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LE BIOMASSE COME RISORSE RINNOVABILI

LE ENERGIE RINNOVABILI

1.2 La biomassa di origine vegetale e l’ambiente

La disponibilità di energia condiziona il progresso economico e sociale di una nazione, ma il modo con cui l’energia viene resa disponibile può condizionare negativamente l’ecosistema e quindi la qualità della vita.

Se le nazioni industrializzate continueranno a prelevare e a consumare le fonti fossili al ritmo attuale - e le nazioni emergenti tenderanno ad imitarle - il pericolo maggiore, nel breve e nel medio termine, non sarà tanto quello dell’esaurimento di tali fonti (che pure è importante nel lungo periodo, dato che attualmente le fonti fossili vengono consumate ad un ritmo che è di centinaia di migliaia di volte superiore a quello con cui si sono prodotte), quanto quello di provocare danni irreversibili all’ambiente.

Molto opportunamente, quindi, singole nazioni, come pure gli organismi sovranazionali, si sono mossi negli ultimi anni per trovare gli strumenti più adeguati per coniugare progresso e salvaguardia dell’ambiente, nella consapevolezza della portata planetaria del problema.

Uno degli strumenti disponibili per realizzare questo obiettivo è l’uso più esteso delle fonti rinnovabili di energia, che sono in grado di garantire un impatto ambientale più contenuto di quello prodotto dalle fonti fossili.

Nel breve e medio termine, l’importanza delle fonti rinnovabili non si misura tanto sulla loro capacità di sostituire quote rilevanti di fonti fossili; anche il loro contributo a limitare i danni ambientali prodotti dai predetti combustibili, seppure significativo, non è decisivo.

Per contro, nel lungo periodo le fonti rinnovabili possono essere determinanti, sia per ragioni di sicurezza degli approvvigionamenti, sia per l’acuirsi delle emergenze ambientali.

Pertanto, è importante avviare da subito il loro graduale inserimento nel sistema energetico. Proiezioni al 2020 indicano che le fonti rinnovabili potrebbero coprire, per quella data, dal 20% al 30% del fabbisogno energetico mondiale.

La natura diffusa delle fonti rinnovabili consente di coniugare produzione di energia e presidio e gestione del territorio, contribuendo a contrastare i fenomeni di spopolamento e degrado. Per la stessa ragione, le fonti rinnovabili offrono la possibilità di un più diretto coinvolgimento delle popolazioni e delle amministrazioni locali, con la attuazione del concetto “pensare globalmente, agire localmente”.

Con il termine biomassa viene indicata la materia organica, prevalentemente vegetale, sia spontanea che coltivata dall’uomo (residui agricoli e forestali, colture dedicate/energetiche o energy crops), scarti dell’industria agro-alimentare, reflui degli allevamenti zootecnici, parti organiche dei rifiuti urbani.

La biomassa costituisce una risorsa rinnovabile e inesauribile, a patto che essa venga sfruttata non oltrepassando il ritmo di rinnovamento biologico. Altri limiti sono

rappresentati dall'estensione delle superfici coltivate e dai vincoli climatici che condizionano la crescita delle diverse specie.

Poniamo l’attenzione, in questa tesi, sulle biomasse di origine vegetale provenienti:

• da boschi e foreste naturali;

• da piante coltivate appositamente per scopi energetici,;

• dai residui altrimenti inutilizzabili di produzioni destinate all'alimentazione umana o animale;

• da rifiuti organici.

e daremo solo un cenno su quella di origine animale.

Tale materia vegetale, per effetto del processo di fotosintesi clorofilliana, costituisce in natura la forma più sofisticata per l’accumulo dell’energia solare.

Nel processo di conversione della biomassa l’ossigeno si combina con il carbonio delle piante e produce, tra l’altro, anidride carbonica, che, come abbiamo visto, è uno dei maggiori responsabili dell’effetto serra. Tuttavia la stessa quantità di anidride carbonica viene assorbita dall’atmosfera nella fase di crescita delle piante; nel caso di un processo ciclico (Short Rotation Forestry), in cui le piante raccolte sono rimpiazzate con nuove, l’immissione netta di anidride carbonica nell’atmosfera è nulla (Benjamin W. et al., 1997;

Marzetti P., 1997; European Commission, 1996). Uno studio svolto da ricercatori giapponesi (Yokoyama S.Y. et al, 1997) ha messo in evidenza che la produzione ciclica (SRF di specie arboree) di biomassa nel mondo su una superficie stimata di 340 Mha avrebbe l’effetto di riduzione della CO2 pari a 1,4 bilioni di tonnellate di carbonio.

Oltre all’effetto di riduzione della CO2 la biomassa contiene poco zolfo rispetto ai combustibili tradizionali e un contenuto di azoto variabile a seconda della specie. Perciò emissioni incontrollate di SOX dalla combustione di biomassa sono trascurabili rispetto alle emissioni incontrollate dalla combustione di carbone ed olio, mentre le emissioni di NOX possono essere paragonabili, anche se dipendono molto dal processo di conversione e dal contenuto iniziale di azoto nella biomassa (Cook J. et al., 1996).

Gli effetti ambientali, su biodiversità e habitat naturali, su fertilità ed erosione del suolo e sulla qualità dell’acqua, dovuti alla coltivazione di grandi quantità di biomassa a scopo energetico su terreni incolti o comunque marginali sono sicuramente positivi. È sostenuto in letteratura che l’utilizzo di set-aside per colture energetiche dovrebbe ridurre il run-off (ruscellamento superficiale), diminuire l’erosione del suolo e migliorare la qualità dell’acqua (Perlack et al., 1992, cit. in Cook J. et al., 1996). È ovvio che ogni effetto positivo o negativo delle colture energetiche sull’erosione del suolo dipende dalla specie da far crescere e dal tipo di sviluppo, dalle caratteristiche specifiche del suolo (nutrienti, struttura, drenaggio, temperatura, umidità e microfauna) così come dall’uso precedente a quello di tipo energetico. È utile ricordare che in condizioni di management

agricolo-forestale ideale del terreno, 1 cm di suolo potrebbe riformarsi in circa 12 anni, mentre in condizioni normali di gestione agricola, 1 cm si riforma in circa 40 anni (Braunstein et al., 1981, cit. in Dalianis C. et al., 1996).

Da non sottovalutare è anche l’effetto positivo sulla struttura del suolo, per due ragioni di base:

1) perché la grande copertura delle colture energetiche interrompe la pioggia e l’acqua raggiunge il terreno lentamente, così da mantenerne inalterata la sua struttura;

2) perché la causa principale della disgregazione della struttura del suolo sono i trattori e i movimenti delle altre macchine agricole, specialmente quando il terreno è bagnato. Paragonate con la maggior parte delle colture convenzionali quelle energetiche richiedono meno cure e quindi movimenti di macchine. In alcuni casi, comunque, la durata delle operazioni, come la raccolta invernale, ed il peso delle macchine impiegate può avere un più grande impatto rispetto al traffico di mezzi più leggeri durante i mesi estivi.

Effetti positivi si riscontrano anche nell’economia delle risorse di acqua, alcune specie (eucalyptus) sono addirittura in grado di crescere senza irrigazione, e nell’efficienza di utilizzo di tali risorse. Questo aspetto può essere maggiormente apprezzato in quelle regioni dell’Europa del sud in cui il problema della penuria d’acqua renderebbe difficilmente realizzabile un progetto energetico (Dalianis C. et al., 1996).

Inoltre, il miglioramento dei processi di umificazione e l’aumento dell’humus permettono di migliorare la fertilità dei suoli, fornendo così un’ulteriore compensazione in aggiunta al valore delle produzioni.

Un’esemplificazione di questo contributo, anche molto conservativa, può proiettare crescite di biomasse annuali pari a 18 t/ha (ss) in rotazione semplice, o 9 t/ha in seconda coltura; considerando sia la parte produttiva (2/3) che quella residuale nel terreno (1/3), ne deriverebbero 12 t/ha utili (ss, equivalenti a 20 t di combustibile) in rotazione semplice, o 6 t/ha (ss, equivalenti a 10 t di combustibile) in seconda coltura.

l’immobilizzazione del carbonio avviene in due settori:

- immobilizzazione nelle biomasse: l’immobilizzazione, analogamente a quella delle foreste, riguarda il carbonio temporaneamente sequestrato nella massa vegetale ed è pari a 4,5 t/ha di carbonio per 9 t/ha di biomasse, equivalenti a 15,5 t/ha di CO2;

- immobilizzazione dell’humus: il contributo all’umificazione innescato dalla rotazione recupera al processo anche i residui delle colture alimentari, raddoppiando il substrato disponibile. Considerando un’isoumificazione dello 0,2 ed una persistenza del 97%, ne deriva la formazione di 1,16 t/ha di humus l’anno, equivalente all’immobilizzazione di 2,7 t/ha di CO2 o di 0,73 t/ha di carbonio, che può proseguire per parecchi decenni.

La produzione di raccolti energetici può avere anche effetti negativi sul terreno, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche chimiche. L’uso di fertilizzanti organici ed inorganici, di pesticidi chimici, possono portare ad un run-off carico di sostanze nutritive e tossiche, oppure alla contaminazione delle falde sotterranee. Studi interdisciplinari in Germania hanno mostrato un leggero decremento nel pH del terreno in piantagioni di pioppo e salice nei primi tre anni dopo l’impianto degli alberi. Questa diminuzione del pH non è sorprendente, dato che la maggior parte dei terreni agricoli sono mantenuti entro una reazione neutra o debolmente acida attraverso ripetuti trattamenti con calce. La diminuzione della reazione del suolo è spesso accompagnata da una diminuzione nella capacità di scambio di calcio e da un aumento nella capacità di scambio di manganese.

Durante gli stessi studi è stato trovato che, 10 anni dopo l’impianto di pioppi a ciclo breve, il carbonio organico confinato nella parte più alta del terreno è aumentato significativamente, al contrario quello contenuto negli strati più bassi è diminuito.

Comunque, da altri studi, è evidente che il contenuto totale di carbonio nel terreno cresce col tempo. Nel corso del tempo il contenuto di materia organica del terreno si sviluppa in direzione di un nuovo, specifico equilibrio. Studi cronosequenziali in Nord America su foreste di pino hanno mostrato un aumento lineare nel carbonio organico del terreno (35-400%) fino all’età di 50 anni della piantagione (Wilde, 1964; Schiffmann & Johnson, 1989; cit. in Verwijst Th., p. 63, 1996).

Studi, eseguiti anche in Piemonte, che hanno riguardato specie a rapido accrescimento destinabili ad energia (esempio sorgo da fibra, canna comune, ecc.) hanno dimostrato che si possono avere produzioni sino a oltre 36 t/ha per anno di sostanza secca.

In linea puramente teorica, al solo fine di stimare un dato limite fisico oltre al quale non sia possibile andare, supponiamo che tutta la SAU (Superficie Agricola Utilizzata), rilevata al 4° Censimento Generale dell’Agricoltura 1990-1991 (ha 1.776.401), del Piemonte fosse destinata alla specie a più rapido accrescimento e si avessero sempre le favorevoli condizioni che hanno consentito in qualche caso di avere la citata produttività massima.

Si trova che il Piemonte potrebbe dare 63.950 kt/anno di sostanza secca, che corrispondono, assumendo un fattore di conversione energetica approssimativo di 2,5 t di sostanza secca per 1 tep, a circa 25.580 ktep/anno, con una percentuale di utilizzazione della energia solare incidente dello 0,72%. I rendimenti di conversione nella fotosintesi delle usuali colture agricole, grano, mais e riso, sono nettamente inferiori. Considerato anche il peso dello stocco, il mais, che tra i tre dà la produzione maggiore, supera di poco le 10 t/ha di sostanza secca.

Il rendimento di conversione della luce solare non è ovviamente un parametro significativo a guidare l’agricoltura nelle sue scelte, per cui il settore si indirizza verso le produzioni che siano prima di tutto economiche e si deve constatare che oggi non vi è una domanda di biomassa per energia che giustifichi di per sé la sostituzione delle attuali utilizzazioni agricole e forestali, da parte delle cosiddette “colture energetiche” (per opportuna chiarezza

si precisa che esulano, dall’ambito della presente trattazione, argomenti come la sostituzione di carburanti di origine fossile con biocarburanti e le relative colture energetiche ad esse finalizzate).

L’aumento della concentrazione totale di azoto nel terreno, conseguente alla fertilizzazione, dipende da specifiche condizioni in situ. Dopo l’impianto di colture energetiche è stato riscontrato sia un aumento di concentrazione di azoto nel terreno sia una sua diminuzione, anche grande in alcuni casi. La soluzione di nitrati nel suolo può essere significativamente ridotta in terreni piantati con alberi a crescita veloce, per quanto grande sia l’apporto di azoto. L’uso responsabile ed oculato dei fertilizzanti, cioè l’apporto di quantità adeguate alla grandezza degli alberi ed alle loro necessità di nutrienti, potrebbe ridurre il pericolo di una potenziale contaminazione da nitrati delle acque di falda.

Aronsson et al. (1996, cit. in Verwijst Th., p. 64, 1996) conferma che in stand di alberi a ciclo breve la concentrazione di nitrati ed ammoniaca è bassa (< 1 mg/l) e conclude che una SRF può essere coltivata in modo intensivo senza rischi di sostanziale percolazione di azoto. Per quanto riguarda la parte di azoto che può volatilizzarsi come NOx è generalmente trascurabile in terreni ben drenati, ma attenzione deve essere posta in terreni particolarmente umidi, perché la quota di azoto può arrivare anche a 40 kg per ettaro (Struwe & Kjoller, 1991, cit. in Verwijst Th., p. 64, 1996).