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Dopo Linné, gli studiosi dei viventi ne seguirono generalmente le tracce; tuttavia si formò e andò progressivamente potenziandosi una corrente sotterranea di dubbio nei confronti della fissità delle specie, la quale si manifestò nel modo più aperto so- prattutto in quella nazione che, mal governata, andava incontro agli anni tempestosi della Rivoluzione. Nel mondo intellettuale francese, si sviluppò un crescente interesse nei confronti dell’uomo e del suo destino, dell’origine della società, della lotta dei poveri e degli oppressi per l’esistenza. Si cominciò allora a studiare la popolazione umana in relazione alla quantità di cibo disponibile e furono stabilite analogie con la vita selvaggia, mentre il risentimento contro l’autoritarismo, l’immobilismo ed il dogmatismo ecclesiastico stimolò la diffusione del determinismo nella sua visione filosofica restrittiva e l’innalzamento del “secondo libro della rivelazione”, la natu- ra, al di sopra di quello scritto. Fu in questo clima intellettuale, prontamente riper- cuotentesi nella vicina Inghilterra e successivamente rinforzato da una fede crescente nella rivoluzione industriale, nel progresso scientifico-tecnologico e nella superiorità dell’uomo occidentale, che elaborarono i loro scritti Benoît de Maillet (1656-1738), Bernard Le Bouvier de Fontenelle (1657-1757), Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), Jean-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), Julien Offroy Delamétherie (1709-1751), Denis Diderot (1713-1784), Erasmus Darwin (1731-1802), Jean-Bap- tiste Monet de Lamarck (1744-1829), William Wells (1757-1817), William Lawren- ce (1783-1867), James Prichard (1786-1848), Patrick Mathew (1790-1874), Robert Grant (1793-1874), Charles Lyell (1797-1875), Robert Chambers (1802-1871), Edward Blyth (1810-1873), Charles Naudin (1815-1899), Charles Darwin (1809- 1882) e Alfred Russel Wallace (1823-1913).

Andava così prendendo forma e consolidandosi il paradigma evoluzionistico, ov- vero la convinzione che tutte le forme viventi altro non fossero, in definitiva, se non il risultato di un lungo e lento processo naturale di “discendenza con modificazione” da progenitura comune, e pertanto implicante la connessione ereditaria diretta e la spiegazione con gli antecedenti. Per cui, se fino ad allora il compito fondamentale del naturalista era stato essenzialmente quello di ricercare i modelli o “piani strutturali”, cioè gli archetipi, in base ai quali risultavano plasmate le produzioni della natura, per l’evoluzionista tutto ciò terminò di avere un senso, in quanto tali archetipi semplice- mente non esistevano. Fra i gruppi dei viventi non c’erano barriere o discontinuità qualitative, ma soltanto vuoti o lacune determinatisi nel corso del tempo in seguito all’eliminazione dalla catena di trasformazione evolutiva di un gran numero di “anelli di collegamento”. E poiché i suddetti gruppi, avendo origine comune, erano tutti

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R. Fondi

imparentati fra loro, obiettivo del naturalista diventava essenzialmente quello di rico- struirne il più fedelmente possibile la genealogia.

Ma quali erano i meccanismi del processo di trasformazione? A questa domanda venivano date unicamente risposte di natura speculativa.

Prendiamo, ad esempio, Lamarck. Nella sua formulazione finale, la tesi del padre fondatore dell’evoluzionismo era che gli organismi più semplici si producessero per generazione spontanea, quale effetto di particolari azioni combinate dei fluidi am- bientali. Una volta che tali organismi si erano formati, una particolare proprietà fisica dei medesimi (che egli denominava “orgasmo”) suscitava nei loro fluidi interni un “movimento organico” capace di sviluppare l’organizzazione, specializzando organi e funzioni. Allo stesso modo, insomma, in cui i fluidi ambientali plasmavano la superfi- cie terrestre, quelli interni ai viventi plasmavano questi ultimi, per cui l’organizzazione biologica non era altro che il risultato dei ripetuti movimenti dei fluidi organici e dei continui mutamenti che gli stessi fluidi subivano per il combinarsi di diverse sostanze e il disgregarsi dei composti ottenuti da tali combinazioni. Ogni forma, poi, si sarebbe perpetuata nella discendenza fino a quando nuove circostanze non avessero generato nuovi tipi di movimento suscettibili di condurre a nuove conformazioni organiche. «Con il concorso di tutte queste cause e di queste leggi della natura, e di molto tempo e di una diversità pressoché inesauribile di circostanze influenti, sono stati formati i corpi viventi di tutti gli ordini», scriveva Lamarck nelle sue Recherches sur l’organisation des corps vivants (1802). D’altra parte, nel volume I della sua successiva opera Histoire naturelle des animaux sans vertèbres (1815), lo stesso naturalista si preoccupava di pre- cisare che nel processo di trasformazione dei viventi non era implicato alcun elemento di carattere finalistico, tutto essendo ascrivibile a fattori fisici di natura essenzialmente meccanica o deterministica: «È soprattutto presso i viventi, e particolarmente negli animali, che è sembrato di poter scorgere uno scopo nelle operazioni della natura. An- che in questo caso lo scopo è una semplice apparenza e non una realtà. Effettivamente, in ogni tipo di organismo animale sussiste un ordine di cose che si limita a condurre, mediante sviluppi progressivi delle varie parti, dirette dalle condizioni ambientali, a quel che ci sembra uno scopo, ma che è sostanzialmente una necessità». Le precedenti citazioni sono riprese da Corsi (2000, pp. 52, 73).

Diversamente da Lamarck, per Prichard, Lawrence, Wells, Naudin e Wallace, era- no essenzialmente la competizione e la selezione naturale a produrre cambiamenti nell’organizzazione dei viventi, cambiamenti che, in ogni caso, come per il padre del- l’evoluzionismo, insorgevano senza seguire alcun fine prestabilito (Darlington 1959). Quanto ad Erasmus e Charles Darwin, sia le pressioni ambientali, sia gli effetti dell’uso e non uso degli organi corporei, sia la competizione potevano dar luogo a modificazioni che erano trasmesse alla discendenza e preservate dalla selezione natu- rale (Eiseley 1958). Il secondo, in ogni caso, mantenne sempre la sua opera aperta a ripensamenti, precisazioni e correzioni, tanto da giungere a ridimensionare perfino l’importanza della selezione naturale.

«Nelle prime edizioni della mia Origin of Species ho probabilmente attribuito trop- po all’azione della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto ... Non avevo

allora considerato a sufficienza l’esistenza di molte strutture che sembrano non essere, per quanto possiamo giudicare, né benefiche né dannose; e questa credo sia una delle più grandi sviste sinora trovate nel mio lavoro. Senza dubbio l’uomo, come ogni altro animale, presenta strutture che, per quanto possiamo giudicare con la nostra piccola conoscenza, non gli sono di alcuna utilità, né lo sono state in alcun precedente periodo della sua esistenza, sia in relazione alle sue generali condizioni di vita, o a quelle dell’uno o dell’altro sesso. Tali strutture non possono essere spiegate da alcuna forma di selezio- ne, o dagli effetti ereditari dell’uso e del disuso delle parti ... Nella maggioranza dei casi possiamo solo dire che la causa di ogni piccola variazione e di ogni mostruosità si trova più nella natura o nella costituzione dell’organismo che nella natura delle condizioni circostanti». (Ch. Darwin, Descent of Man, 1871, I, pp. 152 ss.).