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Capitolo II. La giurisprudenza della Corte costituzionale

1.2. La sentenza n.195 del 1993

L’importanza rivestita da tale distinzione sia a livello concettuale sia a livello di significato è tale che la Corte la assume sempre, nei suoi giudizi in materia, a presupposto logico di partenza per ogni riflessione si intenda svolgere e ciò infatti accade anche con riferimento alla sentenza n.195 del 1993 parimenti resa nell’ambito di un giudizio di costituzionalità incidentale promosso dal Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo. L’antefatto è il seguente: la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova aveva rivolto istanza, il 19 giugno 1988, al Comune dell’Aquila al fine di ottenere la concessione dei contributi di cui alla legge

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della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n.29 recante “Disciplina urbanistica dei servizi religiosi”, per poter realizzare un edificio di culto. A tale richiesta il Sindaco dell’Aquila aveva risposto con un provvedimento di diniego il 21 settembre 1990 sulla base del motivo che la richiedente non era in possesso del requisito di cui all’articolo 8 comma 3° della Costituzione, prescritto dall’articolo 1 della suddetta legge regionale. Tale disposizione infatti prevedeva, prima dell’intervento della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità limitatamente alle parole “i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, 3° comma, della Costituzione e”, che: “La presente legge regionale disciplina i rapporti intercorrenti tra insediamenti residenziali e servizi religiosi ad essi pertinenti, nel quadro delle attribuzioni spettanti rispettivamente ai Comuni ed agli Enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art.8, 3° comma, della Costituzione e che abbiano una presenza organizzativa nell’ambito dei Comuni interessati dalle previsioni urbanistiche di cui ai successivi articoli.”; precisando poi al comma 2° che “In mancanza dell’intesa prevista dal comma 3° dell’art.8 della Costituzione, la natura di confessione religiosa potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune

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considerazione.” Avverso il provvedimento di diniego la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova aveva presentato ricorso innanzi al T.A.R. dell’Abruzzo deducendo la violazione degli articoli 1 e 5 della legge regionale n.29 1988 e rilevando come l’interpretazione restrittiva adottata dal Sindaco fosse contrastante con i principi sanciti dalla Costituzione in materia. Il T.A.R. investito del giudizio, ritenendo che la citata normativa regionale non fosse suscettibile di una diversa interpretazione estensiva, rispetto a quella data dal Sindaco nel contestato provvedimento, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 5, comma 3°, della suddetta legge in riferimento agli articoli 2, 3 comma 1° e 2° , 8 comma 1°, 19, 20, 117 e 120, comma 3° della Costituzione nella parte in cui tali disposizioni prevedono la possibilità di concessione di contributi alle sole confessioni religiose che abbiano disciplinato i loro rapporti con lo Stato per legge sulla base di intese ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione. L’articolo 5 concerne nello specifico la concessione dei contributi prevedendo che: “I Comuni devolvono entro il 31 marzo di ogni anno alle competenti autorità religiose di cui alla presente legge un’aliquota pari al 10% dei contributi per urbanizzazione secondaria loro dovuti. […]. I contributi sono corrisposti alle confessioni religiose, che facciano richiesta e che abbiano i requisiti di cui al precedente

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art.1, proporzionalmente alla loro consistenza ed incidenza sociale.”. Ad avviso del remittente il dubbio che le censurate disposizioni regionali violassero le citate norme costituzionali non era manifestamente infondato poiché prevedere che, al fine di accedere ai contributi regionali per l’edilizia di culto, le confessioni religiose diverse dalla cattolica debbano aver proceduto a regolamentare i propri rapporti con lo Stato ai sensi dell’articolo 8 comma 3° della Costituzione, “introduce una ingiustificata discriminazione tra confessioni religiose, suscettibile di incidere sulla libertà di culto in danno di una” confessione, quale quella della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, che peraltro ricordava il giudice amministrativo, tali contributi già percepiva nelle altre Regioni. Inoltre faceva notare alla Corte che la suddetta confessione aveva da tempo ripetutamente avanzato istanza allo Stato al fine di stipulare l’intesa di cui all’articolo 8 comma 3° della Carta costituzionale e che il d.P.R. 31 ottobre 1986 le aveva riconosciuto personalità giuridica. La Corte, pronunciandosi nel merito, ha ritenuto la questione fondata anzitutto alla luce del principio di laicità argomentando che tale intervento normativo è “un intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri che trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi

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di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” e che quindi “la realizzazione di questi ultimi ha per effetto di rendere concretamente possibile, e comunque di facilitare, le attività di culto, che rappresentano un’estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa espressamente enunciata nell’art. 19 della Costituzione.”. Pertanto, richiamandosi ad una sua precedente pronuncia sul principio di laicità, la sentenza n.203 del 1989, asserisce che proprio in tale ambito l’intervento dei pubblici poteri deve essere coerente con il principio “della laicità dello Stato che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta Costituzionale della Repubblica” e che “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale ”(sentenza n.203 del 1989). Rispetto alla tesi difensiva addotta dalla Regione Abruzzo, secondo la quale l’esclusione dai contributi delle confessioni religiose che non hanno disciplinato per legge i loro rapporti con lo Stato sulla base di intese non determinerebbe una violazione dei principi di libertà e di uguaglianza in quanto essendo le situazioni disomogenee la diversità riservata sul piano del trattamento è una naturale e legittima conseguenza, la Corte la ritiene fuorviante perché il rispetto di tali principi nel caso di specie deve essere garantito

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“non tanto in raffronto alle situazioni delle diverse confessioni religiose,” affermando che “(fra l’altro sarebbe difficile negare la diversità di situazione della Chiesa cattolica), quanto in riferimento al medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa.” La Corte, proseguendo, considera poi che se la differenza sul piano del trattamento ai fini dell’accesso ai contributi pubblici si ricollega all’entità della presenza all’interno del territorio delle varie confessioni “il criterio è del tutto logico e legittimo”, conseguentemente la previsione in questo senso delle censurate disposizioni regionali, gli articoli 1 e 5 della legge regionale n.29 del 1988, non è contestabile. A giudizio della Corte essa non determina neppure “stricto sensu una discriminazione in quanto si limita a condizionare e a proporzionare l’intervento all’esistenza e all’entità dei bisogni al cui soddisfacimento l’intervento stesso è finalizzato.”. Questo indicato è un criterio di ripartizione nell’accesso ai contributi pubblici e agli spazi disponibili costantemente ribadito dalla giurisprudenza costituzionale in materia come si può osservare anche analizzando la recente sentenza n.63 del 2016 oggetto di questo studio dove la Corte chiarisce che: “come è naturale

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allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.” Ancora, in coerenza con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, riafferma il principio cardinale della stessa già esplicitato agli albori delle sua attività con la sentenza n.59 del 1958 e cioè quello secondo il quale “tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti. L’aver stipulato l’intesa prevista dall’art.8, terzo comma, della Costituzione per regolare in modo speciale i rapporti con lo Stato non può quindi costituire l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini.” E ciò perché essendo essenzialmente l’esigenza quella di garantire edifici per il pubblico culto attraverso l’assegnazione degli spazi necessari e delle correlate agevolazioni, la posizione delle diverse confessioni religiose va concepita come rivolta al soddisfacimento dei bisogni religiosi dei cittadini affinché il diritto di libertà religiosa proclamato dalla Costituzione sia effettivamente e quindi concretamente esercitato; e ciò avviene se il suddetto diritto è garantito in tutti i

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termini dell’ampia formulazione dell’articolo 19 che lo enuncia, quindi anche nel pubblico esercizio del culto della fede religiosa professata. Sul punto la Corte rafforza ancora di più il significato di questo principio in quanto, riprendendo anche quanto già in precedenza, nella sentenza n.59 del 1958, aveva affermato, ricorda che sotto il profilo della disciplina dei rapporti con lo Stato dato che l’articolo 8 comma 3° della Costituzione stabilisce la facoltà, per le confessioni organizzate ai sensi del comma 2° del medesimo articolo, di dare una regolamentazione convenzionale ai propri rapporti con lo Stato è evidente che “possono quindi sussistere confessioni religiose che non vogliono ricercare un’intesa con lo Stato, o pur volendola non l’abbiano ottenuta, ed anche confessioni religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti” e ciononostante “per tutte, anche quindi per queste ultime – ed è ipotesi certo più rara rispetto a quella della sola mancanza d’intesa – vale il principio dell’uguale libertà davanti alla legge.”. Quindi continua la Corte: “una volta, dunque, che lo Stato e i poteri pubblici in genere ritengano di intervenire con una disciplina comune, quale è quella urbanistica, per agevolare la realizzazione di edifici e di attrezzature destinati al culto mediante l’attribuzione di risorse finanziarie ricavate dagli oneri di urbanizzazione, la esclusione da tali benefici di una confessione religiosa in dipendenza dello

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“status” della medesima, e cioè in relazione alla sussistenza o meno delle condizioni di cui al secondo e terzo comma dell’art. 8 della Costituzione, viene a integrare una violazione del principio affermato nel primo comma del medesimo articolo.” La Corte ha poi cura di mettere in evidenza un elemento che ha sottolineato anche nella sentenza n.63 del 2016 oggetto di questo studio: cioè che, al fine di poter accedere al regime delle agevolazioni e partecipare al riparto delle aree disponibili, non è sufficiente che l’istante si auto qualifichi confessione religiosa. La natura di confessione risulta o se sia stata raggiunta un’intesa con lo Stato oppure, in sua mancanza, anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto con il quale la confessione si sia organizzata che esprima chiaramente il carattere religioso delle sue finalità istituzionali, o comunque dalla comune considerazione. Dopo aver svolto questa puntualizzazione la Corte riafferma quindi che “ferma restando la natura di confessione religiosa, l’attribuzione dei contributi previsti dalla legge per gli edifici destinati al culto rimane condizionata soltanto alla consistenza ed incidenza sociale della confessione richiedente e all’accettazione da parte della medesima delle relative condizioni e vincoli di destinazione.”. La Corte decide la questione oggetto di questo giudizio alla luce della sentenza n.59 del 1958, nella quale a distanza di dieci anni dalla entrata in vigore della Costituzione e nei suoi primissimi anni di attività

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citando ed analizzando il contenuto dell’articolo 19 della Carta, affermava che “la formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri” ma al tempo stesso riconosceva che “se nell’art. 19 è una così netta e ampia dichiarazione della libertà di esercizio del culto in quanto tale, il legislatore costituente non ha mancato di considerare le confessioni religiose anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato” nell’articolo 8 della Costituzione. Conseguentemente argomentava che essendo l’istituzione di tali rapporti essenzialmente rivolta al riconoscimento di effetti civili agli atti posti in essere dai ministri di culto, oltre ad altri benefici ed agevolazioni di vario tipo, essa “riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo”; “il che, del pari, non può escludere che, al di fuori e prima di quella concreta disciplina di rapporti, l’esercizio della fede religiosa possa aver luogo liberamente, secondo i dettami della Costituzione.” Quindi, come più sopra detto, centrale per la riflessione in materia è la distinzione fra la libertà religiosa, garantita e tutelata nella sua ampia formulazione dall’articolo 19 a “tutti”, e la dimensione

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organizzativa delle confessioni le quali hanno il diritto, a norma dell’articolo 8, di organizzarsi secondo propri statuti (comma 2°) e hanno la facoltà di regolare i loro rapporti con lo Stato per legge sulla base di intese (comma 3°). Coerentemente nella sentenza in esame, n.195 del 1993, la Corte conclude che: “è determinante la finalità che caratterizza la disposizione impugnata e l’effetto che ne discende: finalità ed effetto essendo quelli di facilitare l’esercizio del culto, l’agevolazione non può essere subordinata alla condizione che il culto si riferisca ad una confessione religiosa la quale abbia chiesto e ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione.”.