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L’arrivo in Europa dei primi esemplari di antropomorfe, nel XVI secolo, al seguito di marinai e avventurieri, aveva già stimolato la curiosità e la simpatia della gente, accrescendo al contempo però la convinzione della differenza abissale con l’uomo, prodotto eletto di una volontà superiore.

Nel suo Systema naturae (1758, V edizione curata dall’autore), Linneo adotta quei criteri classificatori che stabiliranno l’appartenenza dell’uomo al Regno Animale, ed al tempo stesso ne sanciranno la collocazione nell’ordine dei Primati insieme con le Antropomorfe. Il termine “Primates” però, viene scelto appositamente per indicarne il primato gerarchico nella grande catena dei viventi. Ancora, nella edizione citata, egli colloca l’orango nel genere Homo: Homo troglodytes, gettando inconsapevolmente il seme di una lunga ed accesa discussione, tuttora in atto.

Negli stessi anni, ma su presupposti diversi, il naturalista e collezionista Buffon, nella sua Histoire naturelle (1758), si chiede «a quale distanza da noi [uomini] dobbia- mo collocare le grandi scimmie anatomicamente così simili?». Questa domanda, che egli si pose all’inizio della sua monumentale dissertazione, rimane estremamente attua- le: i moderni studi di comparazione fra le specie si muovono in parte ancora in questa direzione. Sul piano concettuale, però, l’opera di Buffon non contribuì sicuramente ad aprire un dibattito scientifico sull’argomento. Infatti, anche se all’inizio egli cercò di esaminare l’uomo e la sua naturalità, è pur vero che il suo discorso si sposta troppo presto sulle facoltà spirituali che farebbero dell’uomo un essere privilegiato. Inoltre,

su un piano strettamente scientifico, l’impianto filosofico di Buffon è estremamente rigido, egli non contempla la categoria del cambiamento e non prevede alcuna forma di modificazione nella specie. In questo modo, la ricerca non si muoveva ancora nella direzione della continuità, ma stabiliva una netta e imprescindibile superiorità dell’es- sere umano che mal poteva conciliarsi con ipotesi di forme affini non umane.

Tutto il XVIII secolo fu comunque caratterizzato dall’esigenza di secolarizzare lo studio dell’uomo, stabilirne la reale natura animale, e va da sé che l’attenzione cadde sulle forme a noi morfologicamente più simili. Diversi studiosi, contemporanei di Buffon, mostrarono particolare attenzione alle somiglianze tra uomo e antropomor-

Fig. 1. “Pygmie” di Tyson [da: Tyson E. 1699, Orang-outang, sive Homo sylvestris or, the Anatomy of a

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L. Sineo e D. Carrillo

fe. In figura 2 è riportata una tavola di Petrus Camper (1792-1789), celebre pittore e naturalista olandese che, nella ricerca dei canoni pittorici più adatti a dipingere l’uomo, compara i crani degli uomini e di diversi animali, ponendo le antropomorfe come anello di congiunzione tra i primi e i secondi. Così egli calcola il famoso “angolo facciale”:

«Posizionando uno accanto all’altro la testa del Negro, del Calmucco, dell’Europeo e della Scimmia, mi sono accorto che una linea tirata dalla fronte fino al labbro superiore indicava una differenza nella fisionomia di questi popoli [...]. Dopo aver fatto il disegno di qualcuna di queste teste su una linea orizzontale, vi aggiungevo le linee facciali dei visi, con i loro diversi angoli. Ottenevo una testa che ricordava l’antico [il profilo classico delle statue gre- che]: ma quando inclinavo questa linea all’indietro [...] ottenevo definitivamente il profilo di una scimmia, di un cane e di una beccaccia».

Lo scopo di Camper era puramente descrittivo: egli cercava un modo per stu- diare accuratamente le proporzioni anatomiche dei crani al fine di poterli meglio rendere nei disegni. Tuttavia, anche in queste analisi, risultato di uno studio attento dei criteri classificatori di Linneo, si ritrova il principio secondo il quale la natura è ordinabile in una piramide alla cui sommità si pone l’Uomo. Camper, reputan- do di aver trovato un modo di classificare i crani, pensò di poterne determinare la posizione in seno alla gerarchia della natura. La volontà di trovare dei mezzi capaci di descrivere “oggettivamente” la scala del vivente, e quindi stabilire quale fosse il punto di passaggio tra l’uomo e gli altri animali, era in quegli anni condivisa da molti studiosi. In particolare, i trattati di Blumenbach (1752-1840) e Daubenton

Fig. 2. L’angolo facciale di Camper [da: Camper P. 1791. Dissertation sur les variétés naturelles qui caracté-

(1716-1800) si muovono nella stessa direzione, ovvero nella ricerca di criteri classi- ficatori che permettessero di inscrivere pienamente l’Uomo nel Regno Animale, pur sottolineandone il distacco.

Il vero scontro ideologico sulla natura animale dell’uomo si riapre un secolo dopo, con Evidence as to Man’s place in Nature di Thomas Henry Huxley, che esce a Londra nel 1863, sulla scia della devastante teoria di Charles Darwin. L’impianto centrale della teoria darwiniana mina alle radici il creazionismo essenzialista che pervade il pensiero occidentale. L’immutabilità delle specie dopo l’evento – creazione – è il concetto che sta alla base di tutto il convincimento filosofico-scientifico fino alla fine del XVIII se- colo. Cuvier, naturalista e paleontologo francese, massimo esponente di questa teoria, aveva spiegato le incontestabili evidenze fossili come risultato di estinzioni di massa, avvenute a seguito di catastrofi naturali. Il problema della comparsa di nuove forme veniva risolto dallo scienziato adducendo la colonizzazione di nuovi spazi da parte di forme rimaste per secoli segregate in ipotetiche isole lontane. Soltanto da Lamarck in poi, viene effettivamente considerata la possibilità che le specie subiscano delle modi- ficazioni nel corso degli anni (Philosophie zoologique, 1809). Ciò nonostante, all’inizio dell’Ottocento il dibattito era ancora ben lungi dal coinvolgere l’uomo.

La comunità scientifica ed ecclesiastica europea, dopo la divulgazione del pensiero darwiniano, si infiamma con Ernst Hackel (1868) ed il suo concetto dell’anello man- cante: un organismo – non umano – ma molto umano – preludio a noi sapienti.

Ne inizia da allora una spasmodica ricerca.

Darwin, su base semplicemente deduttiva, valutando le analogie scheletriche e funzionali, dice che i parenti più prossimi dell’uomo vanno ricercati nelle antropo- morfe africane (The Descent of Man, Londra 1871), tuttavia egli non s’impegna nel preludio (fossile) ad Homo sapiens.

La teoria dell’evoluzione si è diffusa rapidamente, ma molto spesso con una sorta di vizio di forma iniziale, una piccola patologia congenita e subdola, che può essere talvolta molto limitante: l’implicita presenza di un punto d’arrivo del processo, di una perfezione cui tendere. L’anello mancante, in una visione progressiva di evoluzione “tendente” verso l’Uomo, è quindi l’anello della catena della vita linneana, una catena che, in quegli anni, era vista ben tesa in senso verticale in una dimensione spazio- temporale.

In assenza di evidenze fossili, quantomeno fino alla scoperta di Dubois del Pithe- canthropus erectus (1891), il mondo scientifico fantastica su questi quasi umani che ci hanno preceduto (dovevano necessariamente essere bruti, privi di parola, sanguinari e proni agli istinti più bassi), allo stesso modo con cui Virey descriveva, nel XVIII secolo le popolazioni nere come se, impossibilitati ormai ad attribuire ad altri Homo sapiens tali comportamenti, cercassimo altri fantomatici vasi di Pandora.

Al volgere del XX secolo, la filosofia corrente vede l’Ominide come una transizione. Questo concetto, che oggi sappiamo assolutamente valido, allora, in assenza di prove, indusse ad uno dei più nocivi auto-gol della storia della scienza: il “fossile” di Piltdown.

La teoria esigeva un fossile chimerico tra Uomo e Antropomorfe. In assenza di autentici reperti, Charles Dawson e Arthur Smith Woodward, in pratica, idearono e



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realizzarono un falso, applicando una mandibola di orango modificata ad un cranio umano storico. Tra il 1908 e il 1915, la comunità scientifica, spinta dall’entusiasmo di Arthur Keith e Henry F. Osborn, dibatté attorno a questo reperto che soddisfaceva numerose esigenze: politiche (era il primo Britannico), scientifiche (era una palese congiunzione fra uomo e scimmia), filosofiche (il cranio voluminoso e rotondeggian- te indicava che – da sempre – l’uomo è stato diverso). L’auspicata precoce diversità umana indusse tra l’altro Osborn, supportato in questo da Pierre Teillard de Chardin, noto paleontologo gesuita, a ipotizzarne un’origine eccessivamente antica (50-60 mi- lioni di anni). Solo molto più tardi, superando l’ostilità e il protezionismo del British Museum, Wilfrid Le Gros Clark e Raymond Dart, nel 1953, dichiararono la truffa (Spencer 1990).