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Capitolo 3. L’orientamento al mercato e il marketing

3.2 L’orientamento al mercato

L’affermazione e il consolidamento di una teoria sull’approccio al mercato – e in particolare sulla sua forma più raffinata market driven orientation – si colloca all’inizio degli anni Novanta e muove dalla considerazione che i fattori chiave di successo risultano connessi non più solo all’eccellenza nella produzione e alla capacità di contenere i costi di produzione, ma anche e soprattutto – secondo una logica di sense and respond – alla capacità di capire un mercato complesso e in continua evoluzione e di trasformare tale comprensione in strategie e piani operativi tempestivi ed efficaci utili al raggiungimento degli obiettivi posti. Di conseguenza i metodi e gli strumenti piuttosto stabili e rigidi dell’orientamento alla produzione devono divenire adattabili alle varie circostanze che si possono presentare al fine di cogliere le opportunità e di reagire alle minacce. Le imprese devono cioè sviluppare delle dynamic capabilities (Teece et al., 1997), definite come la capacità del management di realizzare un’allocazione efficiente delle risorse interne ed esterne al sistema aziendale di fronte a un cambiamento di contesto, e ciò attraverso una mediazione dei processi manageriali e organizzativi, della posizione occupata in termini geografici, tecnologici e finanziari e dei percorsi evolutivi, che a volte possono presentare delle rigidità di path dependency. In alcuni casi può essere addirittura essenziale adottare dei comportamenti proattivi

secondo una logica di market driving tramite cui anticipare i cambiamenti del mercato o esserne addirittura il motore.

Tra i contributi dei vari studiosi, i lavori di Kohli e Jaworski (1990) e di Narver e Slater (1990) costituiscono i due principali modelli concettuali che forniscono uno sviluppo sistematico di una teoria dell’orientamento al mercato.

Secondo Kohli e Jaworski tale approccio è costituito da tre processi: la generazione all’interno dell’azienda di informazioni sul mercato, la diffusione di tale intelligence tra le unità organizzative e la reattività intesa in termini di velocità di risposta alle indicazioni ottenute (traduzione delle informazioni in azioni coerenti) (fig. 3.2).

Fig. 3.2: I processi dell’orientamento al mercato

Fonte: Nostra elaborazione

Relativamente al primo punto, l’impresa deve maturare delle ipotesi sulle situazioni e i trend del mercato generando informazioni sui bisogni correnti, futuri e latenti dei clienti attuali e potenziali e analizzando i fattori esogeni che possono influenzare bisogni, preferenze e comportamenti, ossia i concorrenti, la tecnologia e la dimensione sociale e normativa. Tutto ciò per pianificare e implementare azioni adeguate a colmare i gap eventualmente esistenti tra qualità offerta e qualità attesa, ma anche tra qualità proposta e qualità erogata dai concorrenti (Mele, 2003). L’intelligence può essere prodotta attraverso vari metodi e strumenti sia informali (discussioni con i partner commerciali) che formali (analisi dei report di vendita, dati sui clienti obiettivo e sui concorrenti, ricerche di mercato sull’evoluzione dei gusti dei consumatori e statistiche di vendita nei test di mercato). Da notare come il flusso di informazioni non debba partire solo dalla direzione marketing, ma anche dalle altre funzioni: l’orientamento al mercato deve essere responsabilità collegiale di tutto l’organismo aziendale. È questo il motivo per cui non si parla di orientamento al marketing, il quale, sebbene elemento principale di interfaccia con i mercati, assume solo un ruolo di facilitatore e di supporto per il processo di nascita dell’approccio in questione.

Occorre poi dar vita a strumenti e meccanismi per la disseminazione e la condivisione delle informazioni, quali forme di comunicazione sia orizzontali che verticali, sia formali che informali, in modo da rendere partecipe tutta l’organizzazione,

L’ultima fase, la reattività dell’impresa, racchiude a sua volta sia la fase di pianificazione dell’azione, sia il momento della sua successiva esecuzione, e ciò necessariamente attraverso una

Generazione di

Cultura aziendale Orientamento al concorrente Coordinamento interfunzionale Profittabilità Focus sul lungo

termine Orientamento al

cliente

strategia di exploiting delle proprie risorse con cui incrementare la propria base di competenze distintive e sviluppare un vantaggio competitivo.

Gli autori individuano poi alcuni fattori interni in grado di favorire l’orientamento al mercato, come ad esempio una forte leadership che ne enfatizzi l’importanza e che possieda una certa propensione al rischio accettando l’eventuale insuccesso del lancio di nuovi prodotti in risposta al mutamento dei gusti dei consumatori, e delle dinamiche interfunzionali caratterizzate da un elevato grado di connessione; la formalizzazione, la centralizzazione e il numero di unità organizzative sembrano invece avere un effetto positivo sui processi di generazione e disseminazione dell’intelligence e sulla pianificazione di una risposta da parte dell’impresa, ma un effetto negativo sull’esecuzione dell’azione.

Narver e Slater definiscono invece l’orientamento al mercato come la forma di cultura organizzativa che più efficacemente ed efficientemente produce comportamenti interni all’impresa utili a creare e a consegnare valore superiore ai clienti e quindi a raggiungere un vantaggio competitivo sostenibile. Il loro modello di approccio al mercato è costituito da tre fattori di tipo comportamentale – orientamento al cliente, orientamento al concorrente e coordinamento interfunzionale – e da due criteri decisionali – focus sul lungo termine e profittabilità (fig. 3.3).

Fig. 3.3: L’orientamento al mercato come forma di cultura aziendale

Fonte: Nostra elaborazione

La creazione di valore superiore per i consumatori richiede lo sviluppo di una conoscenza sistematica e, se possibile, la costruzione di forti rapporti non soltanto con i clienti diretti, ma anche con i mercati a valle e quindi con l’intera catena del valore. È necessaria poi l’identificazione dei concorrenti (dimensione, numerosità, localizzazione e particolarità dei prodotti e dei servizi) con i

relativi punti di forza e di debolezza e le loro capacità e strategie di lungo periodo. Tutto il personale deve poi condividere quest’informazione e originare un quadro concertato riguardo alle opportunità e alle minacce competitive; a tal fine occorre che la cultura al mercato e l’associato complesso di valori aziendali siano rafforzati da un’adeguata struttura organizzativa che leghi le varie attività a sistemi di incentivazione e ricompensa.

I modelli illustrati, pur sovrapponendosi, enfatizzano aspetti diversi. Kohli e Jaworski si concentrano soprattutto sugli elementi strutturali e sulle implicazioni operative – le specifiche attività che devono essere attuate dall’impresa – dell’orientamento al mercato, come la generazione e la corretta gestione delle informazioni riguardanti tutti gli attori che operano nel mercato. Narver e Slater, in una visione meno ampia, fanno invece riferimento a due soli stakeholder – clienti e concorrenti –, non si soffermano sulla rilevanza della velocità con cui l’impresa reagisce ai cambiamenti della domanda e mettono l’accento sugli effetti determinati dall’approccio, cioè la creazione e la consegna di un valore superiore per il cliente con l’ottenimento quindi di una performance migliore rispetto a quella dei concorrenti; in questo modo si sostiene che l’orientamento al cliente è l’essenza, il cuore dell’orientamento al mercato (Slater e Narver, 1994).

Gli studi seminali di questi autori hanno poi dato un forte impulso alla crescita di una fiorente letteratura sull’argomento, stimolando un notevole interesse negli studiosi sia per il problema teorico, date anche le strette connessioni con il marketing relazionale, il management strategico delle risorse umane e quello dell’innovazione e dell’apprendimento, sia per le sue applicazioni. A tale proposito degni di nota sono degli studi empirici che dimostrano come l’orientamento al mercato abbia un effetto positivo sulla performance sia che questa sia espressa con misure oggettive in termini reddituali – ROI, crescita dei profitti – (Kohli et al., 1993) o in termini di presenza sui mercati – aumento delle quote controllate, crescita in volume e in valore – (Narver et al., 1999), sia con misure soggettive come il successo di nuovi prodotti, la soddisfazione e la fedeltà dei clienti, l’innovazione1, il senso di coinvolgimento e di appartenenza all’impresa da parte

del personale, la qualità delle relazioni all’interno dei canali di distribuzione2 e il grado di responsabilità sociale, in accordo con l’idea che la performance sia un concetto multidimensionale. Studi empirici di questo tipo sono stati fatti anche nel settore vitivinicolo; degli esempi sono i lavori di Beaujanot et al. (2003; 2006) sulla propensione delle imprese orientate al mercato a stringere rapporti stabili e duraturi con gli importatori o i distributori esteri, e di Durrieu e Toth

1 Hurley e Hult (1998) affermano che una cultura organizzativa orientata al mercato e all’apprendimento costituisce l’elemento fondante della cultura dell’innovazione perché promuove una maggiore recettività verso lo sviluppo di conoscenza, nuove idee, prodotti e processi e verso la loro successiva implementazione; solo le aziende con questa maggiore capacità innovativa possono avere successo nell’azione di risposta al mercato e raggiungere quindi livelli di performance superiori.

2 Siguaw et al. (1998) dimostrano che se il distributore percepisce il comportamento del proprio fornitore come orientato al mercato, egli adotterà simili comportamenti e dimostrerà maggiore fiducia e rispetto delle norme cooperative e un più elevato livello di coinvolgimento nella relazione.

Hofmeister (2006), che mostrano come l’orientamento al mercato abbia un effetto significativo sulle strategie di marketing, in particolare come la raccolta di informazioni abbia un impatti positivo sulle azioni di comunicazione relativamente alla scelta dei canali e dei target più idonei.

L’attenzione che il paradigma dell’orientamento al mercato ha ottenuto in ambito accademico e professionale ha poi portato alla creazione di schemi di classificazione dei comportamenti aziendali nell’attuare tale approccio. Heiens (2000), in particolare, suddivide le imprese in quattro tipologie:

− aziende strategically integrated, che indirizzano le proprie attività di intelligence sia verso i consumatori sia verso i concorrenti, e ciò con una certa flessibilità a seconda delle condizioni del mercato;

− aziende customer preoccupied, che sottolineano l’importanza delle relazioni con il cliente soprattutto in mercati dagli elevati livelli di crescita o di frammentarietà;

− aziende marketing warrior, che, in condizioni di domanda stabile, di struttura competitiva concentrata e di presenza di pochi consumatori chiave, nelle analisi di mercato si concentrano in particolare sullo studio della concorrenza allo scopo di identificare, con un confronto, i propri punti di forza e di debolezza;

− aziende strategically inept, che si focalizzano sullo sviluppo esclusivo dell’attività produttiva e della tecnologia non effettuando alcuna analisi dell’ambiente di riferimento.

Non mancano però delle critiche all’orientamento al mercato. Hamel e Prahalad (1991) suppongono che le aziende orientate al mercato potrebbero rimanere intrappolate dalla “tirannia dei mercati serviti” sviluppando innovazioni incrementali, come l’ampliamento della gamma, piuttosto che radicali, siano queste di prodotto e/o di processo. Allo stesso modo Christensen (1997) sostiene che molte imprese non mostrano una grande capacità innovativa in quanto ossessionate dai mercati. Secondo Sinkula (1994) l’elemento chiave per competere con successo nel lungo periodo è l’organizational learning, definito come lo sviluppo di una nuova conoscenza che può incoraggiare un cambiamento del comportamento aziendale e la maturazione di un tipo di apprendimento creativo e non adattivo in grado di determinare un incremento della performance rispetto ai concorrenti. Gli stessi Slater e Narver (1995) fanno notare che l’orientamento al mercato potrebbe non incoraggiare un’adeguata propensione al rischio con la conseguenza di prestare attenzione solo ai consumatori e ai concorrenti attuali ignorando quelli emergenti. Essi aggiungono poi che un’interpretazione e un’attuazione limitata dell’orientamento al mercato potrebbero portare a un incremento della conoscenza, ma soltanto all’interno dei confini tradizionali, sottostimando così l’apporto potenziale di altre fonti di informazione considerate invece da un più ampio orientamento al learning, come i fornitori, i consulenti, le aziende di altri settori e le istituzioni. A ben vedere, comunque, l’orientamento al mercato costituisce un presupposto, se non un vero e proprio substrato

culturale, per l’origine di un approccio learning oriented: la continua acquisizione di informazioni su mercati, prodotti e tecnologie consente di “imparare a imparare” a esplorare le nuove opportunità e a raccogliere le nuove sfide competitive proposte dal mercato.

In sintesi, si considera orientata al mercato un’azienda in cui l’assetto organizzativo (persone, strutture, meccanismi operativi), le scelte basilari (obiettivi, strategie, condotte) concernenti le varie combinazioni prodotto/mercato e, più in generale, la destinazione delle risorse vengono elaborati e finalizzati coerentemente a ipotesi sul mercato (situazioni e trend) e sulla realtà aziendale rispetto alla concorrenza (Raia, 2006).

Da notare come negli odierni contesti sempre più turbolenti tale sensibilità verso l’esterno divenga un fattore indispensabile non solo per conseguire il successo, ma anche semplicemente per sopravvivere (Kotler, 2004).