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Capitolo 4. Le tradizionali leve di marketing per il settore vitivinicolo

4.1 Il marketing mix

4.4.2 Il punto vendita in una prospettiva di marketing esperienziale

Da sempre il mondo vitivinicolo ha concepito e organizzato lo spazio commerciale – sia esso una cantina, un’enoteca o un ristorante – come un punto di incontro tra domanda e offerta atto a esplicare una funzione meramente transazionale, e ciò nell’ambito di un orientamento al prodotto pressoché esclusivo. Allo stesso modo alcune aziende commerciali hanno puntato principalmente

sull’offerta di servizi di tipo logistico allo scopo di garantire la disponibilità dei beni nel tempo e nello spazio, relegando così gli altri asset immateriali a una posizione residuale (Zaghi, 2009).

Negli ultimi anni, però, i consumatori, in accordo con uno spirito eclettico indirizzato ad acquisti ibridi in punti vendita diversi, hanno cominciato a ricercare nello shopping e nei luoghi di acquisto una valenza non solo funzionale, ma anche simbolica, emozionale e sensorialmente gratificante, in una parola, esperienziale. Da ciò la necessità per cantine, enoteche e ristoranti di diventare luoghi di comunicazione e di intrattenimento in grado di soddisfare le esigenze di autogratificazione, socializzazione, partecipazione e svago del pubblico attraverso l’interattività sia con il personale che con la struttura (Castaldo e Botti, 1999).

Il punto vendita deve cioè essere reso – tramite un’adeguata ridefinizione delle politiche di retailing mix – un palcoscenico di esperienze il cui fattore critico di successo è dato dalla human retail interaction, ossia dall’interazione tra la fisicità corporea del cliente e l’ambiente di vendita e tra il design e la multisensorialità, così da trasformare l’atto commerciale in divertimento al pari di qualunque altra attività riservata al tempo libero. Tra l’altro è questo uno dei presupposti alla base della sostituzione dello status symbol, vale a dire l’ostentazione del valore economico del prodotto vino, con lo style symbol, ossia la capacità della bevanda stessa e del luogo in cui viene comperata o consumata di esprimere l’identità e le preferenze di ciascun individuo (Zaghi, 2009).

Quando una persona è consapevole del livello di aspettative e di soddisfazione e quindi del valore percepito originato da un luogo fisico, secondo la psicologia ambientale si può parlare di place attachment. Più precisamente, se si forma un equilibrio positivo tra un individuo e il suo grado di soddisfazione legato a un sistema di aspettative relative a condizioni di stabilità, sentimenti di affetto, maggiore conoscenza del luogo e possibilità di mantenere o incrementare la propria collocazione in esso, la persona prova un senso di appartenenza al posto; se invece diviene negativo, la stessa avverte di essere alienata, distaccata, se non intrappolata. Quando tutto ciò si verifica nell’ambito di punti commerciali, si parla di store attachment (Borghini e Zaghi, 2007; Zaghi, 2008).

Da notare come nella spiegazione si sia prestata un’adeguata attenzione all’uso dei termini “spazio” e “luogo”, che costituiscono due categorie concettuali differenti: lo spazio può essere connotato attraverso le coordinate fisiche del tempo, della velocità, della direzione e del movimento, e non è proprio di nessuno; il luogo, al contrario, presuppone una certa stabilità o posizione nello spazio, ed è riempito, occupato fisicamente o evocato mentalmente da qualcuno tramite un’attribuzione di significati che, essendo soggettiva, lo rendono diverso e unico rispetto a come percepito da altri (Tuan, 1977).

Per rendere un punto vendita esperienziale è necessario innanzitutto definire la sua identità, intesa come il risultato congiunto di più elementi riconducibili non più semplicemente

all’assortimento e alle politiche di prezzo, ma a una filosofia globale che, secondo una logica di pianificazione strategica, parte dall’individuazione del segmento di clientela cui ci si vuole rivolgere per arrivare poi alla definizione dello stile complessivo che si vuole comunicare, del tipo di offerta da proporre e della cultura aziendale che si vuole diffondere.

Seguendo poi un criterio di comunicazione integrata, dopo aver effettuato delle analisi sul proprio posizionamento di mercato, sull’ubicazione del punto vendita e sulla concorrenza, o semplicemente usando l’intuito puntando a un’innovazione di design, occorre ideare un concept, ossia una linea guida chiara, evidente e condivisibile per la definizione dello spazio verso la quale far confluire le varie decisioni di comunicazione: tutto deve essere predisposto ed eseguito in modo coerente per esprimere un’immagine congruente all’identità aziendale e per differenziarsi dai competitor.

Numerosi sono i fattori che possono essere declinati sul concept contribuendo alla definizione dell’immagine del punto vendita e all’intensificazione dell’interazione tra il cliente e l’ambiente; è il caso dell’organizzazione di eventi o di attività ricreative e di aggregazione, dell’individualizzazione del servizio offerto da un competente personale specializzato, e di nuovi contenuti e associazioni tra il mondo del vino e le diverse sfere della vita di una persona in modo da ricorrere a una comunicazione più emozionale che informativa e tecnica.

Ma l’elemento più importante e che qui si intende approfondire è senza dubbio l’atmosfera, un silent language della comunicazione sempre vigente come attributo dell’ambiente circostante e percepibile attraverso i sensi costituito da un insieme di elementi tangibili e intangibili ai quali diversi studiosi di psicologia ambientale (Mehrabian e Russell, 1974; Donovan e Rossister, 1982; De Luca, 2000; De Luca e Vianelli, 2001 e 2003) hanno attribuito la capacità di influenzare le percezioni, gli stati emozionali e quindi anche il comportamento di acquisto degli individui; la disciplina economica (Pine e Gilmore, 2000) e quella di marketing (Schmitt e Simonson, 1997; Schmitt, 1999) hanno analizzato invece l’atmosfera in una prospettiva esperienziale ponendo particolare attenzione alla percezione sensoriale con la stimolazione di vista, olfatto, udito, tatto e gusto, mentre a livello manageriale si è parlato di nuovo elemento di differenziazione dell’offerta commerciale (Lucas et al., 1994; Castaldo, 2001).

Le variabili che costituiscono l’atmosfera, ciascuna con una diversa rilevanza a seconda del tipo di luogo, possono essere classificate in due categorie principali (Zaghi, 2006 e 2008):

− il design esterno, ossia tutto ciò che comunica con chi non è ancora giunto all’interno del punto vendita; esso racchiude i fattori strutturali su cui opera il visual merchandising, come la facciata, l’insegna, l’entrata, le vetrine, le dimensioni dello stabile e il parcheggio, cui si aggiungono i negozi vicini e l’aspetto delle zone limitrofe;

climatizzazione, i muri perimetrali, le scale, gli ascensori, l’arredamento e il personale, dai profumi, le musiche e i colori tipici di una prospettiva polisensoriale, ma soprattutto dalle scelte di visual merchandising.

Tenendo presente che esiste una differenza tra l’atmosfera proposta dal progettista e quella percepita soggettivamente e in modo non univoco da ogni cliente, l’atmosfera può influenzare il comportamento dei consumatori come mezzo di creazione o di attenzione, o di un messaggio o di percezioni; nei primi due casi interviene direttamente sulla decisione generica di selezione di un determinato punto vendita, nel terzo sul processo di scelta, incoraggiando in particolare gli acquisti di impulso. Studi empirici hanno poi dimostrato che un ambiente piacevole infonde stati d’animo positivi con la propensione ad agire con più entusiasmo, spontaneità e libertà (Rook e Gardner, 1993), rende lo shopping più piacevole e soddisfacente (Bellenger e Kargaonkar, 1980) e aumenta la permanenza e il contatto con il personale (Jarboe e McDaniel, 1987). Pertanto, sebbene la decisione finale di acquisto dipenda dalla situazione generale determinata dall’ambientazione fisica e sociale, dalla disponibilità di tempo, dalle motivazioni che inducono alla scelta e dagli stati antecedenti, ossia le condizioni fisiologiche temporanee e gli umori del cliente, risulta fondamentale progettare l’atmosfera globale e coordinare tutti i suoi vari elementi, soprattutto alla luce del fatto che i tempi per attirare l’attenzione del cliente sono molto ridotti: ad esempio, affinché una vetrina comunichi il suo messaggio e influenzi le impressioni di un soggetto bastano in media undici secondi, mentre per l’interno di un punto vendita circa venti (Genzini e Costantino, 1998).

Tra le componenti dell’atmosfera si è accennato al visual merchandising, che ora si intende analizzare. Si definisce merchandising un insieme di metodi che contribuiscono ad assegnare al prodotto un ruolo di vendita attivo attraverso una sua opportuna presentazione e ambientazione all’interno e all’esterno del punto vendita. Le leve a sua disposizione sono in particolare: il layout delle attrezzature, relativo all’organizzazione degli spazi, alla scelta degli strumenti espositivi e, tramite la loro allocazione, all’identificazione dei percorsi interni al luogo commerciale; il layout merceologico, concernente la sequenza dei settori e dei reparti lungo il percorso definito e i criteri di aggregazione della merce; il display interno, relativo alle tecniche e alle modalità di esposizione e di assegnazione dello spazio ai prodotti (Lugli, 2009).

I principali obiettivi del merchandising sono la stimolazione alla visita del punto vendita per incrementare gli acquisti aggiuntivi e l’ottimizzazione della redditività della superficie esaltando i prodotti a maggior marginalità. Di conseguenza, se usato in maniera a se stante, tale strumento può incidere negativamente sull’atmosfera stessa non essendo in grado di esaltare le potenzialità della comunicazione visiva.

Per far fronte a questo rischio si tende allora ad ampliare il suo campo di azione includendo anche tutte quelle decisioni riguardanti l’architettura commerciale, l’insegna, le vetrine, l’entrata, il design degli spazi, la segnaletica, la cartellonistica e la cartellistica, giungendo così alla definizione di visual merchandising, da intendere come il marketing “del punto vendita nel punto vendita” tramite l’operare di tecniche di comunicazione visiva che ottimizzano non solo la redditività ma anche la soddisfazione dei clienti (Pellegrini, 1993). E ciò per far fronte anche a un contesto postmoderno in cui il primato dell’immagine e il dominio del visibile fanno sì che la presentazione, l’ambientazione e la spettacolarità dei prodotti comportino un effetto cornice per cui ciò che è correttamente disposto nel punto vendita risulta opportuno, mentre ciò che è sprovvisto di attrattività estetica non viene neanche considerato; anzi, l’assenza di qualità nell’esibizione infonde una percezione negativa di inadeguatezza dell’offerta nel soddisfare i bisogni.

Il visual merchandising, un’attività miltifunzionale che richiede competenze non solo di marketing ma anche di semiotica, architettura, design e psicologia sociale, si distingue per un contatto diretto tra l’assortimento e il cliente dal momento che permette di accedere alla merce anche senza l’aiuto del personale di vendita. Si parla di accessibilità fisica quando la clientela può maneggiare i prodotti per conoscerli meglio e analizzarne le caratteristiche per giudicarne la corrispondenza alle proprie esigenze. Alla luce di tutto ciò, il visual merchandising potrebbe apparire irrilevante all’interno di un’enoteca, di un ristorante o di un qualsiasi altro luogo di vendita assistita. A ben vedere, però, l’accessibilità di cui si parlava può essere anche solo visiva nei casi in cui la merce sia ben riconoscibile e leggibile ma la clientela non può accostarvisi fisicamente dovendo richiedere l’assistenza degli addetti; l’importante è che i prodotti siano resi accessibili psicologicamente e intellettivamente, che gli individui si sentano cioè tranquillizzati dal fatto di poterne comprendere le caratteristiche, l’utilità e la qualità. Pertanto il visual merchandising può rappresentare un servizio aggiuntivo rispetto alla vendita assistita in grado di migliorare la funzionalità del punto vendita: mentre i consumatori possono valutare da soli i prodotti scegliendoli in modo più o meno libero e approfittando dei momenti di attesa per riflettere e cercare altri stimoli all’acquisto, il personale di vendita può incrementare la sua produttività commerciale trascurando le informazioni generiche veicolate autonomamente dai prodotti e concentrandosi sull’assistenza al cliente nelle fasi più complesse del processo di acquisto.

Per concludere, si intende evidenziare come il concepimento esperienziale di un punto vendita possa apportare importanti benefici all’impresa, sia essa industriale o commerciale. I produttori hanno modo di vendere i propri vini in un luogo dotato di un posizionamento coerente con l’identità e l’immagine della propria cantina. I commercianti possono invece ottenere un vantaggio competitivo duraturo dal momento che l’imitazione da parte di un competitor di un concetto o di un insieme di valori è più difficile rispetto a quella di tecniche di organizzazione assortimentale ed

espositiva; aumentando la soddisfazione del cliente durante il processo di acquisto si innalza poi l’immagine dell’insegna e di conseguenza la fedeltà a essa; relativamente al binomio prodotto- servizio, acquisisce maggiore importanza la seconda componente, rendendo il commerciante più forte nella gestione di attività creatrici di valore per il cliente e meno dipendente dal ruolo giocato dalla marca e quindi dal produttore vitivinicolo nel processo decisionale. Infine, in una prospettiva economico-reddituale, un ambiente accogliente e confortevole aumenta l’affluenza e il tempo di permanenza dei frequentatori, il livello di spesa complessivo e la probabilità di ritorno.

Accanto a questi vantaggi ci sono però degli eventuali rischi che possono tramutarsi in veri e propri svantaggi. Nel ripensamento di un punto vendita bisogna cercare innanzitutto di evitare un mero effetto novità che comporti un’effimera temporaneità dell’esperienza senza accrescerne il valore. L’uso di molteplici strumenti e di atmosfere complesse può portare poi a posizionamenti ridondanti e poco chiari mettendo a disagio il cliente con percezioni incerte e contraddittorie. Infine, nel calcolo del profitto può esserci il rischio di non quantificare alcuni dei costi sostenuti per l’approccio esperienziale, che solitamente rientrano nelle seguenti categorie: costi di pianificazione e controllo, relativi alla creazione dell’esperienza e alla verifica dei risultati; costi di acquisto dei materiali per la determinazione dell’atmosfera; costi del personale, visti come le spese di formazione sia dei dipendenti che dei soggetti esterni utilizzati per gli eventi occasionali; costi dello spazio, intesi come costo opportunità di occupare l’ambiente in modo scenico o con eventi; costi di comunicazione per dare visibilità e notorietà al concept esperienziale (Zaghi, 2009).