordinate che delegano al committente la decisione sulle modalità, sui tempi e sui luoghi di esecuzione della prestazione di lavoro. Le prestazioni di lavoro hanno carattere esclusivamente personale a cui si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Il decreto indica alcuni ambiti in cui tali vincoli non si applicano e si tratta di collaborazioni come, ad esempio, quelle relative a professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione presso albi professionali, ecc. La normativa non si applica nell'ambito delle pubbliche amministrazioni.

Fonte: Elaborazione su Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (G.U. Serie Generale n. 144 del 24-