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Capitolo 4. Le tradizionali leve di marketing per il settore vitivinicolo

4.1 Il marketing mix

4.4.1 Private label e marchi co-etichettati

Come si è già avuto modo di evidenziare, il peso della marca commerciale è costantemente aumentato in tutti i paesi in termini sia di presenza nelle varie categorie che di quote di mercato. In Italia, in particolare, la percentuale di cibo confezionato venduto nei supermercati con private label

ha raggiunto al Nord il 20%, mentre al Sud il 15% (Terzi, 2011).

L’obiettivo del distributore con lo sviluppo di un proprio brand consiste nell’offrire un’alternativa di acquisto alle marche industriali che compongono l’assortimento di una singola categoria, in particolare un’alternativa in termini di convenienza. Le economie di costo derivanti da un minor prezzo d’acquisto, da un minor investimento in comunicazione – la bontà del prodotto è garantita dall’insegna –, da un assortimento solitamente meno profondo per formati e gusti e, talvolta, da una diversa qualità intrinseca e percepita vengono infatti trasferite al cliente con un abbassamento del prezzo di consumo. Da notare però come tale passaggio sia incompleto al fine di ottenere dei margini unitari relativamente elevati rispetto a quelli derivanti dalla vendita dei marchi industriali. Se la private label è riconoscibile – il consumatore può associare cioè marca del prodotto e marca dell’insegna – e ha successo, è possibile si verifichi anche un innalzamento della fedeltà al punto vendita, così che store loyalty e brand loyalty si alimentano a vicenda in termini di credibilità e reputazione (Lugli, 2009).

La GDO si è accostata solo di recente con un proprio marchio alla categoria del vino dal momento che la creazione di una private label in questo comparto presenta delle criticità: la marca del distributore ha il suo fondamento di marketing nel confronto con un leader di mercato ampiamente riconosciuto, e per il vino questa figura di riferimento esiste solo nella fascia di mercato più bassa del brik; inoltre, chi compra vino non cerca solo la massima convenienza, ma una serie di fattori intangibili e complessi. In ogni caso il fenomeno ha riscontrato molto successo – come visto nei capitoli precedenti, sono moltissime le insegne con un proprio brand – e risulta tuttora in rapida evoluzione: la GDO sta infatti puntando alla ricerca del marchio esclusivo legato al miglior rapporto prezzo/qualità senza però abbandonare le vecchie label mass market, ovvero il settore di fascia bassa intorno a 1 euro al litro. È questa un’evoluzione naturale in risposta alla seconda criticità evidenziata, per cui appunto le private label potranno avere un futuro nel mercato italiano solo se si sapranno trasformare in esclusivity brand: vini scelti con logiche territoriali e con criteri di marchio ombrello selezionando i vitigni più famosi e tradizionali (Terzi, 2011).

Il fenomeno della private label potrebbe apparire come una minaccia nei confronti dei produttori vitivinicoli e dei loro brand privati, che vedrebbero un aumento della concorrenza e un ulteriore incremento del potere contrattuale del distributore negli acquisti in ragione diretta della quota di vendita della sua marca commerciale (circostanza, quest’ultima, che implica un maggior investimento di risorse nel trade marketing da parte di fornitori di marca per difendere la loro posizione). A ben vedere, però, il tutto può rivelarsi un’opportunità per quelle aziende vitivinicole11

che decidessero e riuscissero a diventare copacker del distributore, ossia produttori per la stessa

11 Non si tratta necessariamente di grandi imprese o di cooperative, ma anche e soprattutto di imprese medio- piccole il cui punto di forza consiste nel saper garantire una filiera corta e controllata.

marca commerciale, beneficiando di alcuni vantaggi (Lugli, 2009).

Innanzitutto, producendo per una private label, le piccole imprese appartenenti a questo settore estremamente frammentato possono espandere la loro presenza sul mercato nazionale e vedere diminuire in parte l’interbrand competition. Se è vero che ci può essere una cannibalizzazione dei propri prodotti, si ha però un aumento della quota di vendita complessiva della categoria, con benefici economici derivanti dalla produzione riservata alla marca commerciale. Il cannibalismo di scaffale, tra l’altro, può essere ridotto adottando una strategia multibranding con posizionamenti diversi. Non esiste poi la possibilità che la marca commerciale soppianti totalmente quella industriale dal momento che la distribuzione non può integrare anche il ruolo tecnologico nell’innovazione di prodotto, rivestito solo dall’impresa produttrice in un giusto contesto di riservatezza.

In secondo luogo, tra distributore e copacker si instaura una vera e propria partnership di tipo strategico: il copacker non viene cambiato di frequente per spuntare migliori condizioni di acquisto in quanto questo vantaggio sarebbe più che compensato dalla necessità di ricostruire totalmente un rapporto di marketing con il nuovo fornitore. Tutto ciò porta a una globalizzazione del rapporto verticale e delle trattative: è difficile che il distributore chieda ingenti premi di referenziamento e penalizzi sul piano espositivo e del posizionamento a scaffale un fornitore che è anche suo copacker; allo stesso tempo nasce una certa disponibilità a discutere anche le altre leve di marketing, quali l’assortimento e il prezzo. Si assiste quindi a una certa dipendenza del distributore nei confronti del copacker che fa soffrire meno quest’ultimo dell’aumento del potere contrattuale dell’insegna a livello generale di categoria.

Naturalmente le insegne adottano una procedura molto rigorosa e selettiva per individuare e valutare i fornitori/produttori più adatti allo scopo. Pertanto, tra i tanti elementi, è importante che le varie imprese si dotino di una certificazione di qualità a livello di processo produttivo per assicurare determinati standard, che siano in grado di garantire la necessaria massa critica e che dimostrino affidabilità e professionalità; certamente anche il fattore prezzo è importante, ma non quanto gli altri elementi. Inoltre è richiesta un’adeguata informatizzazione dal momento che ormai si lavora quasi esclusivamente in rete per gli ordini e i pagamenti. La stessa selezione dei fornitori, tra l’altro, avviene spesso anche attraverso Internet con una procedura basata sull’autocertificazione, un successivo controllo della veridicità di quanto dichiarato da parte del distributore e la presentazione delle proprie offerte da parte dei candidati; l’e-sourcing può infatti migliorare in modo consistente l’efficacia e l’efficienza del processo raggiungendo un numero molto più ampio di fornitori potenziali in un tempo molto più breve. Ecco quindi un ulteriore motivo per le imprese vitivinicole ad aprirsi al mondo della tecnologia e di Internet. Naturalmente appena uno dei requisiti viene meno il rapporto decade. Da sottolineare infine il fatto che la GDO

non sia molto interessata a instaurare un rapporto di copacking con semplici imbottigliatori in quanto, non vinificando in proprio, ma comprando un po' ovunque grandi quantità di vino al prezzo più basso a prescindere dalla zona di produzione, non sono in grado di garantire la qualità e la provenienza del prodotto (Lugli, 2009).

Finora si è parlato di private label realizzate per la GDO; le stesse considerazioni valgono comunque anche nel caso di clienti operanti nel settore Ho.re.ca: numerosi sono infatti i ristoranti che propongono sulla carta vini marchiati con il nome della loro insegna.

Simile alla private label è infine il marchio co-etichettato, con la differenza che accanto al nome dell’insegna dell’azienda commerciale o del ristorante compare anche quello del produttore. La logica prevalente in questo caso è quella del co-marketing (abbreviativo della definizione inglese cooperative marketing) o partnership marketing, che definisce una collaborazione tra attori sotto forma di accordo di investimento congiunto riguardante una o più variabili di marketing. Da notare come qui non si tratti di una partnership di tipo orizzontale, ossia tra attori posti allo stesso livello della catena del valore, bensì verticale, tesa a favorire l’integrazione tra imprese operanti in stadi diversi. Più precisamente, il marchio co-etichettato fa capo alla teoria del co-branding, secondo cui i partner convengono l’utilizzo congiunto o disgiunto delle rispettive marche in vista del perseguimento di obiettivi comuni o autonomi, ma tra loro compatibili; la relazione collaborativa implica la co-definizione dei benefici funzionali e/o simbolici offerti dal prodotto e la co-firma dello stesso da parte delle marche coinvolte nell’accordo. E infatti nel marchio co-etichettato tra impresa vitivinicola e attore della GDO o del settore Ho.re.ca è possibile intravedere elementi sia di co-branding funzionale, consistente nell’indicazione sul prodotto di due o più marche implicate nella realizzazione dello stesso così da rendere esplicita la loro collaborazione nella definizione degli attributi fisici del bene, sia di co-branding simbolico/affettivo, il quale consiste nell’associare a una data marca un secondo brand generatore di attributi simbolici addizionali di tipo psico- sociale o esperienziale; l’accordo in questione viene anche indicato con il termine co-naming (Busacca e Bertoli, 2003).