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Come si è già visto, mentre nell’eone Archeano regnavano unicamente organismi procariotici, in quello Proterozoico comparve improvvisamente la vita eucariotica, caratterizzata da cellule che non soltanto sono grandi circa 10 volte di più di quelle batteriche, ma hanno anche il materiale genetico protetto in un nucleo ben distinto e sono dotate di organelli citoplasmatici ad elevatissima complessità. La comparsa della vita eucariotica risale approssimativamente a 1,5 miliardi di anni or sono ed è rappresentata da protisti marini a modo di vita planctonico appartenenti per lo più al gruppo estinto ed incertae sedis degli Acritarchi.

Dopo questo grandioso evento di discontinuità biologica, è significativo constata- re come per più di 800 milioni di anni non sia riscontrabile alcun diffuso “tentativo”, da parte dei Protisti, di mettersi insieme per formare colonie o strutture pluricellulari. Al contrario, sembra che l’instaurarsi della vita eucariotica pluricellulare abbia avuto luogo, a partire da 680-620 milioni di anni fa, con una serie di grandi “esplosioni” differenziatrici, le quali si sono succedute spesso a brevissima distanza temporale l’una dall’altra, segnando la fase terminale del Proterozoico e quella iniziale del Fanerozoico. Le tappe del fenomeno furono: (1) dapprima le flore marine del tipo rinvenuto nella Cina meridionale; (2) poi gli enigmatici organismi a corpo molle del tipo rinvenu- to a Ediacara in Australia; (3) poi le abbondanti tracce fossili (tane, gallerie, piste prodotte nei livelli più superficiali del fondo marino) presenti nel piano più basso del Cambriano; (4) infine, in archi di tempo di soli 2-5 milioni di anni – vale a dire corrispondenti, da un punto di vista geologico, ad altrettanti bagliori di fulmine – le straordinarie apparizioni di forme dotate di parti dure che caratterizzano i piani suc- cessivi del Cambriano inferiore.

Come ogni altra precedente, le apparizioni del Cambriano iniziale ebbero luogo in modo relativamente simultaneo in ogni parte del globo e segnarono la comparsa di tutti i phyla zoologici conosciuti, accompagnata da quella di molti taxa sconosciuti o incertae sedis che poi sarebbero andati in estinzione.

È sconcertante constatare come dopo le grandi discontinuità del Cambriano in- feriore non insorga più nessun’altra fondamentale novità evolutiva. Malgrado, cioè, nel corso dell’eone Fanerozoico le flore e le faune siano cambiate da un periodo al- l’altro e, soprattutto, da un’era all’altra, tali cambiamenti sono consistiti in nient’altro che in variazioni su temi fondamentali rimasti praticamente immutati da oltre mezzo miliardo di anni. Per dirla in altro modo, le faune dell’era Paleozoica non erano nè meno complesse nè meno diversificate, ma semplicemente differenti da quelle delle ere Mesozoica e Cenozoica – mai discostandosi, in ogni caso, dai piani di organizzazione anatomica instauratisi nel Cambriano.

La discontinuità dell’evoluzione biologica, d’altra parte, non caratterizza soltanto le categorie sistematiche più elevate come i regni, i phyla, le classi, gli ordini e le famiglie, ma anche quelle inferiori come i generi e le specie, sebbene in questo caso non sempre si presenti regolarmente netta a causa della loro natura più instabile e indefinita. La documentazione paleontologica, in effetti, è ricca di serie cosiddette “microevolutive”,

peraltro utilizzabili a fini biostratigrafici, nelle quali si assiste a cambiamenti graduali e continui in senso direzionale talvolta anche per milioni di anni. Nella maggior parte dei casi, le serie in questione possono senz’altro essere interpretate come adattamenti intraspecifici, per “norma di reazione”, a mutamenti ambientali protraentisi per lun- ghi tratti di tempo, ma ciò – come si è detto in precedenza – soltanto a condizione di considerare le specie naturali come dotate di potenzialità notevolmente più ampie di quelle convenzionali.

Sia come sia, è significativo che l’importanza rivestita dalla discontinuità nella do- cumentazione fossile abbia obbligato i paleontologi, almeno fin dai primi decenni del secolo scorso, ad adottare modelli evolutivi molto diversi da quelli postulati da Lamarck e da Darwin: da quello tipostrofico di Karl Beurlen e Otto Schindewolf a quello più recente degli equilibri puntuati di Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. Com’è noto, questi modelli prevedono per ogni gruppo vivente una fase assai breve e rapida di costituzione iniziale, seguita da una fase molto lunga di stabilità destinata a concludersi con l’estinzione.

Ma se la fase di ogni cambiamento evolutivo, o di costituzione di ogni nuovo gruppo, è stata davvero assai breve e rapida (dell’ordine, si dice, non dei milioni ma delle sole migliaia di anni: vale a dire corrispondente, nella metrica del tempo geo- logico, a semplici battiti di ciglia), ne deriva che la probabilità di imbattersi in fossili suscettibili di documentarla risulta già in partenza assai limitata, se non praticamente nulla. L’implicazione di quanto sopra, in ogni caso, è clamorosa, in quanto sancisce che la paleontologia non è in grado di fornire alcuna prova inequivocabile dell’esistenza effettiva di quelle transizioni da un gruppo all’altro che costituiscono l’essenza del paradig- ma evoluzionistico. Emerge, anzi, il legittimo sospetto che quella di postulare fasi di cambiamento rapido corrispondenti alla comparsa di “novità” evolutive non sia altro, in definitiva, che una soluzione ad hoc per qualcosa che sfugge completamente alla nostra comprensione.

Dopo un lavoro instancabile di circa due secoli su materiale fossile provenien- te da ogni parte del mondo e dai più svariati livelli della successione stratigrafica, è veramente difficile respingere la conclusione che sia impresa vana collegare le forme viventi del passato tra loro e con quelle attuali mediante comuni relazioni lineari di causa ed effetto sviluppantisi con continuità lungo la direzione del tempo Ovvero, per dirla in parole più semplici, che sia impresa vana sforzarsi di rappresentare la storia della vita, come prescriverebbe il paradigma evoluzionistico, sotto forma di albero ge- nealogico. Affinché vi sia un albero, infatti, è necessario che esista un tronco con tanto di radici e con altrettanti punti di biforcazione quanti sono i rami medesimi: radici e punti che, invece, nella documentazione paleontologica rimangono sistematicamente assenti o nebulosi.

A supporto di quest’ultima asserzione potrebbero essere forniti esempi in abbon- danza. Uno di questi, relativo all’evoluzione del genere umano, è stato da noi pub- blicato alcuni anni fa (Fondi 1999), e i successivi apporti paleoantropologici non ne hanno minimamente inficiato le tesi di fondo.



R. Fondi

Miriadi di “segmenti di esistenza” coordinati in “unità