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Capitolo II. La giurisprudenza della Corte costituzionale

2.1. La sentenza n.67 del 2017

Come è accaduto per la per la legge della Regione Lombardia n.2 del 2015 anche la legge della Regione Veneto n.12 del 2016 è stata impugnata dal Governo innanzi alla Corte costituzionale. Questa legge è stata emanata a pochi giorni di distanza, il 12 aprile, dalla pronuncia della sentenza n.63 del 2016 oggetto di questo studio, avvenuta il 24 marzo, ed il Governo non ha tardato ad impugnarla: ha infatti sollevato questione di legittimità costituzionale sull’articolo 2 della legge, la quale reca “Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n.11 recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive

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modificazioni”, che ha introdotto nel Titolo III della stessa, rubricato “Aree per servizi e vincoli”, gli articoli 31-bis e 31-ter, con ricorso notificato il 14-17 giugno 2016, depositato in cancelleria il 21 giugno 2016 ed iscritto al n.32 del registro ricorsi 2016. Il ricorrente ritiene che la normativa sia in contrasto con gli articoli 2, 3, 8 , 19 e 117 comma 2° lettere c) e h) della Costituzione; in particolare ritiene che l’articolo 31-bis comma 1°, introdotto dalla censurata disposizione, violi gli articoli 3, 8 e 19 della Costituzione in quanto attribuisce alla Regione ed ai Comuni del Veneto, “ciascuno nell’esercizio delle rispettive competenze”, il compito di individuare “i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione, e delle altre confessioni religiose.”. Come più sopra detto, il legislatore veneto, dimostra in proposito, di aver recepito quanto stabilito sul punto dalla Corte costituzionale con la sentenza n.63, in quanto non condiziona l’accesso alla disciplina per le confessioni prive di intesa con lo Stato, alla dimostrazione da parte delle stesse di essere in possesso di determinati requisiti13, ma le parifica alle confessioni munite di intesa con lo

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Stato. Tuttavia il ricorrente asserisce che l’articolo, riservando alla Regione ed ai Comuni, il compito di individuare, secondo una formula da lui ritenuta generica ed ambigua, “i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, aprirebbe comunque la porta alla possibilità di operare discrezionalmente, rimettendo a valutazioni del tutto libere l’applicazione della disciplina, potendo dunque determinare, di fatto, regimi differenziati fra le diverse confessioni religiose in base alla circostanza che esse abbiano o non abbiano provveduto a dare una regolamentazione convenzionale ai loro rapporti con lo Stato tramite intese; così pregiudicando l’effettività della garanzia costituzionale dell’eguale libertà religiosa di tutte le confessioni, di cui agli articoli 3, 8 e 19 della Costituzione. La Corte, richiamandosi ai principi da lei costantemente affermati in materia, ha ritenuto la questione non fondata. In particolare mette in evidenza che il censurato articolo 31-bis comma 1° nel riconoscere alla Regione ed ai Comuni il compito di individuare “i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, non opera distinzioni fra le differenti confessioni, ma

incostituzionalità, l’articolo 70 comma 2-bis della legge regionale n.12 del 2005, come modificata dalla legge n.2 del 2015, il quale stabiliva che la disciplina in materia di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi si applicasse anche “agli enti delle altre confessioni religiose che”, però, presentassero determinati “requisiti”, delineando quindi per queste ultime un regime differenziato rispetto alle confessioni munite di intesa con lo Stato.

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riferisce espressamente l’individuazione dei suddetti criteri e delle suddette modalità, da parte della Regione e dei Comuni, a tutte le diverse possibili forme confessionali, in quanto indica esplicitamente gli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica,” “le confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione,” e “le altre confessioni religiose”. Quindi esso, nell’accesso alla disciplina per la pianificazione e la realizzazione di nuove strutture destinate al culto, non introduce alcun regime differenziato fra confessioni con intesa e confessioni senza intesa. E’ quindi palese, stando al tenore letterale della norma, che la censurata disposizione non si pone assolutamente in contrasto con i principi che la giurisprudenza costituzionale ha sancito nel tempo, tra i quali quello cardinale della materia che si sviluppa a partire dalla distinzione centrale, e la racchiude in sé, che la Corte già dalla sentenza n.59 del 1958 individuava come “il fondamento della decisione”, “da cui si snodano tutte le conseguenze”, fra la libertà religiosa, di cui quella di culto costituisce uno dei termini essenziali di espressione, nell’ampia formulazione riservatale dall’articolo 19 della Carta fondamentale, e la dimensione organizzativa; ossia il diritto, riconosciuto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, di organizzarsi secondo propri statuti ai sensi dell’articolo 8 comma 2°, purché questi non

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contrastino con l’ordinamento giuridico italiano e la facoltà loro riconosciuta dal successivo comma 3° del medesimo articolo, di regolamentare i propri rapporti con lo Stato “per legge sulla base di intese”. Se ne ricava quindi che i due aspetti devono essere tenuti distinti, e che, avendo la possibile istituzione di tali rapporti “carattere di facoltà e non di obbligo” (sentenza n.59 del 1958), l’esercizio della libertà religiosa non può assolutamente essere condizionato alla stipulazione di accordi o intese con lo Stato. Principio ribadito da ultimo anche nelle recenti sentenze n.52 e n.63 del 2016. Ricorda inoltre la Corte che l’ordinamento repubblicano è ispirato al principio supremo di laicità, uno dei principi che concorrono a delineare la forma di Stato concepita nella Carta costituzionale, che come più volte chiarito, alla luce dell’accezione da lei plasmata attraverso le sentenze n.440 del 1995, n.329 del 1997, n.508 del 2000, “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (sentenza n.203 del 1989). Quindi, quando si tratta di disciplinare la pianificazione urbanistica e la realizzazione degli edifici di culto, “l’intervento dei pubblici poteri deve uniformarsi” a tale principio, in quanto la loro esecuzione garantisce effettivamente la libertà di religione sancita all’articolo 19 della Costituzione, la rende concretamente possibile (sentenza n.195 del 1993). La Corte riafferma dunque tale

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principio non come espressione di un disinteresse dello Stato verso l’esperienza religiosa della persona, ma come garanzia del pluralismo e da questo punto di vista, citando la sentenza n.334 del 1996, afferma che è compito della Repubblica “garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione”, la quale “rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2” della Costituzione. Ciò precisato, afferma che comunque la facoltà delle confessioni di regolamentare i propri rapporti con lo Stato non è esclusa, ma deve rimanere ferma la distinzione di cui sopra, per la quale è ben possibile che lo Stato e le confessioni diano vita ad una disciplina pattizia dei propri rapporti, e dunque differenziata, in ragione delle peculiarità delle singole confessioni attraverso la quale soddisfare “esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose” (sentenza n.235 del 1997), oppure “concedere loro particolari vantaggi o eventualmente imporre loro particolari limitazioni” (sentenza n.59 del 1958) oppure ancora “dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa” (sentenza n.52 del 2016); ma “al di fuori e prima di quella concreta disciplina di rapporti, l’esercizio della fede religiosa” deve “aver luogo liberamente, secondo i dettami della Costituzione” (sentenza n.59 del 1958). Da tutto ciò discende, un altro principio fondamentale, ossia quello

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secondo il quale “il legislatore”, tanto quello nazionale quanto quello regionale, “non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese” e si ribadisce che essendo la stipula di intese con lo Stato una facoltà riconosciuta dall’articolo 8 comma 3° della Costituzione alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, esse “non possono essere considerate condizione imposta dai pubblici poteri per consentire” alle stesse “di avere libertà di organizzazione e di azione”. Anche questi principi sono stati nuovamente affermati dalla Corte nelle recenti sentenze n.52 e n.63 del 2016. La Corte nel merito ritiene che “nella disposizione oggetto del presente giudizio, non si rinvengono elementi che giustifichino una interpretazione tale da consentire alla Regione e ai Comuni di realizzare la pianificazione di attrezzature religiose secondo criteri e modalità discriminatori in ragione della presenza o meno dell’intesa tra la confessione religiosa interessata e lo Stato”. Tuttavia, ribadendo un concetto affermato proprio nella sentenza n.63 del 2016, la Corte precisa che comunque “ciò non esclude la possibilità che le autorità competenti operino ragionevoli differenziazioni”: infatti “l’eguale libertà delle confessioni religiose di organizzarsi e di operare non implica che a tutte debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi

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disponibili”, ma, “come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.”. Conclude quindi la Corte sul punto, che eventuali violazioni dei principi costituzionali, che il ricorrente pretende lesi dalla disposizione in esame, non scaturiscono dalla previsione in sé, bensì da illegittime applicazioni che della stessa si possano fare, le quali potranno essere sanzionate, di volta in volta, nelle sedi a ciò deputate. Ad avviso del ricorrente, la violazione dei principi costituzionali in materia di libertà religiosa sarebbe, inoltre, operata anche dall’articolo 31-ter, in particolare dal comma 3°, secondo periodo della disposizione. Tale previsione, concernente “Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, disciplina gli interventi di urbanizzazione garantiti dallo strumento urbanistico comunale per le aree e per gli immobili da destinarsi alla realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi. Nello specifico la disposizione del comma 3° al primo periodo prevede che il soggetto richiedente l’esecuzione della struttura, al fine della realizzazione della stessa, nonché a garanzia dell’adempimento degli impegni previsti al comma 1°,

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cioè le opere di urbanizzazione prescritte “al fine di assicurare una adeguata qualità urbana”, (in quanto se assenti o inadeguate sono poste, nella loro esecuzione o nel loro adeguamento, a carico dei richiedenti) deve sottoscrivere con il Comune “una convenzione contenente anche un impegno fideiussorio adeguato a copertura degli impegni assunti”. Al secondo periodo prevede, invece, che “Nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto.”. Proprio su tale secondo periodo del comma 3° il ricorrente solleva il dubbio di costituzionalità, in quanto ritiene che tale previsione sia ultronea rispetto alla finalità propriamente e tipicamente urbanistica della convenzione. Essa infatti verrebbe a realizzare un’incidenza sull’esercizio della libertà di culto, che, a suo giudizio, non si esaurisce nella celebrazione dei riti, e nello svolgimento degli atti della fede, ma comprende in sé anche attività diverse, ad essa correlate, come quelle ricreative, aggregative, culturali, sociali ed educative; tutte attività nelle quali la libertà religiosa comunque si esprime, “nell’ambito delle quali”, afferma il ricorrente, essa “trova la sua pienezza di espressione”. Da questo punto di vista, il ricorrente ritiene che simile previsione contrasti con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione, in quanto

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riconoscendo all’amministrazione la facoltà di stabilire fra i requisiti per la stipula della convenzione, quello dell’impegno da parte del richiedente “ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi,” anche se, non “strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”, viene ad incidere sulla libertà religiosa, condizione essenziale della quale, come previsto nell’ampia formulazione riservatale dall’articolo 19 della Costituzione, è la libertà “di esercitarne in privato o in pubblico il culto” e, nella specie, l’esercizio pubblico dello stesso, il quale è effettivamente garantito se si consente a tutte le confessioni religiose l’accesso alla disciplina dettata in materia di edilizia di culto, consentendo la partecipazione al riparto degli spazi disponibili e dei contributi previsti, potendo così realizzare un edificio nel quale esercitare il culto ma anche tutte le altre “attività collaterali” comunque ricomprese in tale libertà. Il luogo di culto non è, cioè, solamente un luogo deputato alla professione della fede attraverso gli atti e le ritualità che le sono proprie, ma è anche il luogo di aggregazione di una comunità, il cuore degli interessi sociali e culturali della stessa che, pure, sono diretta espressione della libertà religiosa. La disposizione dell’articolo 31-ter comma 3° secondo periodo è tuttavia censurata dal ricorrente anche per la violazione dell’articolo 117 comma 2° lettere c) e h). In particolare egli ritiene che tale previsione sia ultronea rispetto

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alla finalità propriamente e tipicamente urbanistica della convenzione. La convenzione infatti, a suo giudizio, deve essere ispirata alla stessa ratio di fondo che sta alla base dell’intervento generale dei pubblici poteri “che trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica - nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi” anche, dunque, nella realizzazione di attrezzature destinate a “servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione,” ricomprendente quindi anche quelli religiosi (sentenza n.195 del 1993). Quindi, da questo punto di vista, e proprio a tal fine, essa dovrebbe essere rivolta essenzialmente a consentire la previsione concordata con il Comune interessato degli adempimenti strettamente finalizzati al rilascio delle autorizzazioni urbanistiche occorrenti. Egli afferma, quindi, che attraverso tale previsione la Regione esorbiti dalle proprie competenze, entrando in un ambito, quello dei “rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose”, che la Costituzione riserva alla disciplina legislativa esclusiva dello Stato ai sensi della lettera c) dell’articolo 117 comma 2°. Inoltre la disposizione, perseguendo finalità di controllo delle modalità attraverso le quali è concretamente svolta l’attività culturale e sociale all’interno delle attrezzature di culto, per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, determinerebbe un eccesso di competenza anche nella materia “ordine pubblico e sicurezza”,

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anch’essa costituzionalmente attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117 comma 2° lettera h).14 La Corte ha ritenuto le questioni fondate affermando che la censurata disposizione dell’articolo 31-ter attiene alla materia del “governo del territorio” annoverata dall’articolo 117 comma 3° tra le materie di legislazione concorrente, in quanto ha ad oggetto la pianificazione urbanistica e la realizzazione di attrezzature destinate a servizi religiosi. Ciò risulta indubbiamente, ad avviso della Corte, da molteplici profili normativi: anzitutto da un punto di vista di inquadramento, la disposizione è inserita nel corpo della legge urbanistica della Regione Veneto, la legge n.11 del 2004; in secondo luogo la rubrica della norma reca “Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi” ed infine il contenuto della stessa prescrive che “al fine di assicurare una adeguata qualità urbana” lo strumento urbanistico comunale garantisce una serie di dotazioni di in equivoca natura urbanistica, tra le quali: la presenza di strade di collegamento, di opere di urbanizzazione primaria, adeguata distanza fra i vari edifici di culto facenti capo alle diverse confessioni e spazi da destinare a parcheggio. La Corte chiarisce quindi, alla luce di quanto già in precedenza nella sentenza n.195 del 1993 aveva

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Si tratta di un ambito nel quale è consentito alle Regioni solo un ruolo di cooperazione comunque sottoposto alla disciplina esclusiva della legge statale ai sensi dell’articolo 118 comma 3° della Costituzione.

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affermato, e ribadito poi nella sentenza n.63 del 2016, che la convenzione di cui al comma 3° dell’articolo 31-ter, necessaria nella fase dell’applicazione della normativa per la realizzazione di attrezzature di culto, deve porsi nella stessa finalità che ispira ogni “intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri” che è quella, “propria della materia urbanistica”, “di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi”. E’ pertanto evidente che, essendo questa la delimitazione finalistica della normativa in esame, la previsione del secondo periodo del comma 3° dell’articolo 31-ter, la quale attribuisce all’amministrazione la facoltà di esigere tra i requisiti per la stipulazione della convenzione suddetta la previsione da parte del richiedente di un “impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto” risulta palesemente irragionevole in quanto inadeguata, sia rispetto alla finalità perseguita dalla normativa regionale in generale che delinea la disciplina per il governo del territorio ed in materia di paesaggio, sia rispetto alla finalità perseguita dalla singola disposizione dell’articolo 31-ter comma 3° secondo periodo in particolare, la quale delinea la disciplina per la realizzazione e la pianificazione

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delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi. Afferma in definitiva la Corte, ribadendo quanto affermato anche nella recente sentenza n.63 del 2016, che, essendo il “governo del territorio” materia di competenza concorrente ai sensi dell’articolo 117 comma 3° della Costituzione, “non v’è dubbio che la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure”, ma soltanto in questi limiti e “nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende anche i servizi religiosi” (sentenza n.195 del 1993), la legislazione regionale in materia di edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze della Regione; viceversa essa “eccede da un ragionevole esercizio di tali competenze se, nell’intervenire per la tutela di interessi urbanistici, introduce un obbligo, quale quello dell’impiego della lingua italiana, del tutto eccentrico rispetto a tali interessi.” Considera inoltre la Corte, alla luce della recente sentenza n.42 del 2017, nella quale è messa in rilievo l’importanza della lingua come “elemento di

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identità individuale e collettiva”, nonché “veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana”, che appare, anche da questo punto di vista, palese il vizio della censurata disposizione regionale dell’articolo 31-ter comma 3° secondo periodo. La stessa argomenta che, all’atto pratico della applicazione della norma, non prevedendo la fattispecie in essa contemplata altre libertà di pari tenore costituzionale rientranti nelle attribuzioni regionali, rispetto alle quali potrebbero porsi esigenze di contemperamento secondo i canoni, propri di tale giudizio, di stretta strumentalità e proporzionalità, essa inciderebbe in modo molto penetrante sui diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale quale è quello della libertà di professione religiosa, della quale è aspetto essenziale la libertà di culto, che come più sopra detto, non si esaurisce nelle sole pratiche rituali in senso stretto ma ricomprende anche altre attività ad essa collaterali, quali quelle ricreative, aggregative, culturali, sociali ed educative, le quali pure vengono svolte all’interno dei luoghi di culto e sono anch’esse “espressione diretta della libertà di religione”.

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