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I dati statistici e amministrativi sul mercato del lavoro: metodi e analisi a confronto

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni

I dati statistici e amministrativi sul mercato del lavoro:

metodi e analisi a confronto

Candidata Relatrice

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“La politica insegna come gli stati devono essere; la statistica descrive come essi sono realmente. […] Noi dobbiamo avere riguardo alla ragione delle cose, perché occorre che la politica storica (la statistica, cioè) esponga anche le cause di ciò che è notevole in uno stato, altrimenti non conosceremmo lo stato, ma soltanto lo vedremmo”.

Si esprimeva così Goffredo Achenwall nella seconda metà del 1700. Si deve a lui la denominazione “statistica” come descrizione delle cose attinenti allo stato attraverso i dati.

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Indice

Introduzione...1

1. Evoluzione normativa delle più importanti riforme riguardanti il mercato del lavoro: la disciplina delle tipologie contrattuali 1.1 Genesi del contratto di lavoro subordinato e primi riferimenti legislativi: dal rapporto di servitù alla nascita della Costituzione italiana...5

1.2 Segue: dalla Costituzione agli interventi legislativi di fine anni '90...12

1.3 La flessibilità...19

1.4 Il Pacchetto Treu: Legge 24 giugno 1997, n. 197...23

1.5 La riforma Biagi: Legge 14 febbraio 2003, n. 30...29

1.6 La riforma Fornero: Legge 28 giugno 2012, n. 92...40

1.7 Jobs Act: Decreto Legge 20 marzo 2014, n. 34, Legge Delega 10 dicembre 2014, n. 183 e relativi decreti attuativi...53

2. Le fonti statistiche e le fonti amministrative. Metodi a confronto 2.1 Introduzione...64

2.2 Le fonti dei dati: fonti statistiche e fonti amministrative...66

2.3 Le indagini statistiche sul mercato del lavoro basate su fonti dirette: i censimenti e la rilevazione campionaria sulle forze di lavoro...71

2.3.1 La Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro: contenuti e metodi ...75

2.3.2 Le rilevazioni Istat sulle tipologie contrattuali...84

2.4 Il sistema amministrativo di raccolta e di analisi dei dati sulle tipologie contrattuali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali...94

2.5 La fonte dei dati Inps, l'archivio amministrativo Uniemens e gli Osservatori statistici...102

3. Analisi di dati di fonte statistica e amministrativa: tra diversità e integrazione 3.1 Introduzione alle analisi dei dati...116

3.1.1 I dati della Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro...116

3.1.2 I dati delle Comunicazioni Obbligatorie...130

3.2 L'analisi di dati a fonti integrate...138

Conclusioni...144

Appendice...147

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Indice delle figure

Fig. 1 Lavori interinali: dati originari e serie destagionalizzata (valori

assoluti)...26

Fig. 2 Il processo di trasformazione del dato amministrativo in dato statistico...99

Indice delle tabelle Tab. 1 Classificazione dei Rapporti Atipici (a)...32

Tab. 2 Classificazione delle principali tipologie contrattuali vigenti con l'attuazione della Legge 28 giugno 2012, n. 92 – Riforma Fornero...49

Tab. 3 Tipologie contrattuali esistenti a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015, attuativo del Jobs Act...61

Tab. 4 Tipologie contrattuali rilevate in Asia-occupazione...94

Tab. 5 Le differenti caratteristiche metodologiche delle fonti dei dati. . .111

Tab. 6 Numero di lavoratori e numero medio di voucher riscossi per anno di attività e genere (2008-2016)...137

Tab. 7 Comparazione delle tendenze a fonti separate...141

Tab. 8 Comparazione delle tendenze a fonti integrate...142

Indice dei grafici Grafico 1 – Occupati (da 15 anni e oltre) distinti per genere – 2004/2016 ...117

Grafico 2 – Occupati maschi. Andamento medio trimestrale...118

Grafico 3 – Occupati femmine. Andamento medio trimestrale...118

Grafico 4 – Occupati Totali 15 anni e oltre...119

Grafico 5 – Variazioni Congiunturali a confronto...119

Grafico 6 – Variazioni Tendenziali a confronto...119

Grafico 7 – Variazioni Totali Annuali su Occupati 15 anni e oltre...120

Grafico 8 – Occupati 15/24 anni...120

Grafico 9 – Occupati 15/24 anni. Andamento medio trimestrale...121

Grafico 10 – Variazioni Tendenziali Occupati 15/24 anni...121

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Grafico 13 – Occupati in Agricoltura...123

Grafico 14 – Occupati nell'Industria...123

Grafico 15 – Occupati nelle Costruzioni...123

Grafico 16 – Occupati nei Servizi...123

Grafico 17 – Variazioni percentuali Annue dei Settori Ateco 2007 a confronto...124

Grafico 18 – Variazioni percentuali annue dei territori a confronto...125

Grafico 19 – Ore medie Totali e per Genere...126

Grafico 20 – Ore medie per Territorio...126

Grafico 21 – Variazioni percentuali annue delle posizioni professionali a confronto...127

Grafico 22 – Tasso di Occupazione Maschile e Femminile (2004-2016) ...128

Grafico 23 – Tasso di Disoccupazione Maschile e Femminile...129

Grafico 24 – Tasso di Occupazione...129

Grafico 25 – Tasso di Disoccupazione...129

Grafico 26 – Tasso di Inattività...130

Grafico 27 – Rapporti di Lavoro Maschi...131

Grafico 28 – Rapporti di Lavoro Femmine...131

Grafico 29 – Rapporti di Lavoro Maschi (Centro)...132

Grafico 30 – Rapporti di Lavoro Femmine (Centro)...132

Grafico 31 – Rapporti di Lavoro Maschi (Mezzogiorno)...132

Grafico 32 – Rapporti di Lavoro Femmine (Mezzogiorno)...132

Grafico 33 – Numero di Rapporti di Lavoro Totali dei settori. Maschi e Femmine a confronto (2009-2016)...133

Grafico 34 – Rapporti di Lavoro (Agricoltura)...134

Grafico 35 – Rapporti di Lavoro (Industria)...134

Grafico 36 – Rapporti di Lavoro (Costruzioni)...134

Grafico 37 – Rapporti di Lavoro (Servizi)...134

Grafico 38 – Numero Rapporti di Lavoro per il contratto a Tempo Indeterminato...135 Grafico 39 – Numero medio di voucher riscossi per anno di attività e

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Introduzione

Il presente lavoro ha come oggetto lo studio delle fonti statistiche e amministrative che arricchiscono il panorama conoscitivo delle dinamiche del mercato del lavoro. L'interesse si focalizza sulle modalità tramite cui avvengono le rilevazioni dei dati: per l'Istat, attraverso la principale indagine che realizza sul versante dell'offerta di lavoro, ossia la Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro; per il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali tramite il nuovo sistema delle Comunicazioni Obbligatorie, in vigore dal 1° marzo 2008.

L'obiettivo della ricerca è stato duplice. Da un lato, si è cercato di analizzare in modo approfondito le caratteristiche che contraddistinguono le indagini basate su fonti statistiche da quelle realizzate con l'utilizzo di fonti amministrative. Spesso, analizzando separatamente i dati provenienti da queste fonti si nota che, seppur su campi di osservazione analoghi, i risultati prodotti sono fra loro divergenti. Tali disparità si riflettono anche all'interno delle informazioni diffuse dai mass media e che caratterizzano il dibattito politico, in cui, di consueto, i dati enunciati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non trovano coincidenza con quelli trasmessi dall'Istat. Le ragioni di tale differenze si riconducono proprio alle diversità che metodologicamente caratterizzano l'uno o l'altro tipo di fonte.

Dall'altro lato, l'intento è stato quello di sviluppare un'analisi di dati basata sull'utilizzo integrato di queste fonti, attraverso un procedimento statistico nuovo. Rispetto alle variabili considerate nell'indagine, l'attenzione si è concentrata sulle diverse tipologie contrattuali che, nel corso del tempo, sono state inserite all'interno del mercato per regolare i rapporti di lavoro e, per derivarne in seguito, a livello più generale, un'analisi complessiva sulle tendenze dell'occupazione degli ultimi anni. Il primo capitolo di questo lavoro ha ricostruito l'evoluzione normativa delle più importanti riforme riguardanti il mercato del lavoro in relazione alla disciplina delle tipologie contrattuali. L'analisi è partita considerando la nascita del contratto di lavoro subordinato così come lo conosciamo noi oggi, si è sviluppata ricostruendo i primi riferimenti legislativi sul tema e si è conclusa, fino ad arrivare ai giorni nostri, analizzando le ultime riforme del mercato del lavoro. L'intento è stato quello di

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definire, dal punto di vista giuridico e soprattutto in riferimento alle riforme avutesi dalla fine degli anni Novanta in poi, le caratteristiche più rilevanti che caratterizzano le diverse tipologie contrattuali che man mano sono state introdotte, modificate, abrogate. Lo studio si è inserito nell'ottica della maggiore flessibilità richiesta all'interno del mercato del lavoro, elemento che ha profondamente ridefinito il quadro normativo, rinnovandolo.

A tal proposito si sono analizzate le riforme che hanno fatto della flessibilità il loro centro d'interesse: a partire dalla Legge 24 giugno 1997, n. 197, meglio conosciuta come Pacchetto Treu, alla Legge 14 febbraio 2003, n. 30, ossia alla Riforma Biagi, alla Legge 28 giugno 2012, n. 92, detta Riforma Fornero, fino ad arrivare all'ultimo intervento legislativo, la Legge Delega 10 dicembre 2014, n.183, nota come Jobs Act.

Il secondo capitolo confronta metodologicamente i dati provenienti da fonti statistiche e amministrative. Si è cominciato definendo, a livello concettuale, cosa si intende con tali locuzioni. In seguito, si sono analizzate, rispettivamente, le rilevazioni e le metodologie da esse utilizzate per le indagini sulle tipologie contrattuali. Nel dettaglio, in relazione alle indagini di fonte statistica, principalmente rispetto alla Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro si è proceduto a disaggregare le stime ufficiali prodotte sull'occupazione per capire le modalità tramite cui l'Istat ricava le proprie stime in merito alle tipologie contrattuali.

In aggiunta, nell'ambito delle produzioni statistiche, si sono considerate anche quelle derivanti dall'utilizzo di un sistema integrato di fonti. Ci riferiamo, in relazione alle indagini dal versante dell'offerta di lavoro, alle rilevazioni Oros – Occupazione, Retribuzioni e Oneri Sociali - mentre dal versante dell'analisi della domanda di lavoro ad Asia, ossia l'Archivio Statistico delle Imprese Attive, in particolare di Asia-Occupazione che fornisce informazioni sull'occupazione e sulla struttura delle imprese.

Dal punto di vista dei dati derivanti da fonti di tipo amministrativo si è analizzato il sistema delle Comunicazioni Obbligatorie e il relativo procedimento di trasformazione del dato amministrativo in dato statistico. L'insieme di queste

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informazioni confluiscono in Sisco, il Sistema Informativo Statistico delle Comunicazioni Obbligatorie, che raccoglie gli invii delle comunicazioni obbligatorie e le ricostruzioni dei rapporti di lavoro al fine di riprodurre analisi relative all'andamento occupazionale, alle carriere lavorative, alla durata dei rapporti di lavoro, ecc. Di fianco a questa principale fonte amministrativa se ne è analizzata un'altra parimenti importante: la fonte dei dati Inps, il relativo archivio Uniemens e gli Osservatori statistici di cui dispone per elaborare i dati raccolti. Gli Osservatori sono molteplici e si distinguono anche per tipologia lavorativa.

Nel terzo capitolo, da ultimo, si è cercato di tradurre l'analisi teorica in una dimostrazione pratica, utilizzando innumerevoli dati riferiti ad entrambe le principali fonti analizzate. Sia per la Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro che per le Comunicazioni Obbligatorie si sono raccolti dati relativi a campi di osservazione analoghi, per la medesima serie storica, e per ciascuna si sono elaborate rappresentazioni grafiche con relativi studi di tendenza, calcoli di variazioni percentuali, congiunturali e tendenziali. Si è cercato di delineare un quadro generale circa l'andamento occupazionale distinto per genere – maschile e femminile – per settore di attività economica – agricoltura, industria, costruzioni e servizi – per ripartizione geografica – Nord, Centro, Mezzogiorno – e per tipologia contrattuale/posizione professionale. Quest'ultima variabile ha risentito della mancanza di dati specifici, dettagliati nell'ambito statistico, imputata alla difficoltà oggettiva di reperire tale tipologia informativa.

Si è proceduto ad effettuare, in primo luogo, uno studio a fonti separate in cui si sono messi in evidenza i risultati, per lo più discordanti, delle analisi prodotte. In secondo luogo, si è proceduto ad effettuare uno studio comparato a fonti integrate. Quest'ultimo, si è potuto elaborare attraverso l'utilizzo di uno strumento istituzionalizzato a dicembre 2016 nella pubblicazione della prima nota congiunta sulle tendenze dell'occupazione prodotta dall'Istat, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dall'Inps e dall'Inail. Attraverso il procedimento metodologico dettato, riaddatato al caso specifico, si è potuto trasformare il dato amministrativo assimilandolo ad un dato statistico, sotto forma di pseudo-stock. L'utilizzo di un

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sistema integrato ha permesso di confrontare i risultati ottenuti mettendo in evidenza come lo strumento adotatto riesca a far comparare variabili al principio strutturalmente e concettualmente diversi. I risultati della comparazione concordano per ciascuno dei campi osservati e permette di trarre dall'analisi condotta una valutazione coerente sulle tendenze dell'occupazione.

Questo avvalora l'importanza del percorso intrapreso rafforzando la prospettiva delineata. L'adozione di un sistema integrato di fonti rappresenta una tecnica di considerevole rilevanza che arricchisce il panorama delle metodologie utilizzate per elaborare le indagini sulle dinamiche del mercato del lavoro, da migliorare, approfondire, rafforzare e diffondere.

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1. Evoluzione normativa delle più importanti riforme riguardanti il mercato del lavoro: la disciplina delle tipologie contrattuali

1.1. Genesi del contratto di lavoro subordinato e primi riferimenti legislativi: dal rapporto di servitù alla nascita della Costituzione italiana

Il diritto del lavoro è quel ramo della disciplina giuridica che contiene l'insieme dei diritti e dei doveri dei lavoratori e dei datori di lavoro. All'interno di questa disciplina diverse sono le normative che nel corso del tempo sono state poste in essere al fine di dettare quei principi e quelle regole che potessero al meglio guidare le relazioni instauratesi tra il lavoratore e il datore di lavoro.

Le sue origini risalgono alla nascita della civiltà industriale (MAZZOTTA O., 2013), ossia con la nascita e la diffusione del cosiddetto processo d'industrializzazione, che ebbe la sua origine in Gran Bretagna e che in seguito, durante il XIX secolo, investì profondamente la storia economica e culturale dei Paesi moderni. È proprio il passaggio da un'economia agricola, la cui produzione fu sostanzialmente di tipo artigianale e di modeste quantità, ad un'economia di tipo industriale e di massa che segna l'ingresso concettuale ed effettivamente reale nella vita lavorativa delle persone del lavoro subordinato. In particolare, è durante questo processo di transizione che, secondo i più autorevoli autori dello studio del capitalismo, uno fra tutti Sombart (MAZZOTTA O., 2013), il primo modello di contratto di lavoro subordinato e retribuito prende forma. Esso affonda le sue radici nei modelli del rapporto di servitù e del rapporto di Verlag (SOMBART W., 1967).

Dal primo, antichissimo, si derivano elementi quali la durata del rapporto di lavoro, le forme remunerative, naturali ed in denaro che vengono corrisposte in base allo stato di bisogno e necessità del lavoratore sottoposto. Quando si svilupperà la concezione della prestazione d'opera e/o di servizio, la parte di fabbisogno che non verrà soddisfatta in natura, verrà corrisposta in denaro. Il tutto avrà sempre il carattere della sussistenza e vedrà il lavoratore impegnato per un determinato periodo di tempo più o meno lungo a seconda delle esigenze del suo padrone. Il transito da questo tipo di contratto di sussistenza al moderno contratto di lavoro avviene quasi

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impercettibilmente (SOMBART W., 1967) e la svolta si registra col diffondersi dell'idea che il lavoratore debba esser retribuito a seconda di ciò che produce, ciò che rende, anziché in relazione al suo stato di bisogno e necessità.

Si parla, dunque, di contratto e salario a cottimo da cui deriva il secondo rapporto su citato: il rapporto di Verlag (SOMBART W., 1967). Con esso si regola un rapporto quale quello fra un artigiano, richiedente di un finanziamento che ne garantisce la solvibilità tramite la partecipazione agli utili della sua bottega, ed un mercante, fornitore del mutuo, che ha il compito di acquisire e smerciare i prodotti dell'artigiano. In seguito, quando il mercante comincerà ad affidare a più attività artigianali le diverse fasi di produzione, prenderanno vita le prime forme di decentramento produttivo e meglio si articolerà un sistema industriale, di serie, che vedrà il lavoratore alle dipendenze di un unico soggetto: l'imprenditore.

Siamo agli albori dello sviluppo del capitalismo, processo articolatissimo che non staremo qui ad esaminare, ma il cui richiamo risulta essenziale per comprendere le prime mosse da cui deriva il contratto di lavoro così come lo conosciamo noi oggi. Il rapporto di Verlag, utilizzato in combinazione anche col contratto di cottimo, investiva svariati settori, da quello minerario a quello metallurgico, da quello dell'industria tessile e del vetro a quello delle fabbriche dei fucili (SOMBART W., 1967). Il lavoratore che rappresenta il soggetto debole all'interno di una relazione con il datore di lavoro, che alle origini figurava come un padrone e un'autorità, in questa fase storica non possiede nessun tipo di tutela: nessun vincolo o istituto di natura giuridica appare nel diritto del lavoro che possa in qualche modo regolare i rapporti contrattuali.

Un primo testo normativo si avrà nel 1865, a seguito dell'Unità d'Italia: il codice civile italiano. Di derivazione napoleonica, esso, tenta di sistematizzare le normative esistenti nei vecchi stati pre – unitari, ma tralascia completamente la disciplina del lavoro, limitandosi a prevedere due insufficienti indicazioni (MAZZOTTA O., 2013).1

1 Si fa riferimento agli artt. 1627 e 1628 del c.c. Il primo definisce «tre principali specie di

locazione di opere e d'industria: a) quella per cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio; b) quelle de' vetturini sì per terra come per acqua, che si incaricano del trasporto delle persone e delle cose; c) quella degli imprenditori di opere ad appalto o a cottimo». Il secondo, invece, definisce che «nessuno può obbligare la propria opera

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Il silenzio legislativo non poteva perdurare in un'epoca colpita da importanti trasformazioni economico e sociali, in cui il diffondersi del progresso tecnologico dato dall'industria e l'avanzare del capitalismo stavano modificando le strutture organizzative del lavoro e non solo. Ben presto, infatti, si fece avanti la cosiddetta questione sociale (MAZZOTTA O., 2013) in cui emersero in maniera sempre più pressante le rivendicazioni dei lavoratori, sottopagati, che cominciarono ad organizzarsi anche tramite strumenti di protesta come lo sciopero. Fu in questo contesto che il legislatore nazionale iniziò ad emanare alcuni provvedimenti nell'ottica di tutelare situazioni soggettive in cui il lavoratore si trovava oggettivamente svantaggiato rispetto al potere esercitato dal datore di lavoro.

Fra i primi provvedimenti legislativi a carattere sociale sono da annoverare la L. 11 febbraio 1886, n. 3657 e 19 giugno 1902, n. 242 in materia di “Tutela delle donne e dei fanciulli”, la L. 17 marzo 1898, n. 80 di “Istituzione dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro”, la L. 7 luglio 1907, n. 489 sul “Riposo settimanale e festivo” e diverse altre, anche discipline a carattere settoriale, che hanno rappresentato unitamente il fondamento delle normative, seppur minimali, di natura assistenziale e previdenziale nel nostro Paese (MAZZOTTA O., 2013).

Con l'avvento del regime fascista non si registra affatto una battuta d'arresto dal punto di vista degli interventi legislativi, anzi, al contrario, l'attenzione alla materia cresce. La politica sociale attuata nel fascismo, d'impronta totalitaria, aveva carattere protettivo allo scopo di creare consenso attorno al regime, visto che gli enti di assistenza finirono per favorire gli iscritti al partito unico, quello, appunto, fascista (DE BONI C., 2007).

Di relativo interesse, in questo periodo, vanno segnalati il Regio decreto n. 2214 del 1919 riguardante “l'Indennità ordinaria di disoccupazione” e la L. 15 marzo 1923, n. 692 in materia di “Regolazione dell'orario giornaliero e settimanale” (PROGETTO ALFIERI, 2007). In più va annoverato il r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella L. 18 marzo 1926, n. 562 sul “Rapporto di lavoro degli impiegati” che costituirà un modello per il codice civile del 1942 e altri provvedimenti che

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portarono a compimento altre importanti discipline in tema di lavoro. In particolare, si fa riferimento al r.d. 6 luglio 1933, n. 1033 che istituisce “l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali”, per gestire l'assicurazione obbligatoria; la L. 22 febbraio 1934, n. 370 sul “Riposo domenicale e settimanale”; la L. 10 gennaio 1935, n. 112 di “Istituzione del libretto di lavoro”; il r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 sul “Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza” con la creazione dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; ed infine la Carta del Lavoro del 1927 che rappresenta una raccolta di principi in materia di lavoro, significativa almeno dal punto di vista formale (MAZZOTTA O., 2013).

Siamo quasi al tramonto dell'epoca fascista quando viene approvato, con Regio decreto 16 marzo 1942, n. 262, il codice civile italiano. Esso, sostituendo il precedente codice del 1865, rappresenta il corpus di norme fondamentali in materia di lavoro, da cui deriva l'importante disciplina dei diversi tipi di contratto e non solo. Esso, composto in totale da sei libri, contiene, appunto, la disciplina dei contratti e del lavoro nel quarto e quinto libro rispettivamente.

È la nascita dello Stato di democrazia pluralista che segna la fine del regime totalitario e costituisce un momento di svolta nella configurazione sia degli assetti politici sia di quelli costituzionali del nostro Paese; è con l'affermazione dei partiti di massa, con la configurazione degli organi elettivi e con l'importante riconoscimento, insieme ai diritti di libertà già garantiti dallo Stato liberale, dei diritti sociali come strumenti di integrazione nello Stato dei gruppi sociali più svantaggiati, che si determinerà la conformazione di questa nuova forma di stato (BIN R., PITRUZZELLA G., 2006). Il momento è significativo per la storia italiana, in quanto siamo negli anni dell'allargamento del suffragio universale anche alle donne, nel 1946, e dell'entrata in vigore del testo sovrano del nostro ordinamento: la Costituzione.

Quest'ultima, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, fu approvata dell'Assemblea Costituente eletta con, appunto, il primo suffragio universale italiano, traghettando così il nostro Paese dal fascismo alla nuova Repubblica. La Costituzione repubblicana costituisce una svolta anche, e soprattutto, per il diritto del lavoro

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(MAZZOTTA O., 2013).

Meritano qui di essere richiamate le disposizioni principali in materia al fine di delineare il quadro dei principi, dei valori e degli istituti basilari entro il quale vengono inserite le normative dettate dal legislatore italiano per darne concretezza. La Costituzione è suddivisa in diverse parti e richiameremo qui di seguito solamente quei passaggi riferiti alla materia del lavoro.

Pertanto, iniziamo col menzionare la prima parte costituita da dodici articoli che rappresentano i “Principi fondamentali”, ossia l'insieme di alcune norme di principio, di premesse ideologiche e politiche che i costituenti hanno voluto trascrivere con la consapevolezza che i loro ideali sarebbero stati destinati a coesistere e bilanciarsi (BIN R., PITRUZZELLA G., 2006).

Il primo riferimento costituzionale va a uno dei principi cardine del nostro ordinamento; racchiuso nell'art. 1, comma 1, esso cita “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Segue, all'art. 3, il riferimento al principio di eguaglianza. Esso, presenta due diverse declinazioni:

• il principio di eguaglianza formale, di origine liberale, legata a specifici divieti di discriminazione;

• il principio di eguaglianza sostanziale.

Il primo è considerato tale perché è enunciato come una formula astratta predisposta per il legislatore e a cui è collegato il divieto di creare privilegi o discriminazioni ingiustificate (BIN R., PITRUZZELLA G., 2006). Di conseguenza, dovranno essere trattate in modo eguale situazioni eguali e in maniera diversa situazioni diverse. Esso, infatti, enuncia che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Col principio di eguaglianza sostanziale, invece, s'intende affidare al legislatore un ruolo attivo, caratteristico dello Stato Sociale, ossia un ruolo di intervento al fine di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona

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umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. In aggiunta, di significativo interesse, va richiamato l'art. 4 che riconosce il lavoro come un diritto e dovere fondamentale. Con esso si dichiara che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Importante segnalare come il riferimento al diritto del lavoro in questa norma non va interpretato come dispositivo volto a proteggere il diritto di scegliere, fra più occupazioni, quella più adatta alle attitudini individuali, ma la norma intende sottolineare l'impegno dello Stato a garantire tendenzialmente la piena occupazione attraverso i più adeguati strumenti di politica economica (MAZZOTTA O., 2013). Con quest'ultimo, sono conclusi i riferimenti costituzionali all'interno della prima parte dedicata ai “Principi fondamentali”.

Ne ritroviamo altri nel Titolo III denominato “Rapporti Economici”. In particolare, si fa riferimento all'art. 35 con cui si ribadisce l'impegno della Repubblica a “tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” curando “la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori”. Segue affermando che la Repubblica “promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero”. Successivamente, troviamo specifiche norme che dispongono sia di ulteriori componenti inalienabili di protezione sia di strumenti per la realizzazione dell'autotutela da parte dei lavoratori stessi, quali: l'art. 36 sulla giusta retribuzione e diritto al riposo; l'art. 37 sulla tutela e parità per donne e minori; l'art. 38 sulla garanzia previdenziale in relazione a bisogni di carattere primario, quali l'invalidità, la vecchiaia, ecc; l'art. 39 sulla libertà di organizzazione sindacale; l'art. 40 sul diritto di sciopero (MAZZOTTA O., 2013). In conclusione, va indicato l'art. 41 che sancisce la libertà di iniziativa economica. Questo rientra nella parte della cosiddetta Costituzione economica, ossia quella parte di Costituzione in cui vengono regolati i rapporti economici. La norma dispone un

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bilanciamento tra la libertà dell'iniziativa economica privata e l'utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Infatti la prima non può svolgersi in contrasto e in limitazione delle seconde. Per iniziativa economica privata s'intende qui sia l'attività imprenditoriale, che il lavoro subordinato e/o l'esercizio di una professione. Dunque, il diritto del lavoro può essere letto come chiave di svolgimento di tale principio e in cui l'intervento del legislatore nel campo è volto a dare concretezza agli interessi contrapposti il cui bilanciamento risulta necessario (MAZZOTTA O., 2013). È nel rispetto di questi principi e norme sovrani, inquadrate dalla Carta Costituzionale, che l'attività del legislatore si esplica, mettendo in pratica l'insieme degli interventi pubblici necessari per il raggiungimento degli obiettivi di tutela dell'interesse generale, collettivo. Le politiche del lavoro rappresentano proprio questo insieme di interventi che hanno come fine ultimo quello di tutelare l'interesse collettivo rispetto all'occupazione (PROGETTO ALFIERI, 2007).

Le politiche sul lavoro possono essere distinte in politiche attive e politiche passive. Con le prime s'intendono tutte le iniziative messe in campo dalle istituzioni, nazionali e locali, per promuovere l'occupazione e l'inserimento lavorativo tramite strumenti come la formazione, la riqualificazione, gli strumenti di orientamento, l'alternanza scuola lavoro, i tirocini e le work experiences (MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, 2015). Queste tipologie di interventi incidono direttamente sulla struttura del mercato del lavoro creando nuova occupazione e intervengono sulle possibili cause della disoccupazione.

Le politiche passive si traducono, invece, nell'erogazione di prestazioni di natura economica rivolte a coloro che sono disoccupati (PROGETTO ALFIERI, 2007).

In quanto segue dedicheremo la nostra attenzione alle politiche attive del lavoro. In particolare da qui in poi verranno riportati i più significativi provvedimenti legislativi in materia, che hanno caratterizzato la dinamica di tali politiche fino ad arrivare agli anni più recenti dove l'attenzione ricadrà sulle recenti riforme del lavoro, dando preminente interesse alle modifiche prodotte sulle diverse tipologie contrattuali analizzate prima dal punto di vista giuridico e successivamente maggiormente approfondite dal punto di vista della statistica ufficiale.

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1.2 Segue: dalla Costituzione agli interventi legislativi di fine anni '90

Preliminarmente va messa in evidenza la competenza sussidiaria e regolamentare in materia di politica attiva del lavoro che, secondo quanto previsto dalla ripartizione indicata all'interno del Titolo V della Costituzione, spetta alle Regioni e agli Enti Locali. Questi assumono in sé un ruolo operativo, di organizzazione ed espletamento delle funzioni di collocamento e di avviamento al lavoro; a integrazione, vengono affiancati da ulteriori enti quali, Agenzie per il lavoro, Università, Camere di Commercio, fondazioni bancarie e di consulenza al lavoro, ecc., che appositamente autorizzati dallo Stato e accreditati dalle Regioni, svolgono funzioni di supporto, intermediazione, formazione, orientamento all'interno del panorama dei servizi per l'occupazione (PROGETTO ALFIERI, 2007).

Dal punto di vista legislativo, invece, è lo Stato che detiene la competenza, predisponendo i mezzi per intervenire nel mercato del lavoro, promuovendo l'occupazione in ogni sua forma, cercando di prevenire attività speculative e tentando di garantire una distribuzione equa delle occasioni di lavoro (MAZZOTTA O., 2013). Ed è proprio da qui che riparte l'analisi, ripercorrendo storicamente, nei tratti più significativi per il nostro oggetto di interesse, la produzione normativa statale sul lavoro che ha segnato il nostro Paese a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione. Le principali discipline poste in essere dal legislatore nel quindicennio successivo sono per la maggior parte di stampo garantista e assistenziale, cioè sono finalizzate ad attribuire alla politica passiva del lavoro un ruolo preminente dando attenzione alle fasce più deboli della società e ai disoccupati. La politica del lavoro, dunque, prende forma con l'introduzione e l'applicazione di strumenti, ad esempio, volti a garantire una redditività a coloro che per motivi temporanei di difficoltà di mercato dell'azienda (calo della domanda) o ad altri eventi temporanei non imputabili a responsabilità del lavoratore e del datore di lavoro vedono diminuita la retribuzione. Ci riferiamo alla cosiddetta Cassa Integrazione Guadagni ordinaria introdotta con D.lgs n. 788/1945. Oppure facciamo menzione, a puro titolo esemplificativo e non esaustivo, a strumenti quali il sussidio straordinario di disoccupazione, l'indennità ordinaria di disoccupazione agricola, all'affidamento

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della competenza gestionale della materia del collocamento al lavoro al monopolio pubblico statale, all'introduzione della cassa integrazione guadagni straordinaria, al trattamento speciale di disoccupazione e a regolamentazioni volte a disciplinare l'istituto del licenziamento (PROGETTO ALFIERI, 2007). Per nostra utilità, invece, in questi anni merita attenzione la normativa che introduce nel nostro ordinamento uno speciale rapporto di lavoro: l'apprendistato. La sua origine risale alla fondamentale Legge 19 gennaio 1955, n. 25 che all'art. 2 cita: “L'apprendistato è uno speciale rapporto di lavoro, in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire o a far impartire nella sua impresa, all'apprendista assunto alle sue dipendenze, l'insegnamento necessario perché possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato, utilizzandone l'opera nell'impresa medesima” (G.U. Serie Generale n.36 del 14-02-1955). La formazione impartita dal datore di lavoro comprendeva sia veri e propri corsi di formazione, a livello teorico, sia una formazione pratica. Questo speciale rapporto di lavoro, già comunque previsto all'interno del codice civile del 1942, rappresenta uno strumento tramite il quale la politica attiva del lavoro cerca di combattere la disoccupazione, connettendo, in particolar modo, i giovani al mondo del lavoro. Per anni, l'apprendistato, ha rappresentato il canale di accesso privilegiato per entrare a far parte del mondo del lavoro, coniugando l'esperienza professionale e il momento formativo (PROGETTO ALFIERI, 2007). Infatti è definito come un contratto speciale a causa mista perché, per l'appunto, in esso convivono sia lo scambio lavoro/retribuzione sia lo scambio lavoro/istruzione formativa (MAZZOTTA O., 2013). Inizialmente l'apprendistato era previsto con durata per l'azienda non superiore a cinque anni applicabile per i giovani di età non inferiore a quindici anni e non superiore a venti, ma col tempo, già a partire dagli anni Sessanta, ha subito diverse modificazioni nella sua disciplina originaria allo scopo di attenuare gli abusi nel suo impiego che sfociavano in fruizione di manodopera a più basso costo, anziché come strumento volto a conferire formazione professionale (MAZZOTTA O., 2013). Più specificatamente con la Legge 2 aprile 1968, n. 424 vengono inseriti controlli a carattere preventivo, autorizzazione dell'ispettorato del lavoro, volti a reprimere gli utilizzi impropri di questo istituto (DI

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DOMENICO G., SCARLATO M., 2013). Un primo tentativo di riforma della suddetta disciplina si avviò con la Legge 24 giugno 1997, n. 196 – Legge Treu – che affidava al Governo il compito, poi disatteso (PROGETTO VESPRO, 2011), di attuare una disciplina organica del contratto di apprendistato e del contratto di formazione e lavoro “secondo criteri di valorizzazione dei contenuti formativi, con efficiente utilizzo delle risorse finanziarie vigenti, di ottimizzazione ai fini della creazioni di occasioni di impiego delle specifiche tipologie contrattuali, nonché di semplificazione, razionalizzazione e delegificazione, con abrogazione, ove occorra, delle norme vigenti” (CAMERADEI DEPUTATI, Legge n.196/1997 art.16, comma 5). In questa nuova disciplina il contratto di apprendistato era applicabile per i giovani di età non inferiore a sedici anni e non superiore a 24 e per una durata non inferiore a 18 mesi e non superiore ai 4 anni, riducendo di un anno la durata prevista rispetto alla disciplina precedente. Tale riforma, oltre a modificare i criteri e le modalità di assolvimento della formazione obbligatoria impartita dal datore di lavoro, ribadì il criterio di alternanza tra formazione pratica e formazione teorica, la quale, quest'ultima, esercitata fuori dall'impresa, doveva costituirsi di almeno 120 ore di lezione e a cui erano collegate le agevolazioni contributive: queste ultime erano condizionate alla partecipazione a questi corsi di formazione esterna (DI DOMENICO G., SCARLATO M., 2013). La normativa, però, non produsse gli effetti desiderati e la materia fu nuovamente oggetto di revisione negli anni a seguire e la cui analisi riprenderemo nei paragrafi successivi. Tuttavia, le criticità del sistema vanno ricercate a monte e riguardano la scarsità e l'inadeguatezza dei corsi proposti che hanno permesso di formare efficacemente solo un apprendista su quattro: molto probabilmente le modalità organizzative ed economiche dell'intero sistema, presentando inefficienze, non hanno permesso di poter ben sostenere la costituzione di percorsi formativi strutturati (PROGETTO VESPRO, 2011).

Contestualmente merita riportare un'ulteriore disciplina caratterizzante una diversa tipologia di contratto di lavoro, ossia quello a termine, anche detto a tempo determinato. L'apporto di un termine al rapporto di lavoro rappresenta una clausola di questa specie di contratto stipulata tra le parti e che deroga alla generale tipologia di

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contratto a tempo indeterminato, in cui, appunto, la non previsione di una durata specifica del rapporto di lavoro ne rappresenta la regola. Il codice civile del 1942 all'art. 2097, rubricato “Durata del contratto di lavoro”, al comma 1 prescrive che “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”. Tale disposizione che considerava legittima l'apposizione di un termine al rapporto di lavoro, portò, negli anni Cinquanta, all'abuso dell'utilizzo della stessa per aggirare la corresponsione dell'indennità di anzianità e per garantire ai lavoratori sottoposti a tale tipo di contratto minor garanzie (MAZZOTTA O., 2013). All'interno di questo quadro fu emanata, dunque, la prima regolamentazione del tempo determinato con la Legge 18 aprile 1962, n. 230 che, seppur modificata diverse volte a partire dagli anni Settanta, ha rappresentato la disciplina cardine della materia fino alla riforma intervenuta nel 2001 con il D.lgs del 6 settembre, n. 368 (MAZZOTTA O., 2013). La disciplina confermava la regola secondo cui il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo l'apposizione di un termine, pattuito per iscritto, come clausola dello stesso; il termine poteva essere applicato tipicamente ad attività o tipologie di lavoratori indicati tassativamente della suddetta legge, passibile di successive modificazioni; il termine poteva essere prorogato non più di una volta a determinate condizioni e, in caso contrario, alla scadenza, il contratto diveniva a tempo indeterminato; escludeva l'applicazione del termine a determinati rapporti di lavoro, quali quelli stipulati con i datori di lavoro dell'agricoltura; abrogava l'art. 2097 del c.c. (G.U. Serie Generale n.125 del 17-5-1962). Il su citato D.lgs n. 368/2001 ha attuato la Direttiva comunitaria 28 giugno 1999, n. 99/70. Quest'ultima aveva come obiettivo quello di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione e quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (G.U. delle Comunità Europee del 10-7-1999). Il D.lgs n. 368/2001 ha, conseguentemente, abrogato la disciplina precedente e ha introdotto un nuovo precetto relativo all'apposizione di un termine alla durata del contratto. In particolare, si passa dalla previsione tassativa di attività

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all'apposizione di un termine a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, la cui forma scritta è sempre richiesta e la cui proroga è possibile, una sola volta, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a tre anni (G.U. Serie Generale n. 235 del 9-10-2001). Con quest'ultimo riferimento normativo si concludono i richiami legislativi inerenti le prime regolamentazioni dei rapporti contrattuali nel mercato del lavoro. Siamo nel trentennio che va dagli anni Cinquanta fino agli anni Settanta, periodo storico in cui il nostro Paese è segnato da continui cambiamenti economici e produttivi; il passaggio dall'agricoltura all'industria è in evoluzione, così come lo è il passaggio della manodopera dal primo al secondo settore. L'Italia attraverserà la fase rosea del cosiddetto boom economico, l'offerta di lavoro, ossia la forza lavoro, in eccesso riuscirà bene ad essere trasferita ed assorbita nel settore industriale e si registrerà un tasso di disoccupazione inferiore a quello europeo, all'epoca in cui, alle origini, l'Europa era costituita da quindici Stati membri (CAROLEO F. E., PASTORE F., 2000). La crescita economica sarà accompagnata anche da una riorganizzazione interna del lavoro in cui si fecero pressanti in maggior misura le rivendicazioni di condizioni lavorative più eque e bilanciate tra datori di lavoro e lavoratori. Questi ultimi, infatti, necessitavano, dal punto di vista delle tutele e delle garanzie lavorative, di regole più precise e strutturate, di principi sovrani da far rispettare nei confronti del potere forte, spesso abusato, esercitato del proprio datore di lavoro. In questo solco si inserisce, dunque, la fondamentale Legge 20 maggio 1970, n. 300: lo Statuto dei Lavoratori.

Esso, rappresenta la base fondante delle tutele dei diritti posti a garanzia per i lavoratori, nei rapporti e nei luoghi di lavoro. Significativo ne è il contenuto e la sua portata simbolica. Del progetto di legge si dibatteva già all'indomani della Costituzione ma la legge giunse al suo compimento, sotto i governi di centro-sinistra, negli anni Settanta, appunto, a seguito degli impulsi e delle pressioni esercitati dalle lotte operaie avutesi in quegli anni (MAZZOTTA O., 2013). Ci riferiamo al cosiddetto “autunno caldo”, periodo che abbraccia l'ultimo biennio degli anni Sessanta.

Lo Statuto, essenzialmente, si pose l'obiettivo di rendere effettivi nei luoghi di lavoro da un lato i diritti sanciti in astratto nella Costituzione, come la libertà e dignità dei

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lavoratori, e dall'altro mirò ad ampliare e rafforzare diritti come quello di manifestazione del pensiero, di divieto di indagine sulle opinioni politiche, di difesa nelle procedure disciplinari, di reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, ecc.; in aggiunta, per rendere effettivo quanto sopra, si istituzionalizza la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, a cui si collegano ulteriori divieti come, ad esempio, il divieto di discriminazione per ragioni sindacali e procedimenti volti a reprimere l'eventuale attività antisindacale posta in essere dal datore di lavoro (MAZZOTTA O., 2013). Durante gli anni Ottanta si avvertiranno alcuni primi tentativi volti a modificare il modello originario della politica del lavoro, dovuto ai continui mutamenti che intervenivano nel mercato stesso.

Da una parte, infatti, per far fronte all'eccesso di manodopera, i governi che si susseguirono continuarono a incentivare strumenti di politica passiva del lavoro quali la cassa integrazione guadagni, i prepensionamenti e i contratti di solidarietà difensivi2; dall'altra parte si avviò un processo di deregolamentazione delle condizioni di accesso al mondo del lavoro tramite, ad esempio, l'introduzione di nuovi contratti di formazione e lavoro, che si diffusero rapidamente, e a tempo parziale e di solidarietà che fecero, però, fatica a decollare (PROGETTO ALFIERI, 2007). Questi ultimi furono introdotti con Legge 19 dicembre 1984, n. 863 successivamente modificata. La deregolamentazione si tradusse ai tempi più che altro in un tentativo di “pervenire ad una tutela flessibile dei lavoratori coinvolti, sostituendo la rigidità della legge imperativa con la delega dei poteri derogatori al sindacato e alla contrattazione collettiva” (GHERA E., 1999).

A proposito, risale al 1983 il cosiddetto “Protocollo Scotti”, dal nome dell'allora Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Vincenzo Scotti, con cui si introdusse il ricorso alla concertazione sociale per la formazione delle leggi. Con tale sistema il governo concorda con le parti sociali, i rappresentanti sindacali di lavoratori e datori

2 I contratti di solidarietà difensivi sono accordi, stipulati tra l'azienda e le rappresentanze

sindacali, aventi ad oggetto la diminuzione dell’orario di lavoro al fine di mantenere l’occupazione in caso di crisi aziendale e quindi evitare la riduzione del personale. Si distinguono da quelli espansivi volti a favorire nuove assunzioni attraverso una contestuale e programmata riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione. Si rivelerà di scarsa applicazione. Per un approfondimento consultare il sito Inps alla voce “Contratti di solidarietà” (Inps, 2016a).

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di lavoro, i contenuti di provvedimenti legislativi da emanare, il cui consenso viene poi racchiuso e formalizzato all'interno di un “protocollo d'intesa” (MAZZOTTA O., 2013). In quest'ambito numerosi e articolati saranno gli interventi e le concertazioni che si avranno durante gli anni Novanta e che non staremo qui ad esaminare. Tuttavia, in questi anni prende piede lo sviluppo e la diffusione della rete Internet, una nuova tecnologia di comunicazione che rappresenta attualmente il principale mezzo di comunicazione di massa; l'economia e gli scambi abbracciano una dimensione internazionale; il processo di globalizzazione fa sì che l'Italia è portata a misurarsi, in chiave competitiva, con le economie dei Paesi compresi e non nell'Unione Europea. Tale competizione non si prospetta come una novità assoluta, ma lo è la rapidità degli aggiustamenti richiesti, il tasso di accentuata flessibilità che viene imposta (MANGHI B., 2009).

L'evoluzione dei processi tecnico-scientifici continuano ad essere i protagonisti di un cambiamento accelerato in cui l'intero sistema del lavoro viene necessariamente coinvolto. Una prima conseguenza di queste trasformazioni inciderà nei sistemi di tutela che si erano costruiti a livello nazionale e che si vedranno indeboliti nella loro capacità di tenuta (MANGHI B., 2009).

Da un lato, dunque, l'innovazione tecnologica porta a rompere i tradizionali schemi di organizzazione del lavoro, richiedendo sia particolari conoscenze sia un continuo aggiornamento di competenze anche rispetto ai nuovi strumenti da utilizzare; dall'altro, gli anni Novanta si caratterizzano per un'ulteriore fenomeno che modifica il sistema produttivo ed economico del nostro Paese, orientandolo verso un settore strutturalmente diverso da quello agricolo e industriale: il settore terziario.

Si parla, in generale, di terziarizzazione dell'economia che sta ad indicare la crescita considerevole del numero di imprese e di occupati nel settore terziario a discapito di quello industriale (MAZZOTTA O., 2013). Il terziario investe il variegato ambiente dei servizi interessando l'ambito del commercio, del trasporto, della finanza e delle assicurazioni, dell'istruzione, del turismo e lavori, quali pulizie, sorveglianza, lavoro domestico, volte alla manutenzione ordinaria delle comunità; ciascuno di essi ha modificato il suo perimetro e il suo contenuto professionale puntando maggiormente

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ad una costante attenzione verso una migliore qualità e soddisfazione del cliente. Si aggiungono, poi, tutta una serie di attività sofisticate in cui il tasso di innovazione e il flusso delle competenze umane sono cresciuti rapidamente (MANGHI B., 2009). In questo contesto, dal punto di vista normativo, il diritto del lavoro si è sviluppato alla luce della parola d'ordine della flessibilità, con l'intento di stimolare il decollo delle imprese e l'occupazione (MAZZOTTA O., 2013).

Vanno in questa direzione la Legge 23 luglio 1991, n. 223 che riduce le restrizioni e prevede generose indennità per i licenziamenti collettivi dovuti a crisi o ristrutturazioni industriali (SEMENZA R., 2007 citato da DI NICOLA P., 2011), il Protocollo di intesa tra Governo, imprese e sindacati del 1993, basato sull’idea che la flessibilità possa contribuire a stimolare l’occupazione e la Legge 8 agosto 1995, n. 335, più comunemente conosciuta come Riforma Dini, dal nome del primo governo tecnico ai tempi Presieduto da Lamberto Dini, che istituisce la gestione separata dei fondi pensionistici all’Inps per i collaboratori, introducendo un trattamento previdenziale per quelle figure che rientrano nella sfera del cosiddetto lavoro parasubordinato3 (DI NICOLA P., 2011). Il punto di svolta si registrerà nel 1997 con il cosiddetto Pacchetto Treu, riforma che verrà esaminata nei paragrafi successivi.

1.3 La flessibilità

Oggi giorno sentiamo ovunque parlare di flessibilità quando parliamo del mondo del lavoro. Tale terminologia ha acquisito una forte centralità all'interno dei dibattiti economici e politici degli ultimi vent'anni costituendo l'elemento fondamentale che ha guidato la costruzione delle ultime riforme del lavoro. Abbiamo precedentemente approfondito come essa viene invocata da più parti già a partire dagli anni Ottanta e viene formalizzata e introdotta per la prima volta come previsione normativa con la Legge 19 dicembre 1984, n. 863 che istituisce il contratto di inserimento formativo per i giovani, la possibilità per la prima volta in Italia di sottoscrivere contratti di

3 Il lavoro parasubordinato indica un tipo di lavoro con caratteristiche intermedie tra quelle

del lavoro subordinato e quelle del lavoro autonomo. Si tratta di forme di collaborazione svolte continuativamente nel tempo, coordinate con la struttura organizzativa del datore di lavoro, ma senza vincolo di subordinazione, come il contratto di lavoro a progetto. Per un approfondimento consultare il sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

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lavoro a tempo parziale e l’opportunità di ricorrere a contratti di solidarietà. Ma è soprattutto nella metà degli anni Novanta che la flessibilità trova la forte spinta evolutiva essendo regolarmente riproposta come la soluzione ideale in grado di superare le difficoltà delle congiunture economiche globali e in grado di rispondere tempestivamente all'instabilità dei mercati (DI NICOLA P., 2011).

Essa sembra aver tracciato il segno della modernità all'interno di un mercato del lavoro strutturalmente rigido e contrassegnato, prevalentemente, da un'elevata disoccupazione giovanile e di lunga durata, da una bassa partecipazione delle donne e degli over 50 alle attività lavorative (DI NICOLA P., 2011). In particolare, in Italia, il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro ha profondamente ridefinito il quadro normativo rinnovandolo, soprattutto, tramite l'introduzione e la regolamentazione di nuovi contratti di lavoro flessibili.

Tale strategia ha riguardato diversi aspetti del rapporto di lavoro producendo, in conseguenza, una vasta segmentazione dell'occupazione a più livelli caratterizzati da differenze, anche ampie, nelle condizioni di lavoro, nelle possibilità di carriera, di stabilizzazione e di crescita professionale, nei livelli di tutela, di riconoscimento dei diritti (ACCORNERO A., 2000 citato da DI NICOLA P., 2011). Questa frammentazione ha determinato per alcune fasce della popolazione fenomeni di precarizzazione delle condizioni di lavoro e non solo. Ed è qui che bisogna, innanzitutto, distinguere, mettendo in chiaro, i diversi significati che tali due espressioni racchiudono. Spesso, infatti, nel linguaggio comune, queste due locuzioni vengono confuse, intercambiate, costituendo nell'immaginario collettivo la stessa faccia della solita medaglia. Al contrario, flessibilizzazione e precarizzazione sono due termini che, per l'appunto, racchiudono in sé significati concettualmente diversi.

Il concetto di flessibilità include una molteplicità di significati la cui valenza non è necessariamente e immediatamente negativa; si pensi, ad esempio, alle forme di lavoro che prevedono una flessibilità oraria come nel caso del part-time in cui non sempre si individuano quelle caratteristiche tipiche della precarietà (DI NICOLA P., 2011). Secondo la definizione individuata dell'Istat la precarietà rappresenta uno stato d'insicurezza derivante da una condizione di lavoro nella quale la temporaneità

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contrattuale è associata sia ad una discontinuità nella partecipazione al mercato del lavoro sia ad una mancanza di un reddito continuo ed adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura (ISTAT, 2006a).

In aggiunta, l'Istat individua ulteriori elementi che, se presenti ed associati alla temporaneità contrattuale, aumentano la probabilità di individuare forme di precarietà, quali: una ridotta o assente copertura previdenziale, la mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale, una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili, una maggiore frammentazione del percorso lavorativo, la brevità dei contratti, un sotto inquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio, la lunghezza della permanenza nella situazione di incertezza contrattuale (ISTAT, 2006a). Ne risulta, poi, che in una situazione di crisi finanziaria ed economica reale la condizione di precarietà tende ad aggravarsi e il rischio di rimanere senza lavoro per un lavoratore assunto con contratto di lavoro flessibile è sicuramente più elevato perché maggiormente esposto alle oscillazioni del ciclo economico (DI NICOLA P., 2011). Dunque, possiamo affermare e rompere l'associazione concettuale per cui il lavoro flessibile viene uguagliato al lavoro precario e precisare come la flessibilità diventa precarietà se gli interventi statali nel mercato del lavoro non incidono adeguatamente sul versante del welfare.

Ma cosa s'intende col termine flessibilità? La letteratura al riguardo è variegata e distingue fondamentalmente cinque modalità di flessibilizzazione differenti (ATKINSON J., 1984; ESPING-ANDERSEN G., REGINI M., 2000; CHIESI A.M., 2005 citati da PROGETTO EQUAL GE.L.S.O., 2007):

1. la flessibilità temporale: riguarda l'orario di lavoro ed è relativa alla capacità di modificare l'ammontare complessivo e la distribuzione dell'orario di lavoro a seconda delle esigenze del datore di lavoro e del lavoratore; non solo, quindi, modificazione della durata della prestazione ma anche della collocazione della stessa nell'arco della giornata, del mese, dell'anno. Essa è definita come flessibilità numerica interna e si contrappone a quella esterna che si riferisce alle opportunità di assunzione e licenziamento dei lavoratori ed il ricorso a contratti di lavoro a termine (WILTHAGEN T., TROS F., 2004

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citati da PROGETTO ALFIERI, 2007);

2. la flessibilità spaziale: essa si riferisce alla frammentazione dell'impresa sul

territorio, alla riduzione delle dimensioni aziendali, al cosiddetto processo di esternalizzazione tramite cui l'impresa principale affida parti del proprio processo produttivo, anche complementari, a strutture esterne all'azienda. Si parla di placeless society (GALLINO L., 2001 citato da PROGETTO EQUAL GE.L.S.O., 2007) per indicare la fine della grande impresa come luogo di lavoro distinto da quello privato; molte persone oggigiorno, infatti, svolgono il proprio lavoro in casa, in treno, in albergo o in autostrada;

3. la flessibilità funzionale: essa è relativa alla capacità del datore di lavoro di

assegnare compiti o unità lavorative diverse al proprio dipendente, promuovendo una sorta di mobilità interna, a seconda delle necessità aziendali;

4. la flessibilità salariale: essa si riferisce propriamente alla possibilità di

rivedere la retribuzione del lavoratore a seconda dei risultati conseguiti e quindi in relazione alla produttività;

5. la flessibilità numerica: essa riguarda la possibilità per il datore di lavoro di

variare il numero di dipendenti di cui necessita servendosi di contratti di lavoro a termine, subordinati e parasubordinati, e utilizzando lo strumento del licenziamento e/o del non rinnovo del contratto.

Tra questi cinque aspetti della flessibilità sono la flessibilità numerica e temporale che si riferiscono appropriatamente all'aspetto contrattuale del rapporto di lavoro e si collegano alla diffusione che attualmente hanno, nel nostro Paese, le tipologie contrattuali cosiddette atipiche che si contrappongono al modello tradizionale di lavoro a tempo pieno, standard, a tempo indeterminato; ci riferiamo a tipologie contrattuali come il part-time, il lavoro somministrato, l'apprendistato, il contratto di inserimento, il lavoro intermittente, ripartito, ecc., e che di seguito andiamo ad esaminare e sistematizzare seguendo l'ordine del loro inserimento nel mercato del lavoro tramite le riforme che nel tempo, a partire dalla fine degli anni Novanta, si sono succedute fino ad arrivare ai giorni nostri.

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1.4 Il Pacchetto Treu: Legge 24 giugno 1997, n. 197

La graduale diffusione delle nuove forme d'impiego e dei relativi rapporti di lavoro è stata favorita dalle riforme del lavoro da governi sia di centro-sinistra prima che di centro-destra poi, producendo quel discostamento, come antecedentemente affermato, dalla tipologia tradizionale del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Il piano delle riforme, già dai primi albori, ha acceso forti dibattiti politici e sindacali, suddividendo gli stessi schieramenti su posizioni sostanzialmente contrapposte che si collocavano su due filoni che vedevano, in sintesi, da una parte coloro che sostenevano favorevolmente la deregolamentazione del mercato del lavoro perché consideravano la rigidità strutturale dello stesso come ostacolo da superare tramite la strada della flessibilizzazione; dall'altro, invece, vi erano coloro che vedevano in questi provvedimenti un attacco ai diritti e alle tutele dei lavoratori e ne richiedevano la loro abrogazione. Fra tutti, vi erano anche coloro che ricercavano una strategia che meglio potesse, invece, coniugare le forme di flessibilizzazione con la tutela dei diritti (PROGETTO ALFIERI, 2007).

Siamo collocati temporalmente intorno alla fine degli anni Novanta, periodo da sempre considerato punto di svolta verso una più marcata strategia di flessibilizzazione che si concretizza, più specificatamente, con l'approvazione della Legge 24 giugno 1997, n. 196, comunemente conosciuta come “Pacchetto Treu”, dal nome dell'allora ministro del Lavoro del Governo Dini, Tiziano Treu. Con questo intervento legislativo denominato “Norme in materia di promozione dell'occupazione” s'intendeva contrastare il fenomeno della disoccupazione. In particolare, va precisato a tal proposito il contesto entro il quale tale riforma s'inserisce. Il nostro Paese, infatti, attraversa a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta e a partire dal 1996 - anno precedente la suddetta riforma - due fasi di espansione economica: nella prima, si registra una forte crescita del prodotto interno lordo pari al 2.7 per cento in media annua che vede l'occupazione crescere soltanto in maniera modesta (circa l'1 per cento in media); nella seconda fase espansiva si registra, differentemente dalla prima, una crescita della ricchezza media non superiore all'1.5 per cento a fronte di un'occupazione che segnalava incrementi di 1.2

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punti percentuali (PROGETTO ALFIERI, 2007).

Quasi di pari passo, in paragone, il tasso di disoccupazione registra nella prima fase espansiva una modesta diminuzione, ma in seguito sale ininterrottamente fino al 1996, quando si posiziona, ad un livello pari al 12.1 per cento (PARLAMENTO EUROPEO, 1998).

Con la riforma voluta con la Legge n. 196/1997 s'intendeva dar risposta anche a questa situazione. Si riteneva che aumentando la flessibilità nel mercato del lavoro si potesse meglio coniugare l'interazione tra domanda e offerta di lavoro, potendo più facilmente far circolare i lavoratori da un'attività ad un'altra. I lavoratori assunti con queste nuove forme contrattuali risultano potenzialmente e continuamente interscambiabili, anche in maniera virtuosa, fra i diversi posti di lavoro offerti. In più, unitamente a questo, vengono introdotti e promossi strumenti, sia di tipo contrattuale che di tipo organizzativo, che hanno la funzione di migliorare la comunicazione tra chi cerca e chi offre lavoro, facilitando un ingresso temporaneo dei lavoratori stessi nel mercato, soprattutto di coloro che un'attività lavorativa ancora non ce l'hanno. Le novità introdotte dal Pacchetto Treu si riferiscono proprio a quanto suddetto. Nello specifico, essa introduce l'importante novità del lavoro interinale, allargando le possibilità di impiego a termine e a tempo parziale (ACCORNERO A., 2006 citato da DI NICOLA P., 2011).

Essa dedica i suoi primi undici articoli alla disciplina del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo e poi presenta una serie di disposizioni organiche in tema di contratto a tempo indeterminato e parziale, di formazione e lavoro, di apprendistato, di riordino della formazione professionale, di tirocini formativi e di orientamento, di disposizioni in materia di lavori socialmente utili, a favore degli inoccupati del Mezzogiorno, ecc. (CAMERADEI DEPUTATI, Legge n. 196/1997). Il lavoro interinale rappresenta una particolare forma di “contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo” con il quale le aziende possono beneficiare temporaneamente di una prestazione lavorativa, senza assumersi tutti gli oneri derivanti dall'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato. Le disposizioni di tale legge sono state successivamente abrogate con il Decreto Legislativo 10

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settembre 2003, n. 276 - "Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge 14 febbraio 2003, n. 30", nota come Legge Biagi” - e l'istituto del lavoro interinale è stato ridefinito per molti aspetti nell'ambito del contratto di somministrazione di lavoro (INPS, 2016b).

Con la somministrazione di manodopera un soggetto chiamato utilizzatore si rivolge ad un altro soggetto detto somministratore per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente ma dipendente dello stesso somministratore.

Nella fattispecie si sviluppano, così, due tipi di contratti: uno di somministrazione, di natura commerciale, stipulato tra il somministratore e l'utilizzatore; un altro di lavoro subordinato che intercorre tra il somministratore e il lavoratore. Entrambi possono essere contratti a tempo determinato o indeterminato (INPS, 2016c).

In questa relazione viene posto in essere, dunque, un rapporto triangolare valido tra un lavoratore, un datore di lavoro (che sarebbe il su citato utilizzatore) e un'agenzia autorizzata che somministra il lavoro (il somministratore) e che funge da intermediario tra i primi due soggetti. Le modalità del lavoro interinale non permettono l'ingresso del lavoratore in azienda, ma solo il “prestito” del lavoratore dall'agenzia di lavoro all'azienda: esaurito il periodo pattuito con l'azienda fornitrice, il lavoratore torna a disposizione di quest'ultima (GRECO T., 2013).

Da un lato, dunque, l'agenzia di intermediazione ricava un canone sulla prestazione, dall'altro l'azienda fa fronte alle sue necessità e problemi di organico pur non gestendo direttamente il rapporto di lavoro. Da ciò ne deriva che l'azienda non può decidere sulla riconferma del lavoratore nel posto da lui temporaneamente coperto. Da tale situazione si distinguono, pertanto, quelle forme di lavoro che tendono, almeno intenzionalmente, a incentivare la flessibilità all'ingresso nel mercato del lavoro, salvo poi tradursi in situazioni di precarietà; mentre nel lavoro interinale la precarietà si presenta come effetto diretto e non come conseguenza collaterale e contingente (GRECO T., 2013).

Ad ogni modo, l'impiego del lavoro interinale è cresciuto col passare del tempo e stessa cosa si può affermare circa il contratto di somministrazione.

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che il grafico delinea include anche il parziale andamento positivo registrato, fino al 2004, dal contratto di somministrazione, istituto che, introdotto con la Legge n. 30/2003, più comunemente conosciuta come Legge Biagi, ha ridefinito molti aspetti del contratto di lavoro interinale (MINISTERO DEL LAVORO EDELLE POLITICHE SOCIALI, 2005):

Fig. 1 – Lavori interinali: dati originari e serie destagionalizzata (valori assoluti)

Fonte: Elaborazione Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali su dati INPS

La fonte Inps4 su rappresentata e rielaborata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali consente di identificare, all'interno dei soggetti occupati, quanti dichiarino di avere un contratto con un'agenzia di lavoro interinale consentendo una misurazione pienamente comparabile con quella dell'occupazione complessiva, anche se per diversi aspetti sia la natura campionaria del dato, riferito ad un segmento limitato del mercato del lavoro e dunque soggetto ad un considerevole errore campionario, sia la natura stessa del lavoro interinale, abbastanza variabile nel

4 La banca dati Inps raccoglie i moduli che le agenzie interinali, in quanto titolari del

rapporto di lavoro, sono obbligate ad inviare mensilmente all'istituto e riportano il numero complessivo di lavoratori interinali, oltre che le giornate retribuite, l'ammontare delle retribuzioni corrisposte e i contributi previdenziali versati (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2005).

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tempo, possono rendere meno significativo il dato così ottenuto (MINISTERO DEL LAVOROEDELLE POLITICHE SOCIALI, 2005).

Ma ciò che ad ogni modo è chiaramente visibile e dato per assodato è che dal 1998, anno della sua introduzione, il lavoro interinale è cresciuto sempre in maniera stabile. Al di là delle criticità che una comparazione tra fonti diverse può implicare, suddetta tendenza è verificata anche dai dati sull'Occupazione, Retribuzione e Oneri Sociali – OROS5 – determinati dell'ISTAT, che fino al 2003 rilevano il numero delle posizioni lavorative dipendenti sempre in crescita; più dettagliatamente, tra queste, la presenza di impieghi standard è dominante, pari al 76 per cento nel 2003, ma la quota delle posizioni atipiche è in aumento, seppur in maniera decrescente, in quanto il successo del lavoro interinale ha inciso negativamente sui contratti di formazione e lavoro e sui piani di inserimento professionale, così come in crescita si registrano anche i contratti parzialmente atipici (ISTAT, 2005a citato da PROGETTO ALFIERI, 2007).

Per correttezza di metodo va precisato che i dati su cui si fonda tale interpretazione, basandosi sul numero di posizioni lavorative e non sul numero di occupati, sono soggetti a sovrastima, ma comunque resta certa la forte dinamica espansiva della categoria su delineata.

Altra tipologia contrattuale introdotta dalla riforma in questione è quella delle collaborazioni coordinate e continuative, più comunemente note come co.co.co. Esse, insieme ai titolari di partita IVA (liberi professionisti) ed altre tipologie minori6, rappresentano la componente più numerosa del lavoro parasubordinato, denominazione introdotta dall'Inps nel 1995 (RAPPORTO ISFOL, 2002).

Con il co.co.co non s'instaura un vero e proprio rapporto di subordinazione tra datore di lavoro e lavoratore, è una forma d'impiego che si posiziona a metà tra il lavoro

5 OROS definisce atipici in senso stretto gli interinali, i contratti di solidarietà esterna, a

tempo determinato, i contratti di formazione e lavoro ed i piani di inserimento professionale; definisce parzialmente atipici il lavoro a domicilio, il part-time e l'apprendistato. Le variazioni delle posizioni atipiche in senso stretto includono, dunque, il lavoro interinale.

6 Esistono collaborazioni atipiche in diversi settori quali ad esempio negli studi medici per

gli infermieri; nel settore dell'abbigliamento, per i tecnici di produzione che seguono l'attività dei laboratori; nel settore dei servizi, per gli addetti ai recapiti o alla lettura dei contatori; eccetera.

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