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Capitolo II. La giurisprudenza della Corte costituzionale

1.1. La sentenza n.59 del 1958

La prima pronuncia risale al 1958, si tratta della sentenza n.59 emanata nell’ambito di un giudizio di legittimità promosso dal Tribunale di Crotone con ordinanza 30 luglio 1957 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.223 del 7 settembre 1957 ed iscritta al n.80 del Registro ordinanze 1957. Il Tribunale di Crotone, nell’ambito di un procedimento penale, aveva sollevato innanzi alla Corte questione di legittimità sull’articolo 3 della legge 24 giugno 1929 n.1159 e sugli articoli 1 e 2 del Regio Decreto 28 febbraio 1930 n.289 per violazione degli articoli 8,19 e 20 della Costituzione. Questi due testi normativi, vigenti in parte anche oggi, recavano: la legge n.1159 del 1929, c.d. “Legge sui culti ammessi nello Stato”, “Disposizioni sull'esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio

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celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”; mentre il Regio Decreto n.289 del 1930 “Norme per l'attuazione della L. 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato”. Il procedimento penale avanti al Tribunale di Crotone era stato avviato a carico di un imputato al quale si contestava di avere disatteso l’ordine di astenersi dal compiere atti del culto pentecostale senza avere prima ottenuto l’approvazione ed autorizzazione governative previste dalla suddetta legge e dal suddetto R.D.. Nel corso del giudizio il Tribunale rimette, appunto con ordinanza, al giudice delle leggi la questione di legittimità costituzionale relativamente alle disposizioni dell’articolo 3 della legge n.1159 del 1929 che prevede che “Le nomine dei ministri dei culti diversi dalla religione dello Stato debbono essere notificate al Ministero dell'Interno per l'approvazione. Nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto, se la loro nomina non abbia ottenuto l'approvazione governativa.” e degli articoli 1 e 2 del R.D. n.289 del 1930, ad oggi abrogati, i quali prevedevano rispettivamente: l’articolo 1 che “Per l'esercizio pubblico dei culti ammessi nello stato, i fedeli di ciascun culto possono avere un proprio tempio od oratorio. L'apertura di un tempio od oratorio al culto deve essere chiesta dal ministro del rispettivo culto, la cui nomina sia stata

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debitamente approvata a termini dell'art. 3 della legge, con domanda diretta al Ministro per la giustizia e gli affari di culto e corredata dei documenti atti a provare che il tempio od oratorio è necessario per soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli ed è fornito di mezzi sufficienti per sostenere le spese di manutenzione. L'apertura è autorizzata con decreto reale emanato su proposta del Ministro per la giustizia e gli affari di culto di concerto con quello per l'interno.”; e l’articolo 2 che “I fedeli di un culto ammesso nel regno possono, senza preventiva autorizzazione dell'autorità governativa, tenere negli edifici, aperti al culto a norma dell'articolo precedente, riunioni pubbliche per il compimento di cerimonie religiose o di altri atti di culto, a condizione che la riunione sia presieduta od autorizzata da un ministro di culto, la cui nomina sia stata debitamente approvata a termini dell'art. 3 della legge. In tutti gli altri casi si applicano le norme comuni per le riunioni pubbliche.” Nel giudizio interviene il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato ed assistito dall’Avvocatura generale dello Stato.2

2 L’Avvocatura formula una eccezione preliminare con la quale tenta di

convincere la Corte della inesistenza di alcuna possibilità di collegamento (o meglio “interferenza” secondo la terminologia dalla stessa impiegata) tra l’articolo 650 del Codice penale e gli articoli 3 della legge n. 1159 del 1929 e 1 - 2 del R.D. n.289 del 1930, decreto avente peraltro forza di legge in base all’articolo 14 della legge medesima. L’articolo 650 del Codice penale, collocato in apertura del Libro III “Delle contravvenzioni in particolare”, Titolo I “Delle contravvenzioni di polizia”, Capo I “Delle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza”, Sezione I “Delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica”, §.1 “Delle contravvenzioni concernenti l’inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose” e rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”,

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La Corte entrando nel merito delle questioni svolge subito una precisazione centrale, ricorrente in tutta la sua giurisprudenza in materia di libertà religiosa, ossia che “il fondamento della decisione sia tutto nello stabilire con chiarezza la distinzione, da cui si snodano poi tutte le conseguenze, fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato.”. Si tratta di una distinzione che risulta immediatamente sul piano logico e riceve consacrazione positiva al livello normativo più elevato dell’ordinamento, ossia nella Carta fondamentale, in due diverse disposizioni: l’articolo 8 e l’articolo 19 della stessa. Emblematico di tale differenza di significato è

attualmente prevede che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a € 206.” Sul punto la Corte rileva a contrario che ciò di cui si vuole sostenere l’inesistenza è invece affermato esistente proprio dal capo di imputazione formulato nei confronti dell’imputato. Il collegamento infatti appare manifesto proprio considerando un elemento fondante la fattispecie dell’articolo 650 c.p.: cioè che il provvedimento sia legalmente dato. La legalità del provvedimento, secondo un’opinione condivisa, è da intendersi sia dal punto di vista formale: il provvedimento, cioè deve essere adottato dall’autorità competente nel rispetto delle prescritte formalità; sia dal punto di vista sostanziale: esso cioè deve trovare in una o più norme dell’ordinamento giuridico il proprio fondamento di legittimità e con riferimento al caso di specie tali norme sono appunto i citati articoli 3 della legge n.1159 del 1929 e 1-2 del R.D. n.289 del 1930. Dunque il collegamento fra la fattispecie incriminatrice dell’articolo 650 c.p e tali disposizioni esiste, infatti attraverso la messa in discussione della compatibilità costituzionale di tali norme si giunge anche a mettere in dubbio la legalità del provvedimento che in esse trova il proprio titolo di legittimità e, conseguentemente, il fondamento dell’imputazione stessa. Quindi la Corte ritiene fondata la questione di legittimità costituzionale sulle norme della legge n.1159 del 1929 e del R.D.n.289 del 1930 per contrasto con gli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione. Dunque la fattispecie penale prevista dall’articolo 650 c.p. non è oggetto del vaglio della Corte, mentre lo sono le norme da cui origina il provvedimento trasgredito alle quali “si deve necessariamente risalire”.

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anche il profilo per così dire “fisico”, cioè della collocazione di tali disposizioni, poiché una si trova tra i “Principi fondamentali” mentre l’altra nel Titolo I della Parte I, relativa ai “Diritti e doveri dei cittadini”, dedicato ai “Rapporti civili” ed in particolare fra le norme che sanciscono i diritti di libertà. La Corte osserva che il costituente nell’articolo 19 sancisce il diritto per “tutti” di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda nonché di esercitarne in privato o in pubblico il culto con l’unico limite dei “riti contrari al buon costume”. Quindi asserisce: “la formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri” ma, al tempo stesso, al pari di un riconoscimento così generale e dal più ampio respiro possibile di tale libertà, il legislatore costituente non ha tuttavia omesso di avere riguardo delle confessioni religiose “anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato: il che ha fatto nell’articolo 8” della Costituzione dove, dopo aver sancito al primo comma il principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge, riconosce proprio al successivo secondo comma il diritto delle confessioni

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religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti ponendo un unico limite, naturalmente conseguente, ossia che essi non contrastino con l’ordinamento giuridico dello Stato; stabilendo infine al terzo comma la possibilità per le stesse di regolare i loro rapporti con lo Stato per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. In proposito precisa la Corte che si tratta proprio di una facoltà e non di un obbligo in quanto la disciplina di tali rapporti è rivolta essenzialmente a garantire il riconoscimento di effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre ad altre agevolazioni. Dunque non si può escludere il caso di una confessione religiosa che non intenda dare una regolamentazione giuridica ai propri rapporti con lo Stato evidentemente rinunciando a tutto ciò che da essa deriva limitandosi alla libera professione della fede ed al libero esercizio del culto garantiti dalla Costituzione; così come non può escludersi, più concretamente, l’ipotesi di rapporti che si intenda ma, per un qualunque motivo, non si riesca a disciplinare, “il che, del pari, non può escludere che, al di fuori e prima di quella concreta disciplina di rapporti, l’esercizio della fede religiosa possa aver luogo liberamente, secondo i dettami della Costituzione.” Si giunge pertanto alla naturale considerazione che, se tale facoltà viene poi effettivamente esercitata, dalla regolamentazione che ne scaturisce non si otterranno solamente vantaggi e benefici ma si dovranno

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necessariamente sopportare anche i limiti, ad essi logicamente connessi, che lo Stato impone; i quali tuttavia non dovranno, ovviamente, essere tali da violare i diritti garantiti dalla Costituzione. Come si può comprendere, dunque, nell’ambito di tale giudizio di costituzionalità la questione da affrontare e risolvere, che la Corte pone come centrale individuandola come “il fondamento della decisione”, è anzitutto la distinzione fra la libertà di esercizio del culto, e nello specifico dei culti acattolici, come momento di espressione della fede e l’organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato. Ribadisce infatti il giudice delle leggi che “è pienamente legittimo pertanto, e rispondente allo spirito della Costituzione, che allorquando agli atti dei ministri di culti acattolici e all’apertura dei templi od oratori debbansi riconoscere effetti giuridici, come, ad esempio, rispettivamente, la efficacia del matrimonio e la facoltà di far collette all’interno e all’ingresso degli edifici destinati al culto, la nomina dei ministri di culto e la istituzione di templi od oratori, a questi effetti e solo a questi effetti, ricadano sotto la ricognizione e il controllo dello Stato,” e aggiunge, con riferimento al caso in esame, “mercé i provvedimenti di approvazione e di autorizzazione.”. Quindi complessivamente la Corte già dal 1958 individua il punto di partenza per ogni riflessione in materia e cioè la distinzione riguardante, da una parte, la libertà religiosa riconosciuta e garantita dalla Carta fondamentale nella

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accezione più ampia possibile, ricomprendente il diritto di professare liberamente la fede in qualunque forma, di farne propaganda e di esercitarne sia in privato che in pubblico il culto, cioè di porre in essere quell’insieme di atti, di pratiche e di riti che di tale libertà sono momento essenziale di manifestazione e, dall’altra, il profilo organizzativo delle varie confessioni alle quali è riconosciuto, sempre dalla Carta fondamentale, il diritto di organizzarsi secondo propri statuti in quanto ovviamente non contrastino con l’ordinamento giuridico interno nonché la facoltà di dar vita ad una regolamentazione negoziale dei propri rapporti con lo Stato. Questi aspetti dunque devono essere tenuti distinti.