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L'impatto della Direttiva sulla precedente situazione italiana.

IL DANNO AMBIENTALE

9. L'impatto della Direttiva sulla precedente situazione italiana.

Si è già detto come la direttiva imponga più di un ripensamento alle tendenze interpretative e giurisprudenziali sviluppatesi in Italia a partire dal 1986.

Giova quindi ricordare quali siano tali tendenze.

Un primo punto riguarda la costruzione del bene ambiente come bene immateriale.

Al riguardo la Cassazione ha definito l'ambiente come un "bene immateriale ma giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà", che "può essere scomposta e che secondo corrente accezione dottrinaria riguardano: l'ambiente come assetto del territorio; l'ambiente come ricchezza di risorse naturali; l'ambiente quale paesaggio nel suo valore estetico e culturale; l'ambiente quale condizione di vita salubre"75.

La Suprema Corte aveva più tardi specificato come per "ambiente in senso giuridico va considerato come un insieme che, pur

75 Cass., 25 gennaio 1989, n. 440, in Corr. giur., 1989, 508 con nota di

comprendendo vari beni o valori, quali la flora, la fauna, il suolo, l'acqua etc., si distingue ontologicamente da questi in quanto si identifica in una realtà priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento con la L. 8 luglio n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più di dette componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una più ampia accezione, dovendosi avere riguardo − per la sua identificazione − non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato prima e dopo l'evento lesivo"76.

Come si è detto tale qualificazione è ormai incompatibile con il diritto comunitario e deve ritenersi superata.

Del pari superata deve ritenersi l'idea per cui la responsabilità ambientale scaturisce dalla mera violazione di norme poste a presidio dell'ambiente che pur in passato aveva caratterizzato una certa giurisprudenza italiana. In effetti le specificazioni apportate dalla direttiva impediscono di immaginare che sotto l'etichetta di danno ambientale possano collocarsi ipotesi di illecito solo formali. La centralità della nozione di misurabilità in senso fisico del danno è infatti incompatibile con tale ipotesi ove verrebbe necessariamente a mancare uno dei pilastri della fattispecie. In passato, infatti, la Corte di Cassazione penale ha ritenuto sussistere danno all'ambiente nelle ipotesi di "specifica violazione di norme poste a tutela del bene patrimoniale e immateriale dell'ambiente"77. Va peraltro sottolineato che il trend argomentativo della giurisprudenza penale della Corte di

76 Cass., 9 aprile 1992, n. 4362, in Mass. giust. civ., 1992, 588.

77 Cass. pen., 31 luglio 1990, Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 535, con nota di

Cassazione è stato piuttosto altalenante, tanto che in una successiva sentenza del 1992, i giudici delle sezioni penali avevano sostenuto il più esatto concetto che "solo dalla compromissione del bene può derivare il diritto al risarcimento, non essendo sufficiente né la violazione di una o più delle finalità perseguite con la normativa antinquinamento, né la semplice esposizione al pericolo"78.

Infine, la Corte di Cassazione penale aveva affermato che "Non danno luogo a risarcimento − di regola − violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante all'affidamento di compiti di controllo o di gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale si collega come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente"79.

Anche le Sezioni civili della Cassazione hanno elaborato, nel corso degli anni, una concezione che si distaccava nettamente da quella consistente nella mera violazione di un precetto, stabilendo che: "Il concetto di danno ambientale... accoglie il concetto di "compromissione o torto ambientale", consistente nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente. In altri termini non basta la violazione puramente formale della normativa in materia di inquinamento, ..., ma occorre che lo Stato o gli enti territoriali, ..., deducano l'avvenuta compromissione dell'ambiente"80.

78 Cass. pen., 25 maggio 1992, Cons. amb., 1993, 65, con nota di Giampietro e

Pagliata.

79 Cass., Sez. III, 14 gennaio 2002, n. 1145.

80 Cass., 1 settembre 1995, n. 9211, in Resp. civ. prev. 1996, 108, con nota di

Feola; in Giust. civ., 1996, I, 777, con nota di Giampietro; Corr. giur., 1995, 1146, con nota di Batà.

Sotto il profilo indicato quindi la direttiva rafforza una tendenza che si è già manifestata in giurisprudenza e squalifica definitivamente una lettura della fattispecie che è già stata corretta dalla medesima fonte giurisprudenziale. D'ora in poi comunque è indubbio che solo la possibilità di considerare con esattezza il detrimento arrecato all'ambiente, può consentire di fare riferimento alla fattispecie del danno ambientale, mentre, a tale titolo, la mera violazione di norme non può essere foriera, in campo civile, di alcuna reazione risarcitoria.

Più rilevante è segnalare come vi sia ormai incompatibilità tra il sistema della direttiva ed alcune, corpose, tendenze giurisprudenziali che sono state seguite in Italia nel tentativo di riassorbire la fattispecie del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986 nella formulazione generale di cui all'art. 2043 c.c. Già con la sentenza 19 giugno 1996, n. 5650 la Corte di Cassazione aveva avuto modo di osservare che "l'ambiente come bene giuridico non trova la sua fonte genetica nella citata legge del 1986 (che si occupa piuttosto della ripartizione della tutela tra Stato, enti territoriali ed associazioni protezionistiche) ma direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale; tali disposizioni primarie elevano l'ambiente ad interesse pubblico fondamentale, primario ed assoluto, imponendo allo Stato (come Stato ordinamento, comprensivo dello Stato persona e degli altri enti territoriali) una adeguata predisposizione di mezzi di tutela, per le vie legislative, amministrative ed anche giudiziarie"81.

Le argomentazioni appena esposte sono state poi sostanzialmente riprese da successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione82.

81 In Danno e Resp. 1996, 693, con nota di Colonna.

In realtà già prima della direttiva la maggior parte della dottrina aveva rilevato come tale indirizzo non potesse approvarsi per una serie di ragioni ognuna delle quali appare esauriente.

Così si è posto in luce come il riferimento alla Costituzione consente, caso mai, di predicare il danno ambientale in termini di ingiustizia di cui all'art. 2043 c.c., ma non può costituire la base per configurare una posizione giuridica soggettiva protetta da porsi in capo allo Stato. Quest'ultima infatti è la creazione della norma di cui all'art. 18 legge 349/1986 e la norma legislativa non può essere surrogata da una interpretazione delle norme costituzionali o codicistiche.

Sempre in tale direzione si deve porre in rilievo come il riferimento all'art. 2043 c.c. dia luogo ad una fattispecie di danno ambientale che è priva di quelle caratteristiche strutturali di cui invece la fattispecie prevista dall'art. 18 legge 349/1986 era munita. Ed infine si urta contro il principio della calcolabilità della responsabilità per danno ambientale che invece svolge una funzione centrale nel sistema della legge italiana e, soprattutto nel sistema comunitario così come è andato costruendosi.

Giova rimarcare come in effetti la costruzione giurisprudenziale possa essere difesa solo nelle ipotesi in cui la tutela dell'ambiente sia strettamente connessa con la tutela del diritto alla salute; ma in tale ipotesi si fuoriesce dalla fattispecie del danno ambientale in senso proprio. Simile confusione terminologica e concettuale non è tuttavia più riproponibile dopo il recepimento della direttiva, la quale, come si è visto, distingue assai bene tra la lesione dell'ambiente ed anche della biodiversità, e la lesione, o il pericolo per la salute umana al quale, specie con riguardo all'inquinamento dei suoli si ricollegano specifiche prescrizioni e non già il rifluire della fattispecie del danno ambientale in una clausola generale.

La ragione più evidente per cui l'impostazione in esame appare oggi imponibile è però legata alla natura della sua fonte. Il danno ambientale ex art. 2043 c.c. è infatti, anche a prescindere dalla

dubbia logica che dovrebbe sorreggere tale figura, una creazione del diritto giurisprudenziale italiano. Ora, la direttiva destinata a regolare sul piano europeo le ipotesi di danno ambientale ha una insopprimibile funzione di armonizzazione dei diritti nazionali in materia ambientale; sicché non si possono ammettere creazioni giurisprudenziali concorrenti con le disposizioni della direttiva a pena di contraddirne la funzione essenziale ed in definitiva di consumare una violazione palese dei principi cardinali dell'ordinamento comunitario. Né basta ad evitare simile contrasto il rilevo per cui la direttiva non esclude che i singoli Stati membri possono adottare legislazioni più protettive dell'ambiente; perché tale clausola di stile deve essere interpretata alla luce della giurisprudenza comunitaria la quale ha più volte sottolineato come tale tipo di clausola consente deroghe limitate ad una direttiva che si proponga di armonizzare la situazione giuridica nei diversi Stati membri ed in particolare non "possa essere inteso come diretto a lasciare agli Stati membri la possibilità di mantenere un regime generale di responsabilità (nel caso specifico per danno da prodotti difettosi) che differisca da quello previsto dalla direttiva"83.