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Capitolo II. La giurisprudenza della Corte costituzionale

1.4. La sentenza n.52 del 2016

Proprio sul tema della qualificazione di un’organizzazione di persone come “confessione religiosa” nonché sul profilo della facoltatività della stipulazione delle intese prevista nel nostro ordinamento vi è un’ulteriore sentenza recente della Corte, dello stesso anno della pronuncia n.63 oggetto di questo studio: la n.52 del 2016. In riferimento a tale pronuncia il giudice delle leggi, in realtà, non è invocato al fine di sciogliere dubbi sulla costituzionalità di una o più norme di legge regionale che subordinino l’accesso al regime dei contributi pubblici ed al riparto di aree necessarie per poter realizzare un edificio di culto alla condizione che la confessione istante abbia regolamentato i propri rapporti con lo Stato attraverso l’intesa o, come nel caso dell’articolo 70 comma 2-bis della legge regionale della Lombardia n.12 del 2005 come modificato dall’articolo 1 comma 1° lettera b) della legge n.2 del 2015, che essa presenti determinati requisiti; ma è chiamato a risolvere un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti della Corte di cassazione a seguito della sentenza n.16305 delle sezioni unite civili della medesima resa il 28 giugno del 2013. Con questa sentenza la Suprema Corte adita, aveva respinto il ricorso, promosso dallo stesso Presidente del Consiglio, per motivi attinenti alla giurisdizione, avverso la sentenza n.6083 del Consiglio di Stato,

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sezione 4^, emanata il 18 novembre 2011. Con questa sentenza il Consiglio di Stato riformava la decisione del giudice di primo grado, il T.A.R. Lazio sezione 1^, che con sentenza n. 12539 del 31 dicembre 2008 aveva dichiarato inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso proposto dall’U.A.A.R.3contro la deliberazione del Consiglio dei Ministri del 27 novembre 2003, con la quale recependo il parere dell’Avvocatura generale dello Stato, esso aveva deciso di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa con la stessa ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione sul presupposto che la professione di ateismo non potesse essere assimilata ad una confessione religiosa. Il giudice di primo grado, dunque, respingeva tale ricorso per difetto assoluto di giurisdizione ritenendo che la determinazione impugnata avesse natura di atto politico “non giustiziabile” ai sensi dell’articolo 31 del R.D. 26 giugno 1924, n.1054 recante “Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato”, oggi articolo 7, comma 1°, ultimo periodo, del d.lgs. 2 luglio 2010, n.104 denominato “Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n.69

3 L’U.A.A.R., Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, è una

associazione filosofica non riconosciuta a carattere non confessionale di promozione sociale costituita con atto notarile il 18 marzo 1991. E’ stata costituita informalmente nel 1987 e da quel momento svolge attività ed iniziative finalizzate a promuovere la non confessionalità dello Stato e delle sue istituzioni e la diffusione delle idee atee e agnostiche. Sostiene il principio della laicità dello Stato e si adopera affinché esso trovi piena realizzazione all’interno dell’ordinamento, si batte per l'abolizione dei privilegi previsti in favore della religione cattolica nella società e nella scuola, in particolare, e per il superamento dell'art. 7 della Costituzione che costituisce la fonte della diversa disciplina riservata dallo Stato alla Chiesa Cattolica.

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recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo”4

. Riformando tale decisione il Consiglio di Stato affermava la giurisdizione del giudice amministrativo sul presupposto che la scelta relativa all’avvio delle trattative avesse, non carattere politico, bensì i crismi propri della discrezionalità amministrativa, la quale fonda le proprie determinazioni sulla valutazione degli interessi coinvolti nei singoli casi di specie e sul loro contemperamento; e nel caso in esame gli interessi rilevanti erano, da una parte, quello dell’associazione richiedente a raggiungere l’intesa e, dall’altra, l’interesse superiore dello Stato a vagliare i soggetti con i quali avviare l’iter procedurale finalizzato alla stessa 5

. Conseguentemente le parti venivano rimesse innanzi al primo giudice6. Le sezioni unite della Corte di cassazione ponendo in relazione l’articolo 8 comma 1° che sancisce il principio della

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Articolo 7 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104: “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.”.

5 Secondo il Consiglio di Stato l’accertamento circa la riconduzione

dell’associazione istante alla categoria delle confessioni religiose non sarebbe insindacabile e, laddove si pervenisse ad un giudizio di qualificazione della richiedente come confessione, l’avvio delle trattative sarebbe obbligatorio, ferma restando comunque la facoltà del Governo, poi, di non stipulare l’intesa al termine delle trattative ovvero di non tradurla in legge.

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Il T.A.R. Lazio, sezione prima, con sentenza 3 luglio 2014 n. 7068 respinge nel merito il ricorso dell’U.A.A.R., escludendo che la valutazione operata dal Governo relativamente al carattere non confessionale dell’Associazione ricorrente sia manifestamente inattendibile o implausibile in quanto è, a contrario, conforme a ciò che comunemente si intende per religione.

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eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge con il comma 3° del medesimo che individua nell’intesa il possibile strumento di regolamentazione dei rapporti delle confessioni diverse dalla cattolica con lo Stato, ritenevano che la stipulazione dell’intesa, oltre a dare una disciplina giuridica ai suddetti rapporti, svolgesse anche una funzione sul piano dell’ attuazione del principio di eguaglianza fra le confessioni, cioè fosse il mezzo attraverso il quale tale principio potesse trovare una più compiuta realizzazione. E’ per questo motivo dunque che esse ritenevano che l’idoneità di una confessione a concludere intese con lo Stato non potesse essere rimessa totalmente al potere decisionale del Governo in quanto altrimenti risulterebbe pregiudicata l’effettività della garanzia sancita dall’articolo 8 comma 1° della Costituzione. Peraltro le sezioni unite, pur non ritenendolo un argomento decisivo, osservavano che le intese si stanno ormai atteggiando da tempo sempre più come normative “per adesione” conformandosi a modelli predefiniti; da questo punto di vista quindi il Governo avrebbe l’obbligo giuridico di iniziare le trattative ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione per la semplice circostanza che una qualunque organizzazione lo richieda, indipendentemente dalle successive evenienze che possano occorrere nel proseguimento della procedura. Il ricorrente chiede al giudice delle leggi che risolva il conflitto statuendo che non spettava alla

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Corte di cassazione affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice comune, e nella specie di quello amministrativo, sulla delibera con la quale il Consiglio dei ministri, in risposta all’istanza dell’U.A.A.R., ha rifiutato di avviare le trattative rivolte alla stipula dell’intesa ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione. La Corte valuta le due distinte tesi sostenute dal ricorrente, Presidente del Consiglio dei ministri, e dalla resistente, la Corte di cassazione. Da un lato il ricorrente sostiene che il diniego opposto dal Governo alla richiesta dell’U.A.A.R. di iniziare le trattative ai fini dell’intesa non possa essere oggetto di vaglio da parte dell’autorità giurisdizionale in quanto altrimenti ne risulterebbero menomate le prerogative ad esso assegnate dagli articoli 8 comma 3° e 95 7 della

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In particolare, peraltro, con riferimento al procedimento per la stipula delle intese ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione, esso individua come parti lo Stato e la confessione richiedente e per essi le “relative rappresentanze”. Lo Stato è rappresentato dal Governo che è attore del procedimento ma nella fase iniziale dello stesso, in cui si svolge in via preliminare la selezione dei soggetti interlocutori e poi si avviano le trattative, è la Presidenza del Consiglio ad assumere autonomo rilievo come stabilito dall’articolo 2 comma 2° lettera e) del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303 (Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n.59) il quale prevede che: “Il Presidente si avvale della Presidenza, in particolare, per l'esercizio, in forma organica e integrata, delle seguenti funzioni: [...] e) i rapporti del Governo con le confessioni religiose, ai sensi degli articoli 7 e 8, ultimo comma, della Costituzione; […]”. Per quanto concerne l’articolo 95 della Costituzione, collocato nel Titolo III “Il Governo”, della Parte II “Ordinamento della Repubblica”, Sezione I dedicata al Consiglio dei ministri, individua al comma 1° le prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri affermando che egli “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri.”; al comma 2° invece delinea il regime della responsabilità dei ministri, i quali “sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri.” stabilendo infine al comma 3° che “La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del

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Costituzione; dall’altra la resistente sostiene invece che debba essere affermata la sussistenza della giurisdizione dei giudici comuni sulla delibera con la quale il Consiglio dei ministri ha negato alla richiedente l’avvio delle trattative, in quanto asserire in capo alle confessioni l’esistenza di una pretesa giuridica all’avvio delle trattative, dunque, come tale, giustiziabile, sarebbe corollario dell’eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose, sancita dall’articolo 8 comma 1° e consentirebbe di impedire il verificarsi di discriminazioni dovute alla totale autonomia decisionale del Governo in materia. Proprio con riguardo alla possibile configurazione di una situazione giuridica soggettiva in capo alle confessioni religiose ad addivenire all’intesa con lo Stato, il ricorrente la critica radicalmente. Egli ritiene che essendo la scelta governativa di dare seguito, all’esito delle trattative, alla stipula dell’intesa esercitando l’iniziativa legislativa per l’approvazione della legge ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione, un atto espressione di opzioni politiche, dunque non suscettibile di sindacato giurisdizionale; parimenti il Governo dovrebbe essere libero già fin dall’inizio del procedimento, ossia già nell’“an” dell’avvio delle trattative. In particolare afferma che il diniego del Governo di iniziare le trattative con la richiedente per la

Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri.”.

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conclusione dell’intesa a norma dell’articolo 8 comma 3° è un atto politico “in quanto espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico, assegnata al Governo ai sensi degli artt. 7, secondo comma,8 8, terzo comma, 94, primo comma,9 e 95, primo comma, Cost..”. Inoltre il ricorrente rafforza le sue osservazioni ricordando che le trattative finalizzate alla stipula delle intese non sono disciplinate dall’ordinamento, pertanto non esiste un parametro od un qualsiasi vincolo normativamente imposto atto a delimitare la discrezionalità dell’esecutivo in materia. In considerazione di quanto sopra esposto quindi il ricorrente ritiene che la pretesa soggettiva sussistente in capo alle confessioni all’apertura delle trattative sia un interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica. A contrario l’interveniente U.A.A.R. afferma la sussistenza di tale pretesa giuridica e dunque, la sua azionabilità in sede giurisdizionale, precisando, con riferimento al profilo della natura politica del procedimento in questione, che il ricorrente asserisce nella sua interezza, dato che afferma che il sub procedimento di intesa, nel quale sono incluse le trattative,

8 L’articolo 7 della Costituzione collocato tra i Principi fondamentali concerne i

rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica. Dopo aver affermato al comma 1° che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.”, al comma 2° stabilisce che “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.” e che “Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.”

9 L’articolo 94 collocato nel Titolo III “Il Governo”, Parte II “Ordinamento della

Repubblica”, Sezione I “Il Consiglio dei ministri” delinea la forma di governo parlamentare consacrando al comma 1° il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.”

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è parte integrante dell’iter di formazione della legge partecipando della natura politica della stessa, che la giurisdizione del giudice comune incontrerebbe il proprio limite al termine delle trattative, quando, raggiunta l’intesa sia esercitata l’iniziativa legislativa. La Corte costituzionale che ha ritenuto il ricorso fondato, ha concepito, ai fini della risoluzione del conflitto, non secondaria la riflessione sulla possibilità o meno di ritenere esistente nell’ordinamento una situazione giuridica soggettiva tutelabile in capo alle confessioni religiose all’avvio delle trattative; tralasciando invece, in quanto aliene all’oggetto del conflitto, considerazioni sugli espletamenti che l’esecutivo pone in essere dopo il raggiungimento dell’intesa e sulle caratteristiche del procedimento ad essa finalizzato comprendente anche l’approvazione della legge di recepimento della stessa. La Corte costituzionale, come detto più sopra, torna anche in questo giudizio a valutare la natura ed il rilievo che nel nostro ordinamento assumono le intese che disciplinano i rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica a norma dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione, affermando che il conflitto in esame non può essere risolto senza riflettere su tale aspetto. Essa, confortata da suoi precedenti in materia, precisa qual è il significato della norma costituzionale dell’articolo 8 comma 3° e, richiamando in particolare la sentenza n.346 del 2002, afferma che esso

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consiste nell’estendere alle confessioni non cattoliche il “metodo della bilateralità” affinché anche esse possano, laddove lo vogliano, strutturare una disciplina dei loro rapporti con lo Stato che tenga in adeguata considerazione le loro particolarità. La Corte chiarisce inoltre che a fronte del manifestarsi nella prassi di un fenomeno di omogeneizzazione dei contenuti delle intese stipulate, il senso dell’intesa deve essere quello sopra precisato, ossia essa deve essere uno strumento di negoziazione con lo Stato delle condizioni alle quali esse possono accedere a determinati vantaggi e possono, per converso, subire limitazioni secondo quanto affermato nella sentenza n.59 del 1958; ovvero alle quali possono essere riconosciuti effetti a specifici atti del culto all’interno dell’ordinamento e quindi nel complesso devono essere mezzi di regolamentazione giuridica dei rapporti con lo Stato concepiti valorizzando le particolarità delle singole confessioni istanti, diverse le une della altre. Cioè l’intesa con lo Stato deve essere volta all’elaborazione di una disciplina dei rapporti avuto riguardo ai singoli ambiti che si ricollegano alle specificità delle singole confessioni. Sull’importanza dell’intesa, ossia della circostanza che l’articolo 8 comma 3° applica anche alle confessioni diverse dalla cattolica il metodo della bilateralità nella regolamentazione dei rapporti con lo Stato, la Corte mette in rilievo come in tal modo il Costituente abbia inteso escludere la possibilità da parte dello Stato di dettare unilateralmente una

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disciplina speciale dei rapporti con la singola confessione religiosa, sul presupposto che essa potesse essere foriera di arbitrarietà e quindi, conseguentemente, potesse produrre discriminazioni. Per questo motivo, dunque, è necessario che i rapporti siano disciplinati “per legge sulla base di intese” (articolo 8 comma 3°), le quali siano finalizzate “a riconoscere le esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose” (sentenza n.235 del 1997). Così specificato il senso dell’intesa, nonché il rilievo della stessa, la Corte ribadisce il concetto centrale della sua giurisprudenza in materia fin dalla sentenza n.59 del 1958 che si fonda sulla distinzione tra la libertà di professione religiosa nell’ampiezza della formulazione che la Costituzione le ha riservato all’articolo 19 ed il profilo dell’organizzazione che le confessioni possono darsi a norma del comma 2° dell’articolo 8, secondo il quale esse “hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”, unitamente alla previsione della facoltà riconosciuta al successivo comma 3° del medesimo articolo, di regolamentare i propri rapporti con lo Stato “per legge sulla base di intese”. Tale concetto, ribadito anche nella sentenza n.346 del 2002, che fonda appunto su questa fondamentale distinzione risaltando il carattere della facoltatività della stipula delle intese, esprime l’intesa non come condizione imposta dai pubblici poteri affinché le confessioni possano

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beneficiare della libertà di organizzazione e di azione o avvalersi di norme di favore loro destinate e in generale possano professare la fede liberamente; ma come una semplice facoltà della confessione la quale può, se intende, farne istanza allo Stato. Afferma difatti la Corte, richiamando quanto in precedenza nella sentenza n. 43 del 1988 aveva già affermato, che: “A prescindere dalla stipulazione di intese, l’eguale libertà di organizzazione e di azione è garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell’art, 8 Cost. e dall’art. 19 Cost., che tutela l’esercizio della libertà religiosa anche in forma associata.”; ricordando poi facendo riferimento alle sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993, che “La giurisprudenza di questa Corte è anzi costante nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese.”. Di conseguenza con riguardo all’argomento prospettato tanto dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, tanto dall’interveniente U.A.A.R., secondo il quale la stipulazione dell’intesa è volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose di cui all’articolo 8 comma 1° della Costituzione, la Corte ritiene che allo stato attuale del diritto positivo tale tesi non sia corretta. La Corte peraltro ricorda che nel nostro ordinamento non esiste una legislazione generale ed organica in

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materia alla cui applicazione possano aspirare soltanto le confessioni che abbiano raggiunto l’intesa con lo Stato e ha inoltre cura di mettere in rilievo che la Costituzione, la quale riconosce e garantisce ampiamente la libertà religiosa agli articoli 19 e 2010, non impone assolutamente la delineazione da parte dello Stato di una normativa che regolamenti il fenomeno religioso nel suo complesso. Successivamente nel ribadire ancora il concetto sopra esposto, con ciò nuovamente esaltando la facoltatività della stipulazione delle intese, fa riferimento ad uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, il principio di laicità dello Stato, affermando che mentre negli altri ordinamenti si hanno o contesti normativi più completi per le associazioni e le confessioni religiose o si hanno situazioni nelle quali l’accesso alla disciplina relativa alle confessioni religiose è condizionato all’aver l’associazione ottenuto quanto meno un riconoscimento pubblico, e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato casi nei quali applicazioni arbitrarie e discriminatorie della disciplina determinano una violazione degli articoli 9 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e

10 L’articolo 20 della Costituzione collocato nella Parte I “Diritti e doveri dei

cittadini”, Titolo I “Rapporti civili” insieme agli articoli 7, 8 e 19 costituisce il corpus di norme che la Costituzione dedica alla libertà religiosa. Prevede che: “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.”

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delle libertà fondamentali11; nel nostro ordinamento, essendo il principio di laicità dello Stato uno dei principi cardinali dell’ordinamento repubblicano concepito come “uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta Costituzionale della Repubblica”, (sentenza n.203 del 1989) da intendersi alla luce del significato attribuitogli dalla giurisprudenza costituzionale nelle già citate sentenze n.440 del 1995, n.329 del 1997, n.508 del 2000, “non” come “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”, (sentenza n. 203 del 1989) esso implica imparzialità ed equidistanza nei confronti di ciascuna confessione e quindi ne consegue che l’effettività della garanzia dell’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge non è data dall’intesa, ma

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Gli articoli 9 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre del 1950 e ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.848) concernono rispettivamente, la “Libertà di pensiero, di coscienza e di religione” e il “Divieto di discriminazione”; esse fanno parte delle disposizioni sovranazionali di principio in materia di libertà religiosa. L’articolo 9 sancisce solennemente al comma 1° il “diritto” di “ogni persona” “alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”; e afferma che “tale diritto include la