• Non ci sono risultati.

come

systema

e la sua cristallizzazione

Prima dell’avvento dell’evoluzionismo, la realtà era considerata come una totalità coerente, permeata della presenza ed intelligenza divina, e perciò come viva, palpi-

tante, creativa e dotata di risvolti spesso imprevedibili e misteriosi. Essa, in ogni caso, si dispiegava in una straordinaria gerarchia di complessità, ove alla base figuravano i minerali e le forme inferiori di vita, nei livelli intermedi i vegetali, gli animali e l’uo- mo, e nei livelli superiori entità super-naturali come le schiere angeliche. In questa costruzione ordinata l’uomo occupava una posizione centrale, in quanto considerata intermediaria fra la condizione fisica e quella metafisica.

Reputando le forme viventi attuali come le stesse concepite dalla mente divina e fissate nel sesto giorno della creazione, Carl von Linné (1707-1778) ne propose una sistemazione secondo categorie fondamentali, o taxa, di ampiezza e diversificazione decrescenti, individuate in base a scelte oculate di particolari insiemi di caratteri mor- fologici. Com’è noto, Linné denominò “specie” i taxa elementari di tale sistemazione, contrassegnandoli con nomenclatura latina binomia, mentre i taxa superiori a quelli specifici furono scaglionati, da lui e da naturalisti a lui successivi, in 6 livelli gerarchici progressivamente denominati “generi”, “famiglie”, “ordini”, “classi”, “tipi” o “phyla” e “regni”.

Sebbene gettasse per la prima volta vivida luce sulla diversità delle forme viventi e sulle loro reciproche relazioni, pure l’uso delle categorie linneane portò ad una totale cristallizzazione dell’idea di “ordine naturale” e ad uno stretto connubio tra la biolo- gia e il dogma ecclesiastico della creazione “speciale”, dando così luogo a quello che – dopo l’avvento dell’evoluzionismo – è stato definito “fissismo”. Linné, comunque, rimase sempre lucidamente consapevole dell’artificiosità del suo sistema e con il passa- re degli anni comprese che le specie e, più in generale, i taxa inferiori agli ordini erano spesso difficili da distinguere. A tali livelli, insomma, il mondo dei viventi risultava in- stabile e mutevole, prestandosi sia ad ibridismi naturali sia a manipolazioni artificiali da parte di coltivatori e allevatori.

Pur avendo dato corpo ad una sterminata letteratura, il problema della distinzione dei taxa biologici rimane a tutt’oggi lontano dall’essere stato risolto (si veda, ad esem- pio, Berlocher 1998). In generale, nella suddetta letteratura è spesso emersa la pre- disposizione a considerare la specie, ovvero l’unità biosistematica fondamentale, co- me un’entità oggettiva e dotata di sicura base ontologica, mentre i taxa sopraspecifici avrebbero natura per lo più soggettiva e convenzionale. Quanto ai criteri adottati per distinguere le specie, da un iniziale approccio strettamente morfo-tipologico, mirante cioè a definire unità morfologiche standard e, di conseguenza, attribuente importanza secondaria alla variabilità (o grado di divergenza media da tali unità) che pure è im- plicita, in misura più o meno elevata, a ciascuna popolazione naturale, si è passati ad un approccio basato generalmente sul criterio fisiologico dell’isolamento riproduttivo, ritenuto oggettivo per eccellenza. Dalla metà del secolo scorso ad oggi, insomma, è stato generalmente considerato specie “vera”, cioè naturale e non convenzionale, qual- siasi insieme di organismi tra loro interfecondi ma riproduttivamente isolato da altri insiemi analoghi, almeno in teoria del tutto indipendentemente da corrispondenze o meno sul piano morfologico esteriore. Eppure, malgrado quello basato sull’isolamen- to riproduttivo sia stato denominato, con chiaro intento monopolizzatore, “concetto biologico di specie”, più volte è stato rimarcato (si veda, ad esempio, Simonetta 1999)



R. Fondi

che esso è inapplicabile non soltanto alla generalità degli organismi viventi, ma perfi- no al solo regno animale.

Il fatto che a tutt’oggi si sia giunti a proporre fino ad almeno sette differenti concet- ti di specie (si veda, ad esempio, Harrison 1998) – è significativo e induce fortemente a far considerare illusorio qualsiasi tentativo di giungere a definizioni univoche ed universali, non soltanto dei taxa di rango superspecifico, ma anche di quello specifico o fondamentale, per cui il problema di come distinguere e classificare in modo adeguato i gruppi biologici naturali continua a rimanere aperto oggi come lo era al tempo di Linné.

Ovviamente questa conclusione non implica in alcun modo che l’insieme dei vi- venti e la sua evoluzione debbano essere concepiti come disorganizzati e confusi. Nul- la, cioè, obbliga a gettare alle ortiche l’ipotesi di lavoro di un systema naturae, seppure non strutturato nel modo rigido e semplicistico di Linné. In realtà, tra i viventi, le distinzioni, pur essendo apprezzabili in misura più o meno netta, compaiono in nu- mero straordinario ed a qualsiasi livello di complessità, ma siccome riguardano entità collettive e non individuali, devono essere ritenute tali unicamente in senso statistico e non assoluto. Ne segue che i taxa biologici possono essere visti come realtà “transva- rianti” fra loro in differente misura, nel contesto unitario dell’immenso continuum spazio-temporale di cui formano parte naturale integrante e inscindibile.

Nel suddetto continuum, allora, ciascun taxon non potrà che esprimersi sia nelle tre dimensioni spaziali (come unità statistica di morfologie strettamente legate a de- terminati areali geografici ed a particolari ecosistemi), sia nella “quarta dimensione” (occupando perciò un segmento più o meno lungo, compreso fra il momento del- la sua apparizione e quello della sua estinzione, di un decorso temporale che, dalla comparsa delle prime cellule viventi ad oggi, si calcola abbracci almeno tre miliardi e mezzo di anni). Inoltre, come risulta dalla documentazione paleontologica, ciascun taxon potrà persistere stabilmente per milioni di anni, nell’arco dei quali potrà as- sumere tutte le cangianti morfologie consentitegli dalle sue intrinseche potenzialità genetiche di adattamento (“norme di reazione”), in risposta alle vicissitudini del suo areale geografico di distribuzione e del suo ecosistema di appartenenza. Ne deriva che la variabilità intragruppo ed intergruppo dei vari taxa, e quindi anche la relativa e reciproca differenziazione fra i taxa medesimi, non potranno che essere soggette a fluttuare continuamente, nel corso del tempo, restringendosi o ampliandosi in modo più o meno drastico ed irregolare. Più in particolare, le specie naturali, in quanto su- scettibili di essere interessate nelle varie tappe della loro storia evolutiva da variazioni e differenziazioni anche molto spinte (basti soltanto pensare ai casi di adattamento insulare o sotterraneo), potranno presentarsi come entità notevolmente più ampie, plastiche e versatili di quelle convenzionali.

È opportuno far notare che il precedente approccio interpretativo non fa che ri- prendere le posizioni dello zoologo tedesco Otto Kleinschmidt (1930), il quale, già all’inizio del secolo scorso, proponeva di sostituire il concetto classico di specie con quello di Formenkreis o “circolo di forme”. Per Kleinschmidt, infatti, l’espressione “circolo” doveva essere intesa non nel senso della corrispettiva figura geometrica, bensì in quello di unità spazio-temporale coerente in senso qualitativo (come ad esempio il

Wienerkreis o Circolo di Vienna, quale congregazione di persone realizzata dalla co- mune condivisione di una medesima “idea di fondo”).

L’avvento dell’evoluzionismo e il ripudio