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Se il problema rimane la storia evolutiva dell’uomo e, secondo quanto detto fino- ra, un intrinseco bisogno di trovare il punto di passaggio dall’animalità all’umanità, un contributo fondamentale è arrivato dallo sviluppo delle tecniche di genomica e dalle sue applicazioni nel campo della comparazione. Lo studio si sposta quindi sul piano delle distanze genetiche tra uomo e antropomorfe.

Negli anni sessanta, le pionieristiche comparazioni, cromosomiche e quindi gene- tiche tra i due gruppi hanno dimostrato che i nostri più vicini parenti sono le grandi scimmie africane, come predetto da Darwin un secolo prima. Le prime analisi im- munologiche hanno posizionato la separazione tra Uomo e grandi scimmie africane, a circa dieci milioni di anni fa (Goodman 1963), dato coerente con le recenti acqui- sizioni in campo paleontologico. Al momento della sua proposizione, questa lontana separazione è stata oltremodo controversa, sia per la scarsità dei reperti paleontologici a supporto dell’ipotesi, sia per l’erronea convinzione di un’origine asiatica degli Omi- nidi (Simons 1961).

Le tecniche del bandeggio cromosomico negli anni settanta, insieme con i metodi ad alta risoluzione sviluppati negli anni ottanta, hanno lasciato pochi dubbi sul fatto che lo scimpanzé e il gorilla siano molto più vicini all’uomo di quanto non sia l’orang- utang (Chiarelli 1962, Marks 1992).

Oggi diciamo «siamo scimpanzé al 98,5%»! Questo è il leit-motiv della divulga- zione e di certa parte del moderno riduzionismo estremo: si tratta di un’affermazione sensazionale, cruciale per la sua forza e per il peso che ha nel dibattito filosofico, ma per altro triviale (non erronea, come vorrebbe qualcuno). Si basa, infatti, su una va- lutazione – rozza ma efficace – dell’omologia tra il DNA di uomo e scimpanzé (e di altre Antropomorfe), studiata alla fine degli anni Ottanta da un gruppo di ricercatori di Yale, negli USA.

Oggi realizziamo che la straordinaria somiglianza descritta tra i due genomi era ovvia, stante la vicinanza filogenetica di questi Primati. D’altro canto, l’omologia del nostro genoma con quello di Caenorhabditis elegans (un Nematode i cui fossili sono databili a ben oltre 200 milioni di anni fa) è pari a circa il 50%, dato molto più im- pressionante, ma che non sconvolge l’opinione pubblica quanto la vicinanza con lo scimpanzé (dal quale gli Ominidi si sono separati molto di recente, presumibilmente per una “scelta ecologica” legata alle mutate condizioni climatiche dell’Africa sube- quatoriale).

Questo approccio sembra quindi dimostrarci che l’anello mancante è sempre stato sotto i nostri occhi: è lo scimpanzé di Tyson che cammina appoggiandosi ad un bastone.

Ma, recentemente, la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato un impegnativo e preciso studio del cromosoma 22 di Pan troglodytes, lo scimpanzé comune, e dell’or- tologo umano, prodotto da un consorzio di ricerca internazionale (The Int. Con- sortium Chrm. 22, 2004). Lo studio dimostra che i due cromosomi (cioè i genomi) sono solo apparentemente simili. Si prefigura, così, una crescente definizione di un problema già noto: genomi simili si differenziano per loro caratteristiche intrinseche fini, che non sono necessariamente quantitative o qualitative. Gli autori concludono allora che le differenze genetiche riscontrate nella comparazione tra le sequenze e le possibili funzioni, di Homo e di Pan, sono più complesse di quanto atteso.

La genomica comparata ricostruisce faticosamente quanto è scritto su un’enorme stele: conosciamo l’alfabeto che vi è inciso, ma dobbiamo ancora imparare le regole della sintassi e della sua lettura, nonché il recondito significato di alcune parole.

Conclusioni

«... neither the palaeonthological, nor the genetical, nor the archaeological records as they now stand can tell us exactly when, where, or how ...» (Howells 1967).

Sebbene siano passati quasi quaranta anni, la valutazione di Howells rimane dram- maticamente attuale. Siamo sicuri di dover trovare l’anello mancante? Ma anche se ci riuscissimo, saremo mai sicuri di averlo trovato?

Malgrado la nostra posizione nella natura sia oggi ben più chiara, dobbiamo chie- derci perché continuiamo nella ricerca dell’anello mancante: forse manteniamo incon- sciamente il concetto nel tentativo di trovare un momento di conferma della nostra diversità? O è solo un vezzo semantico?

Stiamo appena incominciando a superare una delle nostre più forti barriere mentali: non riusciamo a prescindere dal “mito dell’eroe”, dal concetto prometeico che comunque noi possediamo gli strumenti per governare la natura (il Mondo); nonostante le evidenze fossili ci parlino della nostra evoluzione, nonriusciamo ad accettare in pieno che il nostro essere culturale sia strettamente correlato al nostro essere biologico. In definitiva, l’anello potrebbe non rappresentare un motivo di congiunzione ma di ribadita separazione.

Ringraziamenti

Questo lavoro è tratto dalla relazione “L’Anello mancato”, presentata da L.S. in occasione del XII incontro di Biologia Evoluzionistica, Firenze, febbraio 2004. Gli autori sono molto grati al Prof. Pietro Omodeo per i commenti preziosi. Gli autori ringraziano F. Lo Scalzo per il contributo nella discussione.



L. Sineo e D. Carrillo

Bibliografia

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