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L’analisi delle censure avanzate nei riguard

3.2. Il quadro di principio offerto dalla Corte alla decisione

3.3.1. L’analisi delle censure avanzate nei riguard

a)La fondatezza delle censure relative ai commi 2°, 2-bis lettere a) e b) e 2-quater: la dichiarazione di incostituzionalità del comma 2-bis lettere a) e b) e dell’alinea che le introduce limitatamente alle parole “che presentano i seguenti requisiti” e del comma 2-quater

Innanzitutto è proprio in riferimento ai suddetti principi che la Corte ritiene fondate le questioni di legittimità sollevate rispetto ai commi 2°, 2-bis lettera a) e b) e 2-quater dell’articolo 70 della legge regionale n.12 del 2005 come modificati dall’articolo 1 comma 1° lettera b) della legge regionale n.2 del 2015 per violazione degli articoli 3, 8, 19 e 117 comma 2° lettera c) della Costituzione. Il ricorrente in riferimento a tali disposizioni aveva operato due distinte censure di costituzionalità: una relativa ai commi 2° e 2-bis lettera a) dell’articolo 70 per violazione degli articoli 3, 8 e 19 della Costituzione ed un’altra relativa ai commi 2-bis lettera b) e 2-quater per violazione dell’articolo 117 comma 2° lettera c) della Costituzione. La Corte, invece, risponde a tali questioni in un'unica soluzione riunendo i due motivi di censura. Primariamente ripercorre i contenuti della disposizione dell’articolo 70, collocato nel Capo recante “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a

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servizi religiosi” della legge regionale n.12 del 2005, come modificati dalla legge regionale n.2 del 2015. La disposizione individua tre destinatari della disciplina del capo: gli enti di culto della Chiesa cattolica (comma 1°); gli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha approvato con legge l’intesa ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione (comma 2°) e gli enti di tutte le altre confessioni religiose, terza categoria di enti senza intesa, ai quali si applica condizionatamente alla presenza di alcuni requisiti (comma 2-bis). Essi sono: “a) presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo; b) i relativi statuti esprimono il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione.”. L’organo preposto a compiere la verifica in ordine alla effettiva sussistenza di tali condizioni è una consulta regionale, istituita e nominata con provvedimento della Giunta regionale che, al fine di garantire la corretta applicazione della legge da parte dei Comuni, rilascia pareri preventivi ed obbligatori ancorché non vincolanti. Su questo punto tuttavia la Corte registra un dato appreso in seguito a quanto dichiarato dalla difesa regionale in udienza, e cioè che, nonostante sia trascorso più di un anno dalla entrata in vigore della contestata legge regionale n.2 del 2015, tale consulta ancora non è stata

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istituita. In seguito a tale analisi di contenuto il giudice procede nel merito argomentando la decisione di dichiarare l’illegittimità costituzionale dei commi 2-bis sia nelle lettere a) e b) sia nella parte dell’alinea che le introduce, ossia nelle parole “che presentano i seguenti requisiti” , e 2-quater dell’articolo 70 della legge n.12 del 2005. La Corte dichiara l’incostituzionalità di tali disposizioni perché, pur riconoscendo che la Regione approntando una normativa per la realizzazione degli edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi ha disciplinato in una materia che, ai sensi dell’articolo 117 comma 3° della Costituzione, rientra nell’elenco di quelle oggetto di competenza concorrente con lo Stato, ossia quella del “governo del territorio” (sentenze n.6, n.102, n.272 del 2013), afferma che il legislatore regionale comunque non può mai perseguire finalità che vanno oltre le proprie prerogative. Ed infatti è proprio da questo punto di vista che bisogna osservare se il riparto di competenze Stato – Regioni è rispettato; cioè non è sufficiente guardare all’oggetto ma bisogna valutare anche qual è la ragione ispiratrice della normativa impugnata, individuare quali sono gli interessi ad essa sottesi ed ai quali essa offre tutela, nonché, appunto, le finalità perseguite. Sono citate al riguardo alcune recenti sentenze quali la n.167 e n.119 del 2014 e la n.140 del 2015. Quindi precisa la Corte, riaffermando quanto già precedentemente espresso con la sentenza n. 195 del 1993,

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che la legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi”. Pertanto, se e fin tanto che, il legislatore regionale resta entro questi limiti esso rimane all’interno dei confini delle sue competenze; viceversa se nell’ambito di una legge comune in materia di governo del territorio pone disposizioni che, invece di agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini, lo ostacolano e comprimono la libertà religiosa, esso non solo discrimina, in spregio del principio di eguaglianza sancito a livello generale dall’articolo 3 della Costituzione e ribadito nello specifico dagli articoli 8 comma 1°, che afferma il principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge, e 19 che riconosce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa con i soli limiti dei riti contrari al buon costume; ma fuoriesce anche dai propri ambiti di competenza invadendo quelli statali poiché è esclusivamente la legge dello Stato che può disciplinare in ordine ai rapporti con le confessioni religiose (articolo 117 comma 2° lettera c)) e quindi, conseguentemente verificare se i relativi statuti esprimono effettivamente il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e rispettano i principi ed i

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valori della Costituzione. Non è pertanto consentito al legislatore regionale prevedere differenze fra le varie confessioni religiose per quanto riguarda l’accesso al riparto degli spazi destinati nella pianificazione urbanistica al culto in quanto la Legge suprema dello Stato sancisce in materia di libertà religiosa la più ampia formulazione possibile di principio riconoscendo a “tutte le confessioni religiose” l’eguale libertà davanti alla legge e a “tutti” il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa “in qualsiasi forma”. Ovviamente lo si ribadisce, come per tutte le libertà costituzionali, non può mai trattarsi di un affermazione di libertà assoluta ed illimitata ma, necessariamente al riconoscimento di ambiti di libertà nei quali si spiega la personalità dell’individuo sia come singolo sia in forma associata il costituente, proprio per garantire che nessun diritto si renda tiranno rispetto agli altri, ha contrapposto la previsione di limiti ed in questo caso si tratta di quello dei “riti contrari al buon costume”. La Corte conclude quindi affermando che: sicuramente rientrando la pianificazione urbanistica degli edifici di culto e delle attrezzature per servizi religiosi nella programmazione generale di governo del territorio, la Regione è competente a regolamentarla; ma che essa esorbita dalle proprie competenze quando persegue finalità ulteriori che non si limitano alla sola disciplina dell’edilizia di culto, e cioè quando imponga agli enti di culto di confessioni religiose prive di intesa

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ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione condizioni più gravose (la presenza dei requisiti di cui alle lettere a) e b) del comma 2-bis), rispetto agli enti di culto della Chiesa cattolica e a quelli delle confessioni religiose con intesa, per poter partecipare alla ripartizione degli spazi dedicati alla realizzazione di edifici di culto discriminandole (violazione degli articoli 3, 8, 19 della Costituzione) ed interferendo con la disciplina statale in materia di rapporti con le confessioni religiose (violazione dell’articolo 117 comma 2° lettera c)). E’ dunque per queste ragioni che la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 70 commi 2-bis lettere a) e b), ed in parte nell’alinea che le introduce ossia le parole “che presentano i seguenti requisiti”, e 2-quater della legge regionale della Lombardia n.12 del 2005 mentre osserva che non costituiscono oggetto del giudizio gli articoli 72 comma 1° e 73 comma 3° della medesima legge regionale n.12 del 2005. Il primo in riferimento alla circostanza che il piano per le attrezzature religiose individua in modo specifico le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono ad esse destinate dimensionandole e disciplinandole “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”; il secondo in riferimento alle modalità ed alle procedure di finanziamento, in particolare al profilo dei contributi prevedendo che per quanto riguarda la

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ripartizione degli stessi da parte del Comune questa avviene “tenuto conto della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose”. Sulla base del comma 2° “I contributi sono corrisposti agli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70 che ne facciano richiesta.” e “A tal fine le autorità religiose competenti, secondo l’ordinamento proprio di ciascuna confessione, presentano al comune entro il 30 giugno di ogni anno un programma di massima, anche pluriennale, degli interventi da effettuare, dando priorità alle opere di restauro e di risanamento conservativo del proprio patrimonio architettonico esistente, corredato dalle relative previsioni di spesa.” La successiva disposizione (comma 3°) stabilisce poi che il Comune “entro il successivo 30 novembre, dopo aver verificato che gli interventi previsti nei programmi presentati rientrino tra quelli di cui all’articolo 71, comma 1,” procede al riparto dei suddetti contributi tra gli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70 che ne abbiano fatto richiesta nel modo sopra esposto, ossia avendo riguardo alla “consistenza ed incidenza sociale” delle rispettive confessioni all’interno del comune “finanziando in tutto o in parte i programmi a tal fine presentati.”.

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b)L’infondatezza della censura relativa al comma 2-ter secondo periodo: la pronuncia interpretativa di rigetto

Passando poi ad analizzare il terzo motivo di censura rivolto dal ricorrente all’articolo 70 comma 2-ter, la Corte ritiene la questione non fondata. La disposizione, anch’essa introdotta a seguito della novella legislativa del 2015 ad opera dell’articolo 1 comma 1° lettera b) della legge n.2, stabilisce che affinché la disciplina regionale in materia di realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi possa applicarsi agli enti di culto delle confessioni religiose di cui ai commi 2° e 2-bis, ossia, rispettivamente, a quelli con i quali lo Stato ha approvato con legge l’intesa ai sensi del comma 3° dell’articolo 8 della Costituzione e a quelli che ne siano privi e presentino determinati requisiti di cui alle lettere a) e b), essi devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato. Tali convenzioni tuttavia, prosegue la disposizione, “prevedono espressamente la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione.” Il rilievo di costituzionalità è operato dal ricorrente nei riguardi di questo secondo periodo del comma 2-ter asserendo l’esistenza di una violazione dell’articolo 19 della Costituzione in ragione della circostanza secondo la quale la contestata previsione individua in modo eccessivamente generico le condizioni al verificarsi delle quali il

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Comune può unilateralmente disporre la risoluzione o la revoca della convenzione, peraltro pregiudicando la libertà dell’ente di svolgere attività anche eterogenee rispetto a quelle di natura strettamente confessionale, religiosa come ad esempio attività sportive o culturali. La Corte supera il dubbio di costituzionalità posto dal ricorrente, argomentandone l’infondatezza, attraverso l’interpretazione: il giudice delle leggi, infatti, offre un’interpretazione della norma che la salva dalla scure dell’incostituzionalità. Innanzitutto muove da un presupposto di base ossia che la convenzione che gli enti di culto delle confessioni di cui ai commi 2° e 2-bis devono stipulare è “a fini urbanistici” dunque è uno strumento di regolamentazione che si colloca nella pianificazione del territorio e come tale ha naturalmente vocazione urbanistica, cioè è rivolta ad assicurare uno sviluppo armonico dei centri abitati. Prosegue la Corte, che trattandosi di un atto negoziato fra due parti, è assolutamente normale che preveda, in ipotesi di violazioni da parte dell’ente confessionale stipulante, delle conseguenze articolando la severità della reazione sulla base del tenore e della gravità della trasgressione compiuta. Fra queste la contestata disposizione individua per l’ipotesi di violazione più gravi le possibilità della risoluzione o della revoca. E’ qui che la Corte precisa che nel momento della concreta applicazione delle previsioni della convenzione il Comune deve valutare ogni volta singolarmente

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caso per caso se, tra i vari strumenti a cui si può ricorrere per sanzionare la trasgressione rispetto a quanto pattiziamente stabilito, non sia possibile fare ricorso ad altri che consentano comunque di raggiungere il medesimo obiettivo, ossia quello di tutelare allo stesso modo gli interessi pubblici emersi come rilevanti, ma pregiudicando in minor misura possibile la libertà di culto che sottende ontologicamente la libertà di disporre di luoghi dedicati. E’ evidente, ha cura di puntualizzare la Corte, che la valutazione delle misure reattive da adottare è svolta all’esito di un giudizio di bilanciamento fra plurimi interessi coinvolti, nel corso quale occorre tenere adeguatamente in considerazione il tenore costituzionale di quelli attinenti alla libertà religiosa; pertanto la mancanza di un tale bilanciamento potrà essere fatta valere nelle sedi deputate. La Corte conclude che la disposizione interpretata in questo modo rispetta il principio di proporzionalità, in particolare nel giudizio di ponderazione di interessi, tutti parimenti da tutelare, il principio è garantito quando, pur realizzandosi una compressione nei confronti di una libertà costituzionalmente tutelata qual è quella di culto al fine di conseguire altri obiettivi legittimi per l’ordinamento, si prescriva però di adottare sempre, fra più misure tutte in egual modo idonee, quella che meno intacca i diritti dei singoli e che impone sacrifici nel minimo indispensabile

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per garantire, in quella specifica situazione, la realizzazione dei contrapposti interessi.

c)L’inammissibilità della censura relativa ai commi 2-bis, 2-ter e 2-quater

Esaminando poi l’ultima censura avanzata dal ricorrente sull’ articolo 70 della legge regionale n.12 del 2005 la Corte la ritiene inammissibile. I commi tacciati di incostituzionalità sono unitariamente il 2-bis, il 2-ter ed il 2-quater per supposta violazione dell’articolo 117 comma 1° e 2° lettera a) della Costituzione nei quali ad avviso del ricorrente sono “consacrati” i “principi europei ed internazionali in materia di libertà di religione e di culto”. In particolare sono richiamati alcuni atti europei ed internazionali: il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea nei suoi articoli 10, 17 e 19; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007) nei suoi articoli 10, 21 e 22 ed infine il Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966 e ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n.881) nel suo articolo 18. La Corte argomenta l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione ricordando come, secondo giurisprudenza consolidata, il ricorso in via principale deve individuare in modo compiuto la questione inquadrandola

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precisamente nei suoi termini normativi, ossia indicando con esattezza le norme costituzionali ed ordinarie coinvolte nonché, qualora vi siano, quelle interposte ponendo in modo chiaro al cospetto del giudice l’oggetto della questione cioè il problema del rapporto fra di esse della cui definizione egli è arbitro massimo. Il ricorso inoltre, come ribadito in alcune recenti sentenze (n.251, n.233, n.218, n.153 e n.142 del 2015), deve contenere una argomentazione nel merito delle ragioni per le quali si chiede al giudice delle leggi di dichiarare l’incostituzionalità di determinate norme. In questo caso invece, nell’articolare la censura, il ricorrente si limita ad indicare le disposizioni regionali (i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’articolo 70) che, a suo giudizio, nel contrastare con l’articolo 117 commi 1° e 2° lettera a) della Costituzione violano anche i principi europei ed internazionali in materia di libertà religiosa e di culto che tali disposizioni costituzionali, sempre secondo il ricorrente, consacrano richiamandosi ad una serie di atti del diritto dell’Unione europea (il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)e del diritto internazionale (il Patto internazionale sui diritti civili e politici). Di tali atti vengono anche citate delle norme e brevemente illustrate nelle loro previsioni, mentre non si indicano in alcun modo i contenuti della disciplina regionale che si pretendono con esse in contrasto. Cioè il ricorrente asserisce

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l’esistenza di una violazione dell’articolo 117 commi 1° e 2° lettera a) della Costituzione e, poiché a suo avviso essi sanciscono principi sovranazionali in materia di libertà di religione e di culto, anche di essi ma non spiega le ragioni per le quali sussiste tale contrasto. Nondimeno omettendo di riportare il contenuto delle disposizioni regionali oggetto di contestazione non è possibile comprendere quali siano in dettaglio i profili di disciplina ritenuti incompatibili con i suddetti principi e non risulta chiaro neppure in quali termini si ponga l’incompatibilità. Il ricorrente, dunque, in merito a questo aspetto ha sviluppato superficialmente la propria censura limitandosi ad esternarla ma non spiegando nel merito le ragioni per le quali ritiene vi sia un profilo di incostituzionalità nelle disposizioni impugnate. Vi è quindi un difetto di argomentazione e, chiarisce la Corte, non è possibile desumerne il significato attraverso una lettura globale del ricorso, giacché essa, al contrario, lo rende ancora più incomprensibile. Non è chiaro, afferma la Corte, se il ricorrente abbia inteso semplicemente evidenziare la rilevanza anche in ambito sovranazionale dei principi di eguaglianza e di libertà religiosa ai quali fa riferimento in altri motivi di ricorso ovvero abbia inteso rilevare all’interno del giudizio di costituzionalità la sussistenza di un contrasto tra tali principi e le disposizioni dei commi 2-bis, 2-ter, 2-quater dell’articolo 70 della legge n.12 del 2005 dei quali, osserva la Corte, non è stato

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avvertito, ancor prima che sul piano sovranazionale, il problema di una possibile illegittimità sul piano interno, ossia della eventuale violazione dei corrispondenti principi costituzionali italiani. Vi è poi un ulteriore profilo di inammissibilità della questione sollevata dal ricorrente, sempre per difetto di motivazione, in ordine agli atti del diritto sovranazionale invocati. Si tratta in particolare della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 51 della quale, nonché dell’articolo 6 paragrafo 1 prima alinea del Trattato sull’Unione europea, della Dichiarazione n.1 allegata al Trattato di Lisbona e di una assodata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.” Ciò significa che affinché la suddetta Carta possa essere invocata in un giudizio di legittimità costituzionale è necessario, come la Corte costituzionale ha già avuto occasione di precisare con la sentenza n.80 del 2011, che la fattispecie oggetto di normativa nazionale “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e

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non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto”. Come affermato nelle sentenze n.185 del 2011 e n.199 del 2012 la mancanza di indicazione argomentata dei presupposti di applicabilità delle norme del diritto dell’Unione europea alla disciplina in questione rende il richiamo operato dal ricorrente a queste ultime puramente generico; peraltro, specifica la Corte, in un’ipotesi, qual è quella oggetto del presente giudizio di costituzionalità, nella quale i punti di incontro tra l’ambito applicativo delle norme sovranazionali e quello delle censurate diposizioni regionali interne non risultano assolutamente essere evidenti. Tale criticità che la Corte rileva rispetto al richiamo, da parte del ricorrente, di atti sovranazionali all’interno del giudizio è espressa anche con riguardo agli articoli 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea poiché essi si rivolgono direttamente all’Unione ed alle sue istituzioni non postulando ulteriori obblighi in capo agli Stati membri. La Corte, quindi complessivamente, dichiara l’inammissibilità del motivo di ricorso esaminato per mancanza di elaborazione nel merito delle ragioni per le quali la censura viene mossa e si chiede, conseguentemente, una pronuncia di incostituzionalità. Aggiunge infine, secondo quanto già affermato con la sentenza n.185 del 2011, l’inconferenza del richiamo all’articolo 117 comma 2° lettera a) della Costituzione come parametro di legittimità costituzionale nel presente giudizio, in

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quanto esso non può essere concepito come un ulteriore baluardo, oltre alle disposizioni degli articoli 11 e 117 comma 1° della Costituzione, a garanzia dell’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi posti dal diritto internazionale.

In tal modo la Corte termina l’analisi dei rilievi di costituzionalità