• Non ci sono risultati.

4.3 I sistemi sanitari nazionali: Regno Unito e Italia

4.3.2 Il sistema sanitario italiano

4.3.2.1 L’evoluzione storica

Le prime forme di assistenza sanitaria organizzata hanno origine nel periodo compreso fra la fine nel XIX secolo e l’inizio del ventennio fascista: nel 1898 vengono regolamentati per la prima volta gli infortuni sul lavoro, mentre fra il 1904 e il 1917 viene istituito l’obbligo, limitato ai lavoratori dell’industria e dell’agricoltura, di iscriversi presso un’assicurazione.

La tutela della salute era garantita principalmente da strutture no profit di natura ecclesiastica e non, da organizzazioni provinciali per la medicina preventiva e la sanità pubblica, dalle associazioni di mutuo soccorso e dalle risorse che i comuni destinavano all’assistenza delle persone disabili.

Sotto il regime fascista vengono garantite cure ospedaliere gratuite ai più poveri ed istituiti i primi centri per la diagnosi dei tumori. Inoltre divenne obbligatorio assicurarsi contro gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali e la tubercolosi,

169

e negli anni ’30 la copertura garantita ai lavoratori venne estesa anche ai loro familiari.

L’assistenza sanitaria dei dipendenti statali divenne responsabilità dell’ENPAS (Ente Nazionale Previdenza e Assistenza Dipendenti Statali) a partire dal 1942, mentre della tutela della salute dei dipendenti privati si occupava l’INAM (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie), ente di natura mutualistica, istituito nel 1943.

Nel dopoguerra una tappa fondamentale nel riconoscimento della centralità del fattore salute fu l’istituzione del Ministero della Sanità, nel 1958; in precedenza era il Ministero degli Interni l’organo di governo competente.

Fino al 1968 il sistema sanitario, soprattutto per quanto riguarda ospedali e meccanismi di funzionamento degli stessi, risultava estremamente frammentato, caratterizzato dalla duplicazione dei servizi, da burocratizzazione e da una crescita esponenziale della spesa.

I servizi offerti erano finanziati attraverso i contributi versati dai datori di lavoro e dai dipendenti, con aliquote che variavano dal 5,2% al 7,5% della retribuzione lorda per i datori di lavoro e dall’1% al 2,2% per i lavoratori.192

Alcuni enti rimborsavano ai pazienti il costo sostenuto presso strutture sanitarie e medici privati, intervenendo in maniera indiretta; altri fornivano direttamente l’assistenza attraverso le proprie strutture.

Quindi a fronte dello stesso onere contributivo spesso i fondi fornivano diversi servizi agli iscritti alle casse mutue.

Nello stesso anno con la Legge Mariotti si cercò di porre rimedio a questi problemi con la riforma del sistema degli ospedali, prima gestiti principalmente da enti di beneficenza e assistenza, che vengono trasformati in enti ospedalieri pubblici. Viene disciplinata la loro organizzazione e vengono classificati in categorie in base alle funzioni nell’ambito della programmazione nazionale e regionale, così da farli rientrare in un quadro normativo ed organizzativo omogeneo.

Gli ingenti debiti accumulati dagli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri vengono estinti con la Legge 386 del 17 agosto 1974, con la quale viene

170

istituito il Fondo Nazionale per l’Assistenza Ospedaliera e vengono commissariati gli enti mutualistici.

Nel 1978, con la Legge 833 del 23 dicembre 1978, furono sciolti ed aboliti gli enti mutualistici, e soprattutto venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Passando da un sistema sanitario mutualistico ad uno di tipo “beveridgiano” l’Italia introduce la copertura universale per i propri cittadini, indipendentemente da reddito, posizione geografica e situazione lavorativa.

Il modello preso a riferimento fu il National Health Service inglese, e le principali innovazioni riguardarono:

- il finanziamento del sistema da parte del cittadino, che non avviene in base al rischio di salute ma al reddito, secondo aliquote fiscali progressive;

- la copertura, che è garantita a tutti coloro che sono nati in Italia o sono diventati italiani, e non è possibile rinunciarvi o non pagare la quota di tasse corrispondente; - il ruolo dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, che diventa preponderante sia in fase di programmazione e controllo che nella fase di gestione delle strutture di cura.

Un’altra innovazione di grande portata fu la maturazione dell’idea di prevenzione come cardine di un sistema moderno in grado di preservare la salute dei cittadini e non solo di occuparsi della cura, in un’ottica di tutela della salute in senso ampio. Attraverso la definizione di un Piano Sanitario Nazionale dalla cadenza trimestrale, il governo centrale tramite il Ministero della Sanità si occupava della pianificazione e la determinazione delle risorse pubbliche da destinare alla tutela della salute, le quali erano poi ripartite fra le Regioni in base a dei criteri tesi ad eliminare gli squilibri fra le stesse.

A livello centrale vengono poi determinate le risorse annue da destinare alla sanità attraverso il Fondo Sanitario Nazionale, approvate le leggi in materia con valenza su tutto il territorio e gestita la vigilanza sull’intero sistema.

Le Regioni avevano il compito di tradurre le decisioni nazionali in interventi sul territorio, all’interno di un’operatività che non doveva porsi in contrasto con le linee guida nazionali.

171

A livello locale vennero istituite le USL (Unioni Sanitarie Locali), cui sono stati afferiti beni, attribuzioni e personale degli enti soppressi. Controllate e gestite dai Comuni o da Consorzi di Comuni, ad esse fu affidato il compito di organizzare e gestire i servizi sanitari sul territorio, all’interno di un’area di competenza dai 50.000 ai 200.000 abitanti in cui le stesse USL venivano suddivise in Distretti, unità più piccole di circa 10.000-20.000 abitanti.

Anche la nuova struttura non è però stata esente dalla manifestazione di problemi: in particolare, la netta divisione fra la responsabilità finanziaria (spettante al governo centrale) e la capacità di spendere le risorse (che spettava alle Regioni ma soprattutto alle USL) ha generato una spirale di spesa in cui le Regioni hanno accumulato pesanti deficit, chiedendo sovente l’intervento del governo per il loro risanamento.193

Un’altra problematica era data dall’eccessiva politicizzazione delle USL: i Comuni gestivano queste ultime attraverso la nomina dei loro organi di gestione e la conseguente assunzione delle decisioni più importanti, se pur in maniera indiretta. Inoltre ne approvavano i bilanci e controllavano gli aspetti relativi all’assunzione di personale, le spese e l’organizzazione.

All’interno di questo meccanismo amministratori, gestori e politici creano debiti continui e crescenti, in quanto gli enti che spendevano di più venivano “premiati” con una parte maggiore di ripiano. Quindi a livello locale ci si rese conto che conveniva spendere maggiormente, indipendentemente dall’ oggetto della spesa. Si stima che il deficit del settore sanitario sia passato da poco meno di 2.000 miliardi di lire del 1982 a circa 14.000 nel 1990.194

Il modello creato dal legislatore nel 1978 è dunque apprezzabile dal punto di vista degli obiettivi che si intende perseguire a beneficio dei cittadini, quali copertura universale e gratuità delle cure, ma rimane soffocato dalle dinamiche di gestione che privilegiano l’aumento indiscriminato della spesa da parte delle aree politiche.

193 “I fondi sanitari integrativi. Quale futuro per la sanità italiana?” (2011), Franco Angeli

194 CRIVELLINI M., DIVIETI L. (1993), “Servizio Sanitario Nazionale e domanda sanitaria”, Editrice

172

Nel 1992 un fattore esterno si aggiunse ad influenzare lo sviluppo della consapevolezza che il sistema necessitava di ulteriori modifiche.

Il 7 febbraio dello stesso anno venne infatti firmato in sede europea in Trattato di Maastricht, che impegnava l’Italia ad implementare una serie di riforme tese al rispetto di alcuni vincoli in materia di spesa pubblica:

- il rapporto debito pubblico/PIL non superiore al 60%; - il rapporto deficit/PIL non superiore al 3%.

In un clima caratterizzato da una maggior responsabilizzazione degli attori del sistema, soprattutto per quanto riguarda i costi, fu quindi impostata ed approvata la nuova riforma sanitaria del 1992-1993.

La legge seguì la procedura di approvazione della cosiddetta legge delega, col Parlamento che approvò una legge di pochi articoli (legge delega appunto) demandando al Governo il compito di preparare il testo di legge specifico.

I decreti legislativi furono due: il n. 502 del 30 dicembre 1992 e il n. 517 del 7 dicembre 1993.

Gli interventi di maggiore portata hanno riguardato:

- il passaggio di gran parte dei poteri gestionali dai Comuni alle Regioni;

- l’introduzione di forme di compartecipazione alla spesa (ticket) da parte dei cittadini, per cercare di ridurre i fenomeni di azzardo morale;

- il finanziamento della sanità, che dal perverso meccanismo basato sul costo storico è passato al rimborso a prestazione;

- la nascita della concorrenza fra strutture pubbliche e private e la creazione di un benchmark di riferimento per il settore pubblico, così da incentivarlo al miglioramento in termini di costo ed efficienza.

- l’aziendalizzazione delle strutture di produzione ed erogazione dei servizi sanitari, con la trasformazione di USL ed enti ospedalieri in ASL (Aziende Sanitarie Locali) e AO (Aziende Ospedaliere).195

Quest’ultimo rappresenta il fulcro della riforma, in quanto si cerca di passare da un ente pubblico caratterizzato dalla disattenzione agli aspetti gestionali ed ai

173

risultati ad un ente più vicino alle dinamiche gestionali degli enti privati, con una maggior attenzione all’equilibrio fra entrate ed uscite. In quest’ottica viene individuato un responsabile nella figura del Direttore Generale, amministratore unico nominato per un tempo determinato con un contratto di diritto privato, chiamato a rispondere del raggiungimento degli obiettivi alla Regione.

Le ASL diventano obbligate alla tenuta della contabilità aziendale, e il raggiungimento di utili o perdite diventa la misura per determinare il diverso livello di investimento o incentivi al personale.

Per quanto riguarda il meccanismo di finanziamento, viene applicato il sistema DRG (Diagnosis Related Group) o, nella versione italiana, ROD (Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi), secondo il quale si finanziano le prestazioni effettivamente erogate e non i costi sostenuti per erogarle. L’ammontare del rimborso viene determinato in base a un tariffario appositamente definito.

Il nuovo sistema crea quindi maggiore responsabilità negli operatori e nei responsabili della gestione, ed è un forte strumento di cui dispongono le Regioni per orientare lo sviluppo del sistema sanitario sul territorio: attraverso la definizione di tariffe più alte per DRG di prestazioni su cui c’è scarsa offerta si potrebbero incentivare le strutture a colmare tali carenze.

Dal punto di vista istituzionale i compiti del governo centrale rimangono inalterati, mentre la Conferenza Stato-Regioni diventa il fulcro del confronto in ambito sanitario, soprattutto per la definizione del Fondo Sanitario Nazionale.

Questo veniva poi ripartito fra le Regioni secondo la metodologia della quota capitaria196, fissa su tutto il territorio nazionale ma corretta in base alle

caratteristiche delle Regioni, come età media della popolazione, reddito medio, spesa storica e trasferimenti interregionali197

Il D.Lgs. 502 ha introdotto anche la definizione di livelli essenziali di assistenza (LEA) uniformi sull’intero territorio nazionale e introdotto per la prima volta la

196 La quota capitarla di finanziamento esprime “il valore pro capite medio nazionale necessario per

garantire la copertura del fabbisogno finanziario dei Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria” (Fondazione Promozione Sociale, 1999).

197 I trasferimenti interregionali si verificano quando le cure vengono prestate a persone residenti in una

174

competitività fra pubblico e privato, al fine di garantire il miglioramento qualitativo delle prestazioni offerte e una maggiore libertà di scelta da parte del cittadino, nonché spinto le Regioni a introdurre una prima scissione parziale fra la fornitura e l’acquisto di funzioni, sul modello delle riforme che hanno interessato il NHS inglese.

Nel complesso si volevano dare all’allora CEE (Comunità Economica Europea) garanzie di riduzione della spesa e del debito pubblico, oltre che di miglioramento della qualità ed efficienza dei servizi sanitari.

Il percorso avviato nel 1992 prosegue prima col D. Lgs. 662/1996 e il D. Lgs. 229/99.

Il primo abolisce il criterio della spesa storica per l’assegnazione delle risorse alle Regioni e introduce, come il successivo D. Lgs. 446/1997, i primi elementi di decentramento fiscale che riguardano sensibilmente anche il finanziamento della sanità. Questi aspetti verranno affrontati in seguito.

Il secondo è centrato sullo sviluppo dell’aziendalizzazione e del processo di regionalizzazione, con le Regioni che diventano nella sostanza le capogruppo di ASL e AO, nei confronti delle quali esercitano i poteri di direzione e coordinamento, come l’approvazione dei bilanci, la convalida delle scelte di investimento e di assunzione di personale, la copertura delle perdite.

Esse concorrono in maniera più forte alla definizione del Piano Sanitario Nazionale e alla determinazione dcl fabbisogno complessivo del SSN.

Con questa legge, nota anche come Decreto Bindi, il SSN viene infatti definito quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi Sanitari Regionali. Le prestazioni sociosanitarie definite dai LEA devono essere assicurate dalle ASL, mentre le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria sono di competenza dei Comuni, che provvedono al loro finanziamento come stabilito dalle leggi regionali. Gli stessi Comuni vedono riconosciuto un ruolo più incisivo nella programmazione e la valutazione dei servizi e dell’operato del Direttore Generale. Viene inoltre meglio definito l’accreditamento delle strutture, già previsto con la riforma precedente, e vengono istituiti i Fondi Integrativi del SSN.

175

Con la loro riconoscimento normativo il decreto Bindi pone il primo pilastro allo sviluppo della sanità integrativa in Italia.

Il passo più importante nel processo di regionalizzazione della sanità, con la modifica del meccanismo di finanziamento della stessa, si ha col D. Lgs. 56/2000 che va ad attuare il federalismo fiscale. L’ambizioso obiettivo che si intende raggiungere è la totale autonomia delle Regioni dal punto di vista finanziario, con la graduale scomparsa del Fondo Sanitario Nazionale, pur nel rispetto dei principi di universalità ed uniformità nell’erogazione.

Tale innovazione viene perseguita mediante:

- l’abolizione dei trasferimenti erariali verso le Regioni a statuto ordinario, a partire dal 2001, con compensazione degli stessi tramite la compartecipazione al gettito IVA;

- l’istituzione di un Fondo perequativo nazionale a vantaggio delle Regioni con “scarsa capacità fiscale”;

- l’abolizione del vincolo di destinazione per le entrate delle Regioni a statuto ordinario, a seguito della quale il settore sanità entra in competizione con gli altri settori pubblici di competenza regionale.

Il Fondo perequativo è teso a mitigare le differenze che si creerebbero fra le Regioni dove si consuma di più, e dunque con un maggior gettito IVA, e quelle dove i consumi sono più bassi; fra i parametri utilizzati, oltre alla capacità fiscale, rientrano il numero di abitanti, l’età media della popolazione, la dimensione geografica e i fabbisogni sanitari.

La responsabilizzazione dei sistemi regionali e locali si compie con la modifica del Titolo V della Costituzione, approvata il 18 ottobre del 2001, attraverso la quale si definiscono in maniera chiara le materie di competenza esclusiva dello Stato e si riconosce la piena autonomia alle Regioni in materia di finanza pubblica e sistema tributario con l’esercizio della potestà legislativa concorrente.198

176

Autonomie regionali ed enti locali possono così istituire dei tributi propri e intraprendere le proprie politiche tributarie, all’interno dei principi dettati dalla Costituzione.

La tutela della salute viene inserita fra le materie a legislazione concorrente, in cui cioè le Regioni possono legiferare all’interno di un quadro di riferimento stabilito dal governo centrale.

E’ significativo il fatto che in questa occasione il legislatore non utilizzi lo strumento della legge ordinaria o del decreto per incidere sulla materia sanitaria, ma preferisca intervenire più a fondo attraverso la modifica della Costituzione.