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Capitolo II. La giurisprudenza della Corte costituzionale

1.3. La sentenza n.346 del 2002

Anche in una successiva sentenza, la n. 346 del 2002, la Corte, nel pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sull’articolo 1 della legge regionale 9 maggio 1992 n. 20, recante “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”, in riferimento agli articoli 8 comma 1° e 19 della Costituzione, decide richiamandosi ai suoi precedenti in materia, ed in particolare proprio alla sentenza n. 195 del 1993. Anche in questo caso, come nella vicenda che sta alla base della pronuncia n. 195 del

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1993, si ha una confessione,la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, che instaura un procedimento innanzi ad un Tribunale Amministrativo Regionale, nella specie per la Lombardia, al fine di ottenere l’annullamento di un provvedimento che, nel caso in esame era stato adottato il 17 agosto 1995 dal Comune di Cremona, con il quale l’amministrazione aveva negato alla anzidetta confessione l’accesso ai contributi previsti dalla citata legge regionale n. 20 del 1992. Il Tribunale investito, aveva così sollevato con ordinanza questione di legittimità sull’articolo 1 della legge, in riferimento agli articoli 8 comma 1° e 19 della Costituzione, nella parte in cui tale articolo condiziona l’assegnazione dei contributi per la realizzazione di attrezzature destinate a servizi religiosi all’aver, la confessione interessata, fatto istanza al fine di regolamentare i propri rapporti con lo Stato per legge sulla base di una intesa ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione e all’averla ottenuta. Proprio in riferimento alla sopra indicata sentenza n.195 del 1993, il giudice a quo ricorda come la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova aveva, nel fare istanza al Comune di Cremona, fatto richiamo al principio affermato dalla Corte in quella pronuncia, con la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma analoga della legge regionale Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29, secondo il quale la concessione dei contributi pubblici non può essere

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condizionata dalle leggi regionali alla circostanza che le confessioni religiose che ne facciano richiesta abbiano provveduto a dare corso ad una disciplina dei loro rapporti con lo Stato tramite intese ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione. In risposta l’amministrazione comunale aveva adottato un provvedimento di diniego sul presupposto che il principio affermato dalla Corte in quella sentenza, avente ad oggetto la legge della Regione Abruzzo n. 29 del 1988, in mancanza di un’espressa sanzione da parte della Corte stessa non potesse applicarsi alla legge regionale lombarda rilevante in questo caso. Al tempo stesso il remittente esclude di poter disapplicare egli stesso, come la ricorrente richiedeva, norme di legge vigenti per motivi di giustizia sostanziale o di economia processuale anche se palesemente in contrasto con i principi ed i valori costituzionali, contrasto peraltro reso chiaro anche dalla già intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di disposizioni simili a quelle da applicare nel giudizio innanzi a lui pendente, in virtù della circostanza che l’ordinamento riserva ad un organo giurisdizionale diverso, ed a ciò specificamente preposto, tale funzione: la Corte costituzionale la quale a norma degli articoli 134 e 137 della Costituzione, dell’articolo 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 n.1 e dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953 n.87 ha il potere di dichiarare l’illegittimità costituzionale in via consequenziale anche di norme simili,

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esecutive, confermative, applicative o ripetitive. Né rileva la circostanza che la ricorrente invochi a sostegno della propria pretesa il dato di fatto che altri Comuni della Regione Lombardia le abbiano invece concesso i contributi disapplicando la censurata disposizione della legge regionale in quanto nel caso in esame non potrebbe configurarsi una situazione di illegittimità del contestato provvedimento per contrasto con precedenti provvedimenti poiché comunque si tratta di atti emanati da amministrazioni diverse. Complessivamente, ad avviso dell’autorità remittente, la questione è rilevante in quanto il procedimento innanzi a lei promosso, vertendo sulla sussistenza del diritto soggettivo della parte ricorrente alla concessione dei contributi pubblici per l’edilizia di culto, non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione del dubbio di costituzionalità che grava sull’articolo 1 della legge regionale n. 20 del 1992 direttamente applicabile alla fattispecie in questione; nonché non manifestamente infondata e ciò si ricaverebbe immediatamente proprio dalle affermazioni di principio svolte dalla Corte nella citata sentenza n.195 del 1993. La Corte ritiene la questione fondata ed argomenta alla luce della suddetta pronuncia ribadendo che un qualunque “intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri che trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed

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armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i sevizi religiosi” e ha la finalità e l’effetto di agevolare “le attività di culto, che rappresentano un’estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa” non può assolutamente discriminare nell’applicazione della disciplina fra le diverse confessioni le quali, pur avendone gli altri requisiti, non possano accedervi in base al loro status, ossia alla circostanza che abbiano o meno regolamentato i loro rapporti con lo Stato per legge sulla base di un’intesa. La Corte da questo punto di vista richiama un altro principio costantemente affermato, a partire dalla sentenza n.59 del 1958, ossia quello secondo il quale essendo l’istituzione di tali rapporti diretta a garantire il riconoscimento di effetti civili agli atti dei ministri del culto, nonché altre agevolazioni di vario genere, “riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo”; pertanto afferma “ Le intese di cui all’art. 8, terzo comma, sono infatti lo strumento previsto dalla Costituzione per la regolazione dei rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere, invece, una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal

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secondo comma dello stesso art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose”. Al riguardo la Corte ricorda inoltre, così enfatizzando il profilo della facoltatività della stipulazione, che sul piano normativo il raggiungimento di tali intese è rimesso, non soltanto, all’iniziativa delle confessioni interessate che, in piena libertà, potrebbero anche decidere di non voler procedere ad una simile regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato avvalendosi semplicemente del generale regime di libertà e delle comuni regole poste dalle leggi; ma anche alla concorde volontà del Governo, il quale, afferma la Corte in questa pronuncia del 1993, “non è vincolato oggi” a norme specifiche per quel che concerne l’obbligo, a seguito dell’istanza della confessione, di procedere all’avvio delle trattative e stipulare l’intesa nonché del Parlamento che, una volta raggiunta l’intesa, la recepisce in una legge che costituisce la fonte giuridica di disciplina di tali rapporti all’interno dell’ordinamento. La Corte poi riafferma la vigenza ed il rilevo del fondamentale principio di eguaglianza sancito in generale dall’articolo 3 della Costituzione ed in particolare, per quanto nello specifico concerne la materia della libertà religiosa, dall’articolo 8 comma 1°. Tale principio esprime in generale il divieto di discriminare: infatti, in caso contrario, ossia operando delle distinzioni, nel caso specifico fra confessioni religiose, “ne risulterebbe” afferma la Corte “violata anche l’eguaglianza dei

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singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario” sulla quale, l’effettiva possibilità per le varie confessioni di accedere al regime dei contributi pubblici previsti dalle leggi regionali quale quella in esame, esercita “una evidente, ancorché indiretta influenza”. E’ evidente, dunque, che interventi dei poteri pubblici come quello in questione incidono positivamente sulla garanzia costituzionale sancita dall’articolo 19 della Carta nella ampiezza della sua formulazione ed in particolare su uno dei termini attraverso i quali essa si esprime ossia l’esercizio, nella specie, “in pubblico” del culto. Infine la Corte, come in altre pronunce nonché nella sentenza n.63 del 2016 oggetto di questo studio, affronta l’annoso problema della qualificazione di un insieme di persone come “confessione religiosa” asserendo che, stante la mancanza all’interno dell’ordinamento di criteri legali che con sufficiente precisione stabiliscano quando un gruppo sociale possa definirsi “confessione religiosa”, non è possibile che l’intesa valga come elemento oggettivo di qualificazione delle associazioni istanti, funzionale a sceverare le confessioni da altri fenomeni di aggregazione ed organizzazione sociale al fine dell’ammissione al regime dei benefici e delle agevolazioni per l’edilizia di culto. Afferma la Corte che “è bensì vero che siffatto problema di

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qualificazione si pone sia in sede di applicazione dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, ai fini di identificare i soggetti che possono chiedere di stipulare le intese, sia in sede di applicazione, amministrativa o giurisprudenziale, di ogni altra norma che abbia come destinatarie le confessioni religiose” ma ciò non può voler dire “che si possa confondere tale problema qualificatorio ” che, tra l’altro, può essere di più o meno agevole risoluzione, “con un requisito, quello della stipulazione di intese, che presuppone bensì la qualità di confessione religiosa, ma non si identifica con essa.”. Quindi in definitiva possono valere diversi criteri che nell’esperienza giuridica hanno trovato applicazione per distinguere la confessione religiosa da altre associazioni di persone come ad esempio quello del riconoscimento, pur in assenza di intesa; mentre dal lato pratico, vale il criterio secondo il quale l’ammissione al regime dei contributi ed alle altre agevolazioni per l’edilizia di culto previste dalle leggi regionali riguarda solamente le confessioni che a norma dell’articolo 1 della legge regionale n.20 del 1992 “abbiano una presenza organizzata nell’ambito dei comuni ove potranno essere realizzati gli interventi previsti” dalla legge medesima ed alla condizione che tali benefici economici siano destinati solo alla realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi definite all’articolo 2 della suddetta legge.

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